La crisi economica del capitale internazionale, che sta manifestando la sua profondità in questi ultimi anni, ma che origina dai primi anni Settanta come crisi generale di accumulazione, è stata da noi identificata in vari lavori (da oltre quindici anni) come crisi prima strutturale e poi sistemica, e pertanto diversa dalle «normali» crisi in cui si dispiega il modo di produzione capitalistico proprio a partire dalla sua condizione intrinseca di disequilibrio. Indipendentemente dal fatto che la sua profondità si sia evidenziata nelle Borse e nelle pratiche speculative dei grandi sistemi bancari, abbiamo avvisato che non si trattava della classica crisi finanziaria, poiché in tale «normale» situazione non si interrompono i processi internazionali di accumulazione del capitale. Il gioco di Borsa dagli anni Ottanta ad oggi è così divenuto una corsa al massacro sociale: da una parte si «ingrassano» i fondi di investimento leader e i grandi speculatori, dall’altra si trasformano i produttori di materie prime (salariati di piantagioni, contadini, minatori e operai dei Sud del mondo) in miserabili, e i lavoratori del Centro dell’impero in precari e nuovi poveri. In tal modo si trasferisce, inoltre, la possibilità di investimento nell’economia reale nel facile e apparentemente più redditizio collocamento speculativo finanziario, distruggendo volutamente il capitale in eccesso a fini produttivi. Le lotte sociali della fine degli anni Novanta, nelle loro varianti e diversità - come in Europa nelle grandi manifestazioni contro la guerra e contro il neoliberismo o quelle in America Latina, dove hanno portato al potere, al fianco di Cuba socialista, governi rivoluzionari e democratici come in Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, El Salvador, Uruguay, Argentina, Brasile -, hanno animato un dibattito sul netto rifiuto del neoliberismo e anche sul superamento del sistema capitalistico, che già può vantare eccellenti apporti, anche provenienti dal paese con il capitalismo più sviluppato del pianeta. È possibile prevedere una crisi del potere di dimensioni tali che il vento del cambiamento radicale si infiltri nei suoi interstizi? Non sappiamo se ciò accadrà, né se accadrà. In ogni caso, questo compito sarà possibile solo se ci saranno le necessarie condizioni politiche e sociali. Ecco perché la nostra analisi non ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per «autodistruzione» e quindi con una sorta di teoria del crollismo. In assenza di una forza soggettiva organizzata capace concretamente di una ricerca di soluzioni, il sistema troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalistico. Ciò che possiamo assicurare è l’impossibile sopravvivenza, nel medio-lungo periodo, del capitalismo.