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Giacomo Della Chiesa arcivescovo di Bologna (1908-1914). L'«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV
(Varia)EAN 9788849804591
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DETTAGLI DI «Giacomo Della Chiesa arcivescovo di Bologna (1908-1914). L'«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV»
Tipo
Libro
Titolo
Giacomo Della Chiesa arcivescovo di Bologna (1908-1914). L'«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV
Autore
Scottà Antonio
Editore
Rubbettino Editore
EAN
9788849804591
Pagine
830
Data
2002
Collana
Varia
COMMENTI DEI LETTORI A «Giacomo Della Chiesa arcivescovo di Bologna (1908-1914). L'«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Giacomo Della Chiesa arcivescovo di Bologna (1908-1914). L'«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV»
Recensione di Giorgio Fedalto della rivista Studia Patavina
Il pontefice Benedetto XV ebbe un “ottimo noviziato” dal 1908 al 1914 come arcivescovo di Bologna, la città più importante dopo Roma negli ex stati della chiesa. È difficile trovare opere tanto documentate e ricche di informazioni analitiche come quella che don Antonio Scottà ha dedicato all’illustre personaggio in anni difficili che peraltro lo dovevano preparare ad imprese ancor più impegnative. Il poderoso volume, pubblicato a cura dell’Istituto per la storia della Chiesa di Bologna, con prefazione del card. Giacomo Biffi ed introduzione di Alessandro Albertazzi e Salvatore Baviera, si qualifica come “un deciso passo avanti in una strada che dovrà essere proseguita”. Esso va dunque segnalato non solo per la ripresa degli studi su un pontefice grande e lungimirante, pur se poco ricordato, ma anche per l’accurata documentazione che lo distingue, tale da non sottovalutare alcun elemento, notizia, informazione, che possano essere utili per la ricostruzione del personaggio, nel suo ambiente e nella difficile situazione storica del momento. Basti ricordare il nome di Pio X che promosse all’arcidiocesi di Bologna mons. Giacomo Della Chiesa, dopo sette anni occupati come sostituto per gli affari ordinari in Segreteria di stato (1901-1908). Se sempre la Chiesa ha incontrato anni difficili, questi non erano certamente facili, quando, perduto il potere temporale, la curia romana e gli stessi cattolici si ponevano il problema di una significativa presenza in ambito politico, così da poter rivendicare il riconoscimento dei propri diritti. Mentre una parte del mondo cattolico, con Romolo Murri in testa, spingeva la Chiesa verso il terreno politico, con drastiche misure Pio X volle ben distinguere l’aspetto temporale da quello spirituale, lasciando ai cattolici l’impegno di lavorare nella vita politica, attenuando gradualmente le note proibizioni.
Mons. Della Chiesa era bene a conoscenza della problematica agitata in quegli anni, sia nel primo periodo romano, sia negli anni bolognesi, quando a contatto col dibattito politico locale era costretto a prendere misure adeguate, opportune, non in disaccordo col pontificato romano. Erano gli anni in cui il movimento socialista si affermava negli ex stati della Chiesa con forti ricadute sull’ordinamento locale dei comuni, delle scuole, delle parrocchie, per non dire delle idee nuove del liberalismo che con la loro incidenza influivano sulla mentalità delle classi sociali. L’offensiva socialista aveva concentrato i suoi sforzi ideologici “nello smantellare le strutture portanti della fede cristiana, in particolare in rapporto alla famiglia e quindi alla vita morale, ed alla comunità parrocchiale alla quale intendeva sostituire… la Lega cooperativa”. Uomini ed ecclesiastici responsabili, come papa Sarto e mons. Della Chiesa, non potevano non preoccuparsene per le conseguenze immediate o di lunga durata, che quella linea avrebbe provocato. Quello “era il progetto di una società alternativa, laica e materialista, che veniva propagandato” e che in vaste zone della Romagna e dell’Emilia “aveva portato il deserto”.
Di fronte a tale situazione l’arcivescovo di Bologna mise in atto tutti gli strumenti che la tradizione pastorale gli offriva: visite e lettere pastorali, presenza continua ai problemi della diocesi, cura personale del clero, soprattutto una spiritualità particolare, qui riscoperta anche indirettamente, attraverso quanto l’arcivescovo scriveva o faceva, sviluppata in ragione dei suoi doveri, con la particolare devozione all’Eucaristia, al Sacro Cuore, alla Madonna, alle anime del Purgatorio. Don Scottà privilegia specialmente gli aspetti pubblici del suo ministero, specie in una città come Bologna al centro di fermenti mai più sopiti. È vero che l’arcivescovo scriverà più tardi nella relazione per la visita ad limina che “la vita cristiana e morale dei bolognesi, in generale è lodevole… piantata in profondissime radici nei cuori di quasi tutti”, ma i problemi che si ponevano allora erano quanto mai nuovi e difficili persino da immaginare, pur se mons. Della Chiesa “è stato uno degli uomini che con maggior perspicacia, quasi con spirito profetico, ha intuito ed interpretato, non solo il tempo in cui è vissuto ed operato, ma anche un futuro per la Chiesa”, dando “precisi orientamenti sia sul punto della missione propria, sia su quello del dialogo o del rapporto con il mondo e la società civile e politica”.
La società civile e politica! Una regione così vivace ed attiva si sentiva tanto frenata in un tempo in cui l’arcivescovo, pur difensore dei diritti della Chiesa, non si faceva illusioni sul futuro di Roma capitale. La perdita del potere temporale, con la privazione di una identità politica sovrana, che all’inizio sembrava catastrofica, ci si è resi poi conto che non comportava grave danno alla Santa Sede, in quanto il suo riconoscimento da parte di numerose nazioni offriva una garanzia che neppure il governo italiano poteva disconoscere. Di qui le moderate istanze dell’arcivescovo, non ancora cardinale, con papa Sarto e la sua curia, asserragliati dal mondo moderno che dal tempo di Pio IX era avanzato in modo irreversibile.
Pio X era pure alle prese con l’ondata modernista, che dalla Francia si estendeva a macchia d’olio anche in Italia. Mons. Della Chiesa ne era a conoscenza diretta per aver seguito personalmente la pratica “Loisy”. Cosa fare? Lasciar sviluppare il movimento significava permettere l’introduzione di idee non esatte nel circuito del pensiero cattolico, nelle scuole di teologia, nei seminari, tra il clero; bloccarlo e condannarlo rigidamente voleva dire attirarsi l’accusa di intransigenza, con ripercussioni pure in ambito pedagogico. Uomini diversi esplicitano modi di fare differenti: solitamente resta emergente quello di chi ha la massima responsabilità; ma ci potevano essere anche altri indirizzi, meno pessimisti. Per di più l’ecclesiastico giovane pensa ed agisce solitamente in modo diverso dall’anziano; per non dire dell’educazione ricevuta e dell’ambiente in cui si è cresciuti. Senza dire che l’operare in città e diocesi connotate da notevoli diversità ideologiche e politiche, obbligava, anche senza volerlo, alla necessità di “adeguarsi ad una visione pluralistica della società civile e quindi non più univocamente cattolica”, per cui se gli “intransigenti prima maniera” ponevano in primo piano una specie “di ostentazione della fede… quasi sfida impavida di fronte alle prevaricazioni anticlericali”, l’arcivescovo pensava a nuovi stili e strumenti che dovevano impegnare l’Azione cattolica, magari presentando come prioritario con le masse operaie un incontro sul terreno dei loro diritti e rivendicazioni. Occorreva ancora del tempo perché maturasse un nuovo quadro nel quale i cattolici si sarebbero inseriti nella vita pubblica per salvaguardare i propri diritti nella società civile. Occorreva pazientare e intanto l’arcivescovo continuava la sua opera. Egli viene qui presentato come il prelato che conosce le attese diligenti della curia romana, operante in linea col pontefice, sempre attento ed oculato alle esigenze locali: Dalla stampa cattolica (è nota la sua attenzione per “L’Avvenire d’Italia”), all’associazionismo cattolico, all’ingresso nella vita pubblica dei cattolici, alla rigorosa amministrazione dei beni della chiesa e della carità. Quanto al giornalismo cattolico, egli ne aveva una grande stima e lo considerava una vera e propria missione, “tanto più utile, quanto più il confronto col pensiero moderno s’era fatto difficile e lacerante”.
La storia di un arcivescovo è storia di Chiesa e quindi storia anche di uomini, con i loro errori di valutazione o con l’incapacità di superare situazioni impreviste e nuove. L’Autore si muove con conoscenza di fatti e di persone senza acrimonia e con un tocco che cerca di salvare la linea emergente, quella appunto del futuro pontefice. Il lavoro è benemerito in quanto cerca di salvare dall’oblio chi non ha avuto la sorte di sentire messo in luce lo sforzo continuo di una vita proiettata verso la gloria di Dio e il bene della Chiesa. E per tale ragione è interessante la lettura del volume, pur tra la quantità di documenti in cui si muove il discorso.
Un’ultima osservazione di carattere metodologico si può avanzare sul volume e riguarda l’oggetto stesso del discorso storico. Di fronte a metodi storiografici “ideologizzati” che, ancor prima di scrivere, sanno a quali risultati approdare, questa ricostruzione biografica, tanto analiticamente documentata, con la mole di materiale consultato, di informazioni archivistiche e bibliografiche utilizzati, diventa un esempio da seguire, magari ulteriormente ordinato, per analoghe ricerche del genere. Di per sé può essere utopico voler conoscere tutto di una persona, ma almeno la gran massa di dati lasciati non dovrebbe essere trascurata, lasciando al lettore l’impegno di darne un giudizio. È quanto sembra di trovare qui. Non venendo tralasciato alcun elemento di indagine, è da augurarsi che una analoga acribia venga impiegata per una biografia di Giacomo Della Chiesa come pontefice romano. La pura verità storica è un ottimo servizio che si può rendere ad un personaggio, ma anche alla società, cristiana o laica che sia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Mons. Della Chiesa era bene a conoscenza della problematica agitata in quegli anni, sia nel primo periodo romano, sia negli anni bolognesi, quando a contatto col dibattito politico locale era costretto a prendere misure adeguate, opportune, non in disaccordo col pontificato romano. Erano gli anni in cui il movimento socialista si affermava negli ex stati della Chiesa con forti ricadute sull’ordinamento locale dei comuni, delle scuole, delle parrocchie, per non dire delle idee nuove del liberalismo che con la loro incidenza influivano sulla mentalità delle classi sociali. L’offensiva socialista aveva concentrato i suoi sforzi ideologici “nello smantellare le strutture portanti della fede cristiana, in particolare in rapporto alla famiglia e quindi alla vita morale, ed alla comunità parrocchiale alla quale intendeva sostituire… la Lega cooperativa”. Uomini ed ecclesiastici responsabili, come papa Sarto e mons. Della Chiesa, non potevano non preoccuparsene per le conseguenze immediate o di lunga durata, che quella linea avrebbe provocato. Quello “era il progetto di una società alternativa, laica e materialista, che veniva propagandato” e che in vaste zone della Romagna e dell’Emilia “aveva portato il deserto”.
Di fronte a tale situazione l’arcivescovo di Bologna mise in atto tutti gli strumenti che la tradizione pastorale gli offriva: visite e lettere pastorali, presenza continua ai problemi della diocesi, cura personale del clero, soprattutto una spiritualità particolare, qui riscoperta anche indirettamente, attraverso quanto l’arcivescovo scriveva o faceva, sviluppata in ragione dei suoi doveri, con la particolare devozione all’Eucaristia, al Sacro Cuore, alla Madonna, alle anime del Purgatorio. Don Scottà privilegia specialmente gli aspetti pubblici del suo ministero, specie in una città come Bologna al centro di fermenti mai più sopiti. È vero che l’arcivescovo scriverà più tardi nella relazione per la visita ad limina che “la vita cristiana e morale dei bolognesi, in generale è lodevole… piantata in profondissime radici nei cuori di quasi tutti”, ma i problemi che si ponevano allora erano quanto mai nuovi e difficili persino da immaginare, pur se mons. Della Chiesa “è stato uno degli uomini che con maggior perspicacia, quasi con spirito profetico, ha intuito ed interpretato, non solo il tempo in cui è vissuto ed operato, ma anche un futuro per la Chiesa”, dando “precisi orientamenti sia sul punto della missione propria, sia su quello del dialogo o del rapporto con il mondo e la società civile e politica”.
La società civile e politica! Una regione così vivace ed attiva si sentiva tanto frenata in un tempo in cui l’arcivescovo, pur difensore dei diritti della Chiesa, non si faceva illusioni sul futuro di Roma capitale. La perdita del potere temporale, con la privazione di una identità politica sovrana, che all’inizio sembrava catastrofica, ci si è resi poi conto che non comportava grave danno alla Santa Sede, in quanto il suo riconoscimento da parte di numerose nazioni offriva una garanzia che neppure il governo italiano poteva disconoscere. Di qui le moderate istanze dell’arcivescovo, non ancora cardinale, con papa Sarto e la sua curia, asserragliati dal mondo moderno che dal tempo di Pio IX era avanzato in modo irreversibile.
Pio X era pure alle prese con l’ondata modernista, che dalla Francia si estendeva a macchia d’olio anche in Italia. Mons. Della Chiesa ne era a conoscenza diretta per aver seguito personalmente la pratica “Loisy”. Cosa fare? Lasciar sviluppare il movimento significava permettere l’introduzione di idee non esatte nel circuito del pensiero cattolico, nelle scuole di teologia, nei seminari, tra il clero; bloccarlo e condannarlo rigidamente voleva dire attirarsi l’accusa di intransigenza, con ripercussioni pure in ambito pedagogico. Uomini diversi esplicitano modi di fare differenti: solitamente resta emergente quello di chi ha la massima responsabilità; ma ci potevano essere anche altri indirizzi, meno pessimisti. Per di più l’ecclesiastico giovane pensa ed agisce solitamente in modo diverso dall’anziano; per non dire dell’educazione ricevuta e dell’ambiente in cui si è cresciuti. Senza dire che l’operare in città e diocesi connotate da notevoli diversità ideologiche e politiche, obbligava, anche senza volerlo, alla necessità di “adeguarsi ad una visione pluralistica della società civile e quindi non più univocamente cattolica”, per cui se gli “intransigenti prima maniera” ponevano in primo piano una specie “di ostentazione della fede… quasi sfida impavida di fronte alle prevaricazioni anticlericali”, l’arcivescovo pensava a nuovi stili e strumenti che dovevano impegnare l’Azione cattolica, magari presentando come prioritario con le masse operaie un incontro sul terreno dei loro diritti e rivendicazioni. Occorreva ancora del tempo perché maturasse un nuovo quadro nel quale i cattolici si sarebbero inseriti nella vita pubblica per salvaguardare i propri diritti nella società civile. Occorreva pazientare e intanto l’arcivescovo continuava la sua opera. Egli viene qui presentato come il prelato che conosce le attese diligenti della curia romana, operante in linea col pontefice, sempre attento ed oculato alle esigenze locali: Dalla stampa cattolica (è nota la sua attenzione per “L’Avvenire d’Italia”), all’associazionismo cattolico, all’ingresso nella vita pubblica dei cattolici, alla rigorosa amministrazione dei beni della chiesa e della carità. Quanto al giornalismo cattolico, egli ne aveva una grande stima e lo considerava una vera e propria missione, “tanto più utile, quanto più il confronto col pensiero moderno s’era fatto difficile e lacerante”.
La storia di un arcivescovo è storia di Chiesa e quindi storia anche di uomini, con i loro errori di valutazione o con l’incapacità di superare situazioni impreviste e nuove. L’Autore si muove con conoscenza di fatti e di persone senza acrimonia e con un tocco che cerca di salvare la linea emergente, quella appunto del futuro pontefice. Il lavoro è benemerito in quanto cerca di salvare dall’oblio chi non ha avuto la sorte di sentire messo in luce lo sforzo continuo di una vita proiettata verso la gloria di Dio e il bene della Chiesa. E per tale ragione è interessante la lettura del volume, pur tra la quantità di documenti in cui si muove il discorso.
Un’ultima osservazione di carattere metodologico si può avanzare sul volume e riguarda l’oggetto stesso del discorso storico. Di fronte a metodi storiografici “ideologizzati” che, ancor prima di scrivere, sanno a quali risultati approdare, questa ricostruzione biografica, tanto analiticamente documentata, con la mole di materiale consultato, di informazioni archivistiche e bibliografiche utilizzati, diventa un esempio da seguire, magari ulteriormente ordinato, per analoghe ricerche del genere. Di per sé può essere utopico voler conoscere tutto di una persona, ma almeno la gran massa di dati lasciati non dovrebbe essere trascurata, lasciando al lettore l’impegno di darne un giudizio. È quanto sembra di trovare qui. Non venendo tralasciato alcun elemento di indagine, è da augurarsi che una analoga acribia venga impiegata per una biografia di Giacomo Della Chiesa come pontefice romano. La pura verità storica è un ottimo servizio che si può rendere ad un personaggio, ma anche alla società, cristiana o laica che sia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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