Il libro è scaturito dalle lezioni tenute dall'Autore a Tubinga nel semestre estivo del 1967 ad uditori di tutte le Facoltà. Un libro magistrale di riflessione teologica e di orientamenti in un tempo di fermenti e inquietudini.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Sono passati più di trent’anni da quando è stata scritta quest’opera; in questo lasso di tempo la storia mondiale è progredita a passo sostenuto. A ben guardare, due anni sembrano aver segnato gli ultimi decenni del secolo appena trascorso: il 1968 e il 1989. Il 1968 è legato all’emergere di una nuova generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l’opera di ricostruzione del dopoguerra, ma che guardò all’intero svolgimento della storia, a partire dall’epoca del trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista. L’anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi socialisti in Europa, che lasciarono dietro di sé un triste strascico di terre distrutte e di anime distrutte. E, tuttavia, chi pensava che l’ora del messaggio cristiano sarebbe nuovamente scoccata si è illuso: sebbene il numero dei cristiani credenti nel mondo non sia modesto, in questo momento storico il cristianesimo non è riuscito a porsi distintamente come un’alternativa epocale. La ‘dottrina di salvezza’ marxista, in sostanza, era nata, nelle sue numerose versioni variamente strumentate, come unica visione del mondo scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l’umanità nel futuro. Di qui il suo difficile congedo, anche dopo il trauma del 1989. Basti pensare a quanto contenuta è stata la discussione sugli orrori dei gulag comunisti, a quanto inascoltata è rimasta la voce di Solzenicyn: di tutto questo non si parla. A imporre il silenzio è una sorta di pudore. Persino al sanguinario regime di Pol Pot si accenna soltanto occasionalmente, en passant. Ma è rimasto il disinganno, accanto a una profonda confusione. Nessuno oggi crede più alle grandi promesse morali. E proprio in questi termini era stato inteso il marxismo: una corrente che auspicava giustizia per tutti, l’avvento della pace, l’abolizione degli ingiustificati rapporti di predominio dell’uomo sull’uomo e via dicendo. Per questi nobili scopi si pensò di dover rinunciare ai principi etici e di poter utilizzare il terrore come strumento del bene. Da quando, anche solo per un momento, sono affiorate in superficie, visibili a tutti, le rovine dell’umanità prodotte da quest’idea, la gente preferisce rifugiarsi nella pragmatica o professare pubblicamente il dispregio per l’etica. Un tragico esempio è quello della Colombia, dove all’insegna del marxismo è stata intrapresa in passato una lotta per la liberazione dei piccoli agricoltori, soffocati dai grandi capitalisti. Al suo posto oggi è rimasta una repubblica di ribelli sottratti al potere statale, che vive apertamente del traffico illecito di droga e non cerca per questo giustificazioni morali, soprattutto perché, soddisfacendo la domanda dei paesi ricchi, riesce a sfamare un popolo che altrimenti faticherebbe a trovare un suo posto nell’ordine economico mondiale. In situazioni confuse come questa non è forse compito del cristianesimo tentare sul serio di ritrovare la propria voce per ‘introdurre’ il nuovo millennio al suo messaggio, per proporlo come segnavia, comprensibile e universale, del futuro?
Dov’è stata, in tutti questi anni, la voce della fede cristiana? Il 1967, anno della nascita di quest’opera, ribolliva ancora dei fermenti del primo periodo post-conciliare. Il concilio Vaticano II si era proposto di rinnovare il ruolo del cristianesimo come motore della storia. Nel XIX secolo, infatti, si era diffusa l’opinione che la religione appartenesse alla sfera soggettiva e privata, e che a questi ambiti dovesse limitare la propria influenza. Proprio perché relegata alla sfera soggettiva, la religione non poteva porsi come forza determinante per il grande corso della storia e per le decisioni da assumere in essa. Terminati i lavori del concilio, quindi, doveva essere di nuovo chiaro che la fede dei cristiani abbraccia l’intera esistenza, è un punto cardine della storia e del tempo e non è destinata a limitare la propria sfera di influenza alla sola soggettività. Il cristianesimo tentò – perlomeno nell’ottica della chiesa cattolica – di uscire dal ghetto in cui si trovava recluso dal XIX secolo e di tornare a coinvolgersi pienamente nel mondo. Parlare in questa sede dei dissidi e dei contrasti interni alla chiesa derivanti dall’interpretazione e dall’adozione del concilio sarebbe superfluo. Nella determinazione del ruolo del cristianesimo nella storia ha influito soprattutto l’idea di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo. Se negli anni Trenta Romano Guardini aveva coniato (giustamente) l’espressione «distinzione di ciò che è cristiano» (Unterscheidung des Christlichen), oggi tale distinzione sembrerebbe aver perso la sua importanza in favore, piuttosto, del superamento delle distinzioni, dell’avvicinarsi al mondo, del coinvolgersi nel mondo. Quanto rapidamente queste idee potessero uscire dalla cerchia dei discorsi ecclesiastici accademici e acquisire un taglio più pratico cominciò a essere evidente già nel 1968, all’epoca delle barricate parigine, quando si celebrava un’eucaristia della rivoluzione e, con essa, si sperimentava un nuovo connubio tra chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione, in attesa di tempi migliori. La partecipazione in prima linea di comunità studentesche cattoliche ed evangeliche ai movimenti rivoluzionari nelle università europee ed extraeuropee non fece che confermare tale tendenza.
Il bagliore di questa nuova conversione di idee in prassi, di questa nuova fusione di impulso cristiano e di azione politica a livello mondiale fu particolarmente vivido in America Latina. Per oltre un decennio la teologia della liberazione sembrò indicare alla fede la nuova direzione da prendere per tornare ad essere incisiva nel mondo, in quanto al mondo nuovamente congiunta grazie alle nuove conoscenze e alle nuove direttive dell’epoca. Che i paesi latinoamericani fossero spaventosamente contrassegnati da repressione, da una dominazione iniqua, dalla concentrazione della proprietà e del potere nelle mani di pochi e dallo sfruttamento dei poveri è un fatto indiscusso, tanto indiscusso da ingenerare un bisogno di intervento. E, poiché questi paesi erano nella maggior parte cattolici, non poteva esserci dubbio circa le responsabilità della chiesa e la necessità da parte della fede di affermarsi come strumento di giustizia. Ma in che modo? Sembrava, a quell’epoca, che l’unica strada percorribile fosse il marxismo. Sembrava che Marx avesse assunto il ruolo che nel XIII secolo aveva ricoperto il pensiero aristotelico, una filosofia precristiana (ossia ‘pagana’) da battezzare per riavvicinare l’una all’altra fede e ragione e per porle in un rapporto corretto. Chi, tuttavia, accoglieva Marx (o le varianti del pensiero neomarxista) come rappresentante della ragione universale non aderiva semplicemente a una filosofia, a una visione dell’origine e del senso dell’esistenza, bensì e soprattutto a una prassi. Perché questa filosofia è sostanzialmente una ‘prassi’, che crea innanzitutto ‘verità’, non la presuppone.