Il Vaticano II, un concilio pastorale
EAN 9788868790301
Come emerge dal titolo, Serafino Lanzetta, con il suo recente volume, persegue l’intenzione di dare «un contributo teologico per un’ermeneutica più adeguata da applicare al Vaticano II» (26), avvalendosi di un metodo i cui principali momenti sembrano tre: (1) l’interpretazione del Concilio “a partire dalla tradizione” (intendendo però con “tradizione” sostanzialmente i Concili di Trento e il Vaticano I); (2) l’interpretazione delle dinamiche del Concilio come un superamento, “imposto” dai Padri e teologi d’oltralpe, degli schemi preparatori, caratterizzati dall’Autore come dottrinali e dogmatici, in favore di una formulazione pastorale ed ecumenica delle dottrine cattoliche che renderebbe il Concilio non definitorio ma dichiaratorio; (3) la visione della Chiesa che prescinde dalla sua collocazione nel tempo e nella società, cosa che esclude ogni bisogno di confronto con la modernità, facendo apparire il Concilio non come una “risposta” della Chiesa ad una crisi sociale ed ecclesiale esistente, bensì come inizio monocausale di quella crisi religiosa dell’Occidente che perdura ancora oggi. Si tratta di tre aspetti caratteristici del metodo che muovono da una prospettiva decisamente astorica, essenzialista e deduttivistica, sulle orme di alcune espressioni di certa teologia preconciliare. Come si evincerà dalla disamina del volume, si tratta di premesse che ben difficilmente potranno valere come sufficienti agli effetti di una lettura più oggettiva ed adeguata del Concilio stesso. E se l’Autore non esita a valutare negativamente autori e posizioni assai più profonde e articolate rispetto a quelle da lui presentate, stupisce la mancanza di dubbio e di interrogazione critica sul punto di vista che egli ha assunto, come pure quella di un esame critico e accurato dei tre aspetti metodologici che abbiamo menzionato.
Il primo elemento viene affermato in maniera chiara quando Lanzetta sottolinea che «non vi era nessun motivo per interpretare il Vaticano II come correzione del Vaticano I. Questa dichiarazione potrebbe essere d’aiuto anche oggi» (343). Mentre la dottrina del Vaticano I sarebbe definita, quella del Vaticano II si dovrebbe considerarla solo proposta (cf.367); già in questo si rispecchia, come del resto in molti altri passi, che il modello di Concilio assunto dal nostro Autore è quello del Concilio di Trento e del Vaticano I (cf.245). L’opera di ressourcement alla scuola dei Padri della Chiesa, il recupero della tradizione liturgica come reale luogo teologico e il ritorno alla Scrittura quale “anima della teologia” sono menzionate soltanto en passant; in compenso, però, il Tridentino e il Vaticano I definiscono per il nostro Autore l’essenza della Chiesa e questa essenza definita è ciò che viene a sua volta anteposto a tutti i Concili. In questo modo, tanto i concili anteriori al Tridentino, quanto
il Vaticano II, vengono relativizzati per mezzo della formula: «prima c’è la Chiesa e poi i suoi concili» (421).
Per quanto riguarda il secondo elemento, l’Autore avanza la tesi che, essendo stati rifiutati gli schemi iniziali perché «carent[i] quanto all’indole pastorale» (182), «il fine pastorale [e si può aggiungere, secondo Lanzetta: ecumenico; cf.157] del Concilio ha giocato un ruolo così determinante da indirizzare anche il magistero conciliare verso un livello generale autentico ordinario», quindi senza «definitività» (423). A nostro avviso, il problema non consiste in questa lettura, oggettivamente giusta, dell’Autore, ma nel suo completo fraintendimento dell’importanza che il Concilio attribuisce a tale «livello generale autentico ordinario» che, a detta del nostro Autore, colloca il Vaticano II al di sotto dei due Concili precedenti, mentre era proprio la rivalorizzazione di questo aspetto nei confronti di quello definitorio ciò che il Vaticano II si proponeva. Ed è a partire da questo fondamentale fraintendimento che l’Autore procede a relativizzare senza alcun limite le affermazioni del Concilio, elencando alcuni pronunciamenti di Padri conciliari appartenenti all’ala conservatrice del Concilio ed evitando ogni tipo di confronto teologico con le posizioni che il nostro Autore classifica come “progressiste”. Ora, ecco la conclusione dedotta con stile tardo-neoscolastico, poiché il Vaticano II è privo di “definitività”, ne consegue che «le cose che il magistero conciliare dichiara come dottrina della Chiesa» sono «suscettibili di nuove formulazioni più precise a causa di possibili errori» (430). Da questa conclusione, di per sé formalmente giusta, l’Autore desume il diritto di relativizzare le affermazioni del Concilio, dimenticando però che questa operazione presuppone l’accoglimento della svolta conciliare verso il metodo “pastorale”, cosa che egli però rifiuta categoricamente. In questo momento, quindi, Lanzetta realizza un’autocontraddizione performativa. Questa si esprime ulteriormente nella posizione secondo la quale il Vaticano II elaborerebbe un’ermeneutica che si ritorce contro se stessa: ma egli non si accorge che questa “autoconfutazione” del Concilio si produce solo procedendo da un’ermeneutica preconciliare, quando cioè si riconosce «la carità più grande […] nel distinguere l’errore dalla verità» (447) e che «non si tratta […] solo di condannare gli errori quanto soprattutto di asserire la verità in modo inequivocabile» (448), secondo i parametri preconciliari.
Il rifiuto di ogni confronto con la modernità, che vale come terzo elemento, si evince innanzitutto dal rifiuto di qualsiasi pluralità all’interno del dibattito teologico. Nei tempi moderni – questa la tesi dell’Autore – si assisterebbe solo ad uno smarrimento di identità da parte della teologia, che ha come conseguenza una «contraddittoria produzione teologica» che va al di là di ogni «legittimo pluralismo» (54, cf.160): a questo punto sarebbe opportuno chiedere al nostro Autore con quali criteri egli intenda determinare il pluralismo definito “legittimo”, poiché un eventuale pluralismo “illegittimo”, qualora si trattasse di errore o di eresia, non apparterrebbe più alla categoria del “pluralismo” all’interno della dottrina, in quanto costituirebbe il suo abbandono. Ma Lanzetta intende colpire proprio tale senso autentico di “pluralismo” quando si rammarica che oggi «le teologie sono contrastanti. Soprattutto le prediche, che a volte rappresentano un grande pericolo di disorientamento per i fedeli» (362). A prescindere dal fatto che una predica sbagliata non è necessariamente riconducibile ad una teologia, ciò che qui emerge è il rapporto fra “contenuto” e “forma” della fede, problema teologico da sempre dibattuto e che l’apparato concettuale ed essenzialista di ascendenza neoscolastica tende spesso a nascondere più che a risolvere. Ne abbiamo un esempio nel presente volume, in cui il nostro Autore concorda, da un lato, con l’intenzione del Concilio di mantenere la “sostanza” cambiando la “forma”, come se si trattasse di una “distinzione reale”; dall’altro lato, però, conclude che ogni nuova teologia che riflette sulla sostanza della fede servendosi di un apparato concettuale nuovo, non è più collocata a livello di “forma”, ma viene giudicata come cambiamento “sostanziale” della dottrina. E accade così che la formula del Vaticano II, quasi come un “cavallo di Troia”, viene impiegata per delegittimare le novità teologico-dogmatiche, sia quelle presenti nello stesso Concilio sia quelle che dal Concilio sono state ispirate (cf.51-57).
Lo studio dell’Autore è suddiviso in cinque capitoli affiancati da una Presentazione di Manfred Hauke (9-19) e da alcuni Rilievi conclusivi (421-449). Un’ampia, ma estremamente unilaterale, Bibliografia (451-479) e un Indice dei nomi (481-486) chiudono il volume.
Nel primo capitolo si considerano i termini principiali per la lettura del Concilio Vaticano II (43-90). Viene formulata l’idea fondamentale con la quale, come un cantus firmus che attraversa tutta l’opera, sostiene che non è stata mantenuta la «distinzione tradizionale tra dottrina e pastorale […] lasciando i due concetti in una sorta di ondeggiamento generale» (30). L’annuncio della formulazione di «un possibile principio ermeneutico» (37) non viene però realizzato in modo argomentato e sistematico, ma affidato all’economia generale del libro nella quale è però sempre riconoscibile e che si risolve nella difesa dello status quo preconciliare. Ciò viene giustificato con una scelta di metodo che considera soltanto il magistero definitorio, quale si è formato nel Tridentino e nel Vaticano I, come espressione della fede cattolica. A questo magistero, come del resto confermano anche Rahner e altri teologi classificati come «progressisti» (274), il Vaticano II non ha aggiunto nulla. Ma secondo il nostro Autore, la preoccupazione pastorale ed ecumenica avrebbe spesso superato di molto ciò che un semplice cambiamento di “metodo” avrebbe concesso. Va comunque osservato che per “metodo” il nostro Autore, dimenticando la lezione del realismo di S. Tommaso e rifugiandosi in un apriorismo astratto, intende un semplice “strumento” con il quale si applicano dottrine già definite e antecedenti al metodo stesso: da qui l’inseguimento quasi idolatrico della «precisione e […] chiarezza dogmatiche» (72) e “pure”, senza compromessi, rispetto alla quale il Vaticano II non può che risultare un momento tendenzialmente pericoloso e fuorviante circa la siffatta comprensione definitoria del magistero ecclesiale. A ben guardare, però, nella permanente preoccupazione di sminuire la novità del Vaticano II ed evitare che possa apparire come un Anfang (421) che mette in ombra i XX Concili Ecumenici precedenti (in realtà si interessa solo degli ultimi due), l’Autore non riconosce al Vaticano II la stessa dignità degli altri Concili Ecumenici, preferendo dequalificarlo come un concilio senza definizioni, caratterizzato da un metodo ecumenico e pastorale che esporrebbe la fede cristiana più al dubbio che alla chiarezza.
Polemizzando con la categoria “evento” (cf.73), Lanzetta costruisce, al contrario, una tradizione coerente, lineare e assolutamente priva di rotture e cambi di percorso (cf.75). Più nel dettaglio, vengono criticati gli studi di Sauer e Theobald, che non si sono limitati all’interpretazione del principio “pastorale” come mera applicazione esteriore del dogma, ma vi hanno letto un nuovo principio che mette al centro l’esperienza della fede (cf.34s.). Anche se la pastoralità è “preponderante”, essa secondo il nostro Autore non può costituire un nuovo principio teologico ma, al massimo, valere come metodo prediletto di questo Concilio (cf.36) al quale viene paradossalmente rimproverata «una visione metafisica» (65); ora, francamente, è difficile dire se ci si debba (negativamente) stupire per la riduzione della “metafisica” all’essenzialismo astorico e astratto della neoscolastica (la sola alla quale l’Autore si riferisce o che, probabilmente, conosce) e che è cosa assai diversa dalla grande tradizione classica e tommasiana, o per l’incapacità, quasi sempre pregiudiziale, di comprendere autori moderni, quali ad es. K. Rahner, di cui tutto si può criticare, tranne che la mancanza di una visione metafisica. Ma l’antirahnerismo dell’Autore è troppo consolidato e viscerale per permettere una valutazione fondata, serena e argomentata, o, semplicemente, scientifica.
Davanti a una così grande quantità di contrasti interpretativi tra la visione di Lanzetta e i documenti conciliari, non ci si può che meravigliare del fatto che Lanzetta non venga mai sfiorato dal dubbio circa le proprie sicurezze e che l’acribia di tanti altri e autorevoli interpreti del Vaticano II non possa essere, se non superiore, almeno al pari della sua. Come anche il fatto che il Vaticano II, al pari degli altri Concili ecumenici, meriti a pieno titolo la qualifica di “ecumenico”. Ma forse è proprio questa la cosa che “disturba” di più la prospettiva del nostro Autore.
Il difetto metodico e sistematico che caratterizza l’inizio dell’opera (e cioè la tendenziale esclusione del principio ecumenico e pastorale e della pluralità di posizioni all’interno della teologia) si riproduce anche nel secondo capitolo, in cui Lanzetta presenta sette posizioni e/o autori, senza tuttavia offrire una minima giustificazione dei criteri di scelta, ma limitandosi semplicemente a dichiarare «esemplari» (159) le posizioni scelte. Non è però soltanto la mancanza di metodo nella scelta degli autori a fare difetto, ma anche la coerenza concernente l’esposizione degli argomenti che di questi autori vengono analizzati. Stupisce infatti l’abbondante spazio concesso ad un autore critico nei confronti del pluralismo teologico, quale si configura Parente, mentre si rinuncia ad un confronto serio e scientifico con posizioni diverse e semplicemente rifiutate, come nel caso di Rahner, la cui produzione teologica è certamente più articolata e vasta rispetto a quella di Parente (cf.116-121). La terza persona di riferimento, Laurentin, viene citata attraverso una sua valutazione post-conciliare (cf.122-126), mentre Küng si trova inserito e criticato per le sue aspettative “ecumeniche” nei riguardi del Concilio (cf.126-130); si passa poi al Card. Betti, al quale è dedicato un maggiore spazio a motivo della lettura da questi compiuta del rapporto fra Scrittura e Tradizione rispetto al Concilio Vaticano I e al Tridentino (cf.131-142). Il nostro Autore evidentemente non condivide però la determinazione dell’importanza della Tradizione ricollegata all’interpretazione della Sacra Scrittura, il che costituirebbe una «certa discontinuità del Vaticano II rispetto a Trento e al Vaticano I» (142). Infine, egli riassume la visione ecclesiologica di Scheffczyk sull’identità tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica (cf.143-151), e critica la lettura del Concilio come «evento storico» da parte degli esponenti della “Scuola bolognese”, tra cui Bruno Forte (cf.151-158).
Già dopo i due primi capitoli è difficile evitare l’imbarazzante impressione che l’Autore non distingua sufficientemente tra “teologia” e “magistero”: non si spiega diversamente la sua paura nei confronti di quelle che chiama «teologie ecclesiali» (al plurale) (54). Significativa risulta poi la “conclusione” a proposito della presenza di Rahner nel Vaticano II: poiché «l’episcopato tedesco dipende[va] in gran parte da Rahner» (177), è proprio il teologo tedesco che va individuato come il responsabile dell’indebolimento della teologia romana e mediterranea, come pure della “deformazione” pastorale ed ecumenica del Concilio. Se tutto ciò richiede ben altra ricerca e fondazione scientifica, risulta più comprensibile il rammarico dell’Autore per la considerazione ecumenica riservata ai protestanti, molto maggiore di quella dedicata agli ortodossi (cf.190).
I capitoli principali (cap. 3-5) trattano di tre temi centrali del Concilio: del rapporto tra Scrittura e Tradizione (cf.163-263), dell’appartenenza alla Chiesa (cf.265-368) e della dottrina mariologica (cf.369-419). Essi sono volti ad enuclearne la dinamica delle «epifanie pastorali» a partire dagli schemi iniziali fino alle formulazioni definitive. Nel primo e nel secondo caso si trattava di schemi presentati da Ottaviani in piena sintonia con i due concili precedenti e nella convinzione di esporre la dottrina «secondo le necessità del tempo» (170, cf.275) e in linea con il «carattere anche difensivo» (172) di ogni concilio in quanto tale. Sulla linea di Ottaviani si trovava anche Parente, che ribadiva la dottrina tridentina o di Pio XII (cf.178, 290). Proprio l’ecumenicità e la pastoralità sono le chiavi di lettura con cui l’Autore paragona i relativi schemi iniziali con la versione testuale definitiva. Egli critica il fatto che gli schemi iniziali furono rifiutati, anche se è consapevole che, ad es. nel caso di De fontibus, c’erano buoni argomenti per farlo: ossia (1) che «risultava contrario al magistero (scritturistico) di Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII», (2) per l’esigenza di «consultare la Pontificia Commissione Biblica» e, soprattutto, (3) «per il fatto che lo schema, nel primo capitolo, sembrava ignorare gli studi moderni sulla Rivelazione, sulla Sacra Scrittura e sulla Chiesa» (171). Questi argomenti non raggiungono, però, per l’Autore il peso che ha l’argomento della continuità con il Tridentino e il Vaticano I. Ancora una volta, anche qui la posizione dei teologi dei primi schemi, tra i quali Ottaviani e Parente, non viene fatta oggetto di alcuna analisi teologico-critica, come pure non vengono considerate le motivazioni teologiche dei “progressisti”. Lanzetta si limita, su un puro piano positivistico, a considerare soltanto i meccanismi con cui questi ultimi riuscirono a far superare gli schemi iniziali e ad influire sui processi conciliari. Consiste dunque in questa dinamica, e non negli argomenti teologici, il “torto” dei cosiddetti “progressisti”. Il superamento degli schemi iniziali viene presentato quasi come un’usurpazione, e il riconoscimento di una piena disposizione al “dialogo” fatta nei confronti dei sostenitori dello schema iniziale – con la motivazione che «normalmente, coloro che erano favorevoli allo schema non erano contrari alle modifiche da apportare» (180; cf.274s.) – è la premessa per indurre a concludere che ai “progressisti” d’oltralpe una tale disponibilità mancava.
Le preoccupazioni ecumeniche e pastorali avrebbero portato poi a delle formule definitive di compromesso, aprendo lo spazio alle interpretazioni post-conciliari perniciose (237). Contrariamente a queste, l’Autore preferisce la chiarezza dogmatica definitoria, anche se le decisioni interpretative che a questa vengono premesse appaiono, dal punto di vista teologico, alquanto discutibili. Ad esempio, si lamenta che la Tradizione verrebbe ridotta a «strumento interpretativo, quasi ci si fosse dimenticati di quel plus che offre alla fede in ragione della sua unità rivelativa con le Scritture» (237): ma senza indagare e discutere in che cosa possa consistere un tale plus, una simile affermazione può ben difficilmente reclamare di costituire l’unica oggettività teologica.
Inoltre, per fare un altro esempio, secondo Lanzetta il subsistit in di LG 8 è veramente «da leggersi alla luce dell’est della Mystici Corporis» (326). Ma una tale affermazione meritava perlomeno una pur breve problematizzazione: ignorando tanti ed eccellenti studi che negano la possibilità di identificare semplicemente e assolutamente “est” con “subsistit” (un nome fra tutti: W. Kasper), l’Autore si limita a dichiarare questa «identità sostanziale» (357) e a ripetere continuamente la propria posizione, come se questa continua ripetizione possa sostituire la fatica argomentativa. Infine, preoccupato che «si offuschi il dato dogmatico della salvezza solo nella Chiesa» (356), il nostro Autore critica che la definizione dell’appartenenza ecclesiale sarebbe risultata così troppo “ampia” e “inclusiva”, il che spiegherebbe la necessità e la molteplicità dei tanti documenti successivi al Concilio finalizzati al chiarimento della posizione cattolica (cf.361); manca tuttavia, come già in altre parti, una riflessione teoretica che giustifichi le premesse dalle quali l’Autore muove le sue critiche al Vaticano II. La stessa mancanza si esprime nell’affermazione, a proposito della discussione sulle affermazioni mariane, che «[s]arebbe stato un atto molto imperfetto della Chiesa che un Concilio non parlasse anche della Madonna, soprattutto in questi tempi dove si vedeva un massimo conflitto tra i fedeli e Satana» (373)
Per Lanzetta, il carattere pastorale ed ecumenico sono dunque le due facce della stessa medaglia erronea (cf.157) che, con un «eccessivo entusiasmo» (33), pervade l’intero Concilio (cf.184-186): questo, infatti, non si sarebbe preoccupato dell’aspetto dogmatico nel formulare quei testi che l’Autore indica come oggetto di critica. Ciò che, secondo il nostro Autore, rimane di un Concilio difettoso, di una «chiara precisazione della sua natura e di conseguenza del tenore dei suoi documenti» (161), non è nemmeno una vera e propria definizione, ma solo un’opera di traduzione di alcune dottrine «in termini teologico-pastorali per i tempi moderni con cui il Concilio chiedeva il dialogo» (244). Secondo il risultato delle analisi dell’Autore, sono stati soprattutto i Padri tedeschi a voler evitare un fraintendimento troppo giuridico (cf.285) di queste dottrine: ora, però, solo «sapendo perché il Concilio ha detto così, si potrebbe anche migliorare il concetto teologico» (237), che significa ricondurre di nuovo il metodo ecumenico e pastorale a quello dogmatico-dottrinale e giuridico. Si può dire che, alla fine di tutto, sia questo il principio teologico-ermeneutico proposto dal nostro Autore.
Infine, è doveroso annotare che l’intero volume è ricco di affermazioni generali e vaghe, specialmente proprio là dove l’argomentazione teologica sarebbe stata oltremodo necessaria. Ad esempio, viene detto che lo “spirito del Concilio” sarebbe stato «molto spesso confuso con lo spirito del mondo» in una «“primavera” costruita a tavolino da alcuni esperti della pastorale» (25). Pur prescindendo dall’imperdonabile generalizzazione dell’affermazione, che può indistintamente riguardare tutti e nessuno, una simile dichiarazione, per nulla supportata da testi e argomentazioni, si configura come una delle tante frasi polemiche e prive di contenuto a cui l’Autore ci ha già abbondantemente abituato. Oltretutto costituisce anche un’evidente negazione della storia, poiché una “primavera”, prima e dopo del Concilio, c’è stata veramente, e sarebbe assurdo, oltre che maliziosamente ingenuo, volerla liquidare come “costruzione” dello stesso Concilio.
Inoltre, per fare un altro esempio, l’Autore critica Rahner per aver tralasciato, nel suo testo sulla rivelazione, «la questione del limbo per i bambini morti senza battesimo e privi dell’uso di ragione» (196), non considerando che lo stesso J. Ratzinger, già nel 1984, aveva espresso tutti i suoi dubbi teologici circa questa dottrina e, una volta divenuto papa Benedetto XVI, approvò un documento della Commissione Teologica Internazionale nel quale vi riconosceva una “visione eccessivamente restrittiva della salvezza”.
Considerando gli interrogativi posti all’Autore, ma anche tutti quelli che egli ha ignorato o evitato, non può che destare seria perplessità leggere che questo testo dovrebbe essere considerato come l’esempio di una «trattazione brillante» (Hauke, 18).
Tentiamo una considerazione finale su un volume il cui unico merito – anche se perseguito in maniera pregiudiziale, unilaterale e scientificamente scorretta e insufficiente – consiste nell’avere riportato una mole di materiali storici intorno alle dinamiche interne del Concilio Vaticano II (compito che, peraltro, altri e in modo assai più convincente ed equilibrato già avevano svolto). Ci si può facilmente rendere conto di trovarsi davanti ad un bivio importante: o si tiene conto delle nuove condizioni dei tempi, in cui si trova non solo il mondo ma anche la Chiesa, che vive nel mondo senza essere del mondo, e che quindi impedisce di considerare le novità ecclesiali come cedimenti o abbandoni di un patrimonio intangibile, oppure non resta che dubitare della possibilità che nel futuro della Chiesa, stando al criterio ermeneutico sostenuto dall’Autore, possano essere celebrati ancora dei Concili Ecumenici. Anche perché, come ricordava il Card. Congar – grande protagonista del Vaticano II e suo affidabile interprete – la Tradizione non è un’immobilità museale, ma il debito che la fedeltà alla Rivelazione compiuta in Gesù Cristo mantiene nei confronti del futuro. O anche, come ricordava S. Giovanni XXIII, che la Chiesa non è un museo da custodire, ma un giardino da coltivare.
È certamente legittimo fare del Vaticano II letture diverse, talvolta anche contrastanti, anche perché è lo stesso Concilio ad aver lasciato in sospeso alcune domande e questioni. Circoscriverne l’interpretazione però ad una lettura minimalistica, più preoccupata di negare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” nel mutare dei tempi, anziché cogliere l’occasione per celebrare la perenne giovinezza del Vangelo, e il preferire uno sguardo preoccupato e nostalgico, rispetto alla missione richiesta dal futuro e, per di più, infine, vedere nel Concilio stesso un elemento di preoccupazione che spinge a dichiararne la “pastoralità” quasi per sminuirne la forza dottrinale e missionaria, tutto ciò sembra costituire il più grande fraintendimento dello stesso Vaticano II.
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2014
(http://www.pul.it)
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Francesco Andolfatto il 10 ottobre 2017 alle 15:54 ha scritto:
Libro tecnico di non facile lettura ma che prova a portare luce sullo sviluppo dei documenti del Concilio Vaticano II, ormai divenuto la carta costitutiva della Chiesa del. L'autore risale alle fonti degli stessi padri conciliari per capirne l'intenzione e interpretare lo spirito che li guidava alla redazione di tali documenti. Valido sussidio di studio, ampia bibliografia. Consigliato