Fonte di peccato e di condanna morale per le religioni, all'origine di ogni "cattivo piacere" per i moralisti, il vizio ha suscitato in ogni epoca l'interesse dell'etica, dell'arte e della filosofia. Pagine memorabili gli sono state dedicate da molti grandi pensatori fra cui Aristotele, san Paolo, Tommaso d'Aquino, Kant, Freud. E tuttavia, in una società come la nostra, più indifferente alla distinzione fra virtù e vizi che volutamente immorale, esso sembra aver perso i tratti polemici e dissacranti che in passato lo avevano caratterizzato ed essersi trasformato in moda o in patologia. Ma che cos'è veramente il vizio e come mai da sempre ci lusinga, ci attrae e ci seduce molto più della virtù? Gianfranco Ravasi ci accompagna in un affascinante e originale percorso alla scoperta dei "sette vizi capitali" - superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e pigrizia -, dimostrandoci come essi siano tratti permanenti della realtà umana, sempre attuali. Alla loro origine comune c'è infatti la libertà dell'uomo, la sua capacità di scelta consapevole, elemento che rende il vizio e la virtù, seppure antitetici come "il vetriolo e lo zucchero", "parenti, come il carbone e i diamanti", due polarità dello stesso moto dell'animo. Per analizzare il repertorio dei sette vizi capitali e ripercorrerne la storia, Ravasi attinge non solo alla grande tradizione teologica delle Scritture da cui è nata la nostra civiltà, ma anche a trame e soggetti letterari - a cominciare ovviamente dalla Commedia dantesca, passando per i più emblematici personaggi shakespeariani, Shylock, Macbeth, Otello, sino a figure immortali come Achille, Rodomonte, Gargantua, Pantagruel, Faust, Falstaff, don Giovanni -, alle rappresentazioni pittoriche che ne hanno fatto Bosch e Bruegel, alla psicoanalisi e perfino al cinema, con i film di registi come Autant-Lara, Rossellini, Godard o Vadim. Una ricostruzione ricca di citazioni colte e aneddoti arguti, in cui "ogni vizio ha la sua trattazione specifica, secondo le sue tipologie e il diverso rilievo che occupa nella gerarchia dell'immoralità", che può anche risultare "un sano esercizio di autocoscienza: si potrà dire di conoscere bene se stessi quando si scopriranno in sé più difetti di quanti gli altri riescano a vedere".
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alessandro beccarini il 4 agosto 2013 alle 13:16 ha scritto:
In un momento storico dove il peccato sembra essere un residuo medievale, la lucidità e l'esposizione dell'autore, ci porta a verificare una realtà misteriosa ed inquietante, aldilà di psicologismi e luoghi comuni.