La prima ondata della pandemia da Covid-19 sembra aver sorpreso il mondo intero allo stesso modo, come un ladro di notte. All’iniziale ingenuo senso di invulnerabilità hanno fatto seguito lo smarrimento e la paura. Paragonato subito al proverbiale “cigno nero”, un evento catastrofico per l’economia globale, il contagio da coronavirus ha progressivamente assunto le somiglianze di una piaga biblica postmoderna. Stavolta niente sciami di tafani o eserciti di cavallette a colpire le città, ma un nemico invisibile e letale, capace di colpire la dimensione più elementare ed essenziale della vita umana: il respiro.
La triste contabilità dei contagi e dei decessi durante le settimane della primavera 2020 ha fatto ben presto superare l’ingenua presunzione occidentale di essere immuni e di uscire rapidamente dall’emergenza. In una manciata di settimane intere nazioni si sono trovate improvvisamente ad affrontare un’infezione che non conosceva confini o dogane. Anche la Chiesa e le comunità cristiane si sono trovate di punto in bianco di fronte all’ora della crisi: sospensione delle celebrazioni, funerali compresi, e di tutte le attività pastorali ordinarie.
La Chiesa “ospedale da campo” di papa Francesco richiama quella dell’accampamento leggero, fatto di tende. Piantate, sì, ma sempre pronte per essere spostate secondo le esigenze del momento. Il teologo franco-tedesco Christoph Theobald ha definito la Chiesa di questo tempo “rabdomante”, cioè una Chiesa alla ricerca di nuove strade, di nuove modalità di annuncio per far percepire la bellezza di incontrare Gesù Cristo. E le “comunità rabdomanti” sono comunità di persone che pensano e cercano. Questa raccolta di quaranta frammenti, nati dagli appunti stesi durante i giorni del lockdown, tra febbraio e maggio 2020, sono brevi e semplici “respiri”, risonanze sulla Parola ispirate ai testi della liturgia domenicale, condivise in parte con le studentesse e gli studenti laici del primo anno di studi di Scienze Religiose dell’Istituto “Giovanni Paolo I” di Treviso, Vittorio Veneto e Belluno.
Si tratta di una sorta di “diario di bordo”, steso durante la navigazione tempestosa nei giorni difficili del Covid-19. La pandemia ha inevitabilmente provocato una riflessione su che cosa voleva dire studiare teologia in un momento di grave emergenza sanitaria. Si aggiungono poi altri pensieri ricavati dal ciclo liturgico, in particolare quello natalizio. (cfr. Prefazione al libro)
Stefano Didonè Presbitero, ha studiato Teologia a Milano e a Parigi. Attualmente è docente di Teologia fondamentale presso lo Studio Teologico Interdiocesano Treviso - Vittorio Veneto, di cui è pro-direttore, presso l’ISSR “Giovanni Paolo I” e presso la Facoltà Teologica del Triveneto. Ha pubblicato La struttura antropologica della fede. Ripensare la teologia filosofica (Glossa, Milano 2015), La libertà necessaria. Conversazioni su filosofia e teologia (Proget, Padova 2017) e diversi articoli.