La povertà francescana e il capitalismo medioevale negli scritti di Pietro di Giovanni Olivi
(I maestri francescani) [Brochure]EAN 9788887931761
Il discorso sulla scelta di povertà negli Ordini mendicanti «dà da pensare» fin dalle loro origini nel primo quarto del XIII secolo. L’attenzione della storiografia, e di quella più recente in particolare, ha intensificato le proprie ricerche sul concetto di povertà mendicante vissuto da san Francesco e teorizzato nella prima Scuola francescana. La teoretica della povertà che seguì l’Ordine dei Minori dopo la Regola andò ben oltre il Fondatore e, in una successione di problematiche endogene ed esogene, oltre i francescani stessi e coinvolse l‘intera struttura del pensiero teologico e filosofico dal Duecento in poi. Si trattò di un radicale ripensamento di tutti gli istituti giuridici di ordine sociale, politico ed economico, denaro compreso, alla luce della scelta pauperistica tipicamente francescana. Una profonda ridiscussione dei modi d’intendere il rapporto tra l’uomo e le cose e tra uomo e uomo. Le ricerche di Ovidio Capitani sono all’origine dell’analisi su quel rapporto, ma è Giacomo Todeschini, in modo del tutto particolare e innovativo, a strutturare, in questi ultimi decenni, la riflessione etico-economica degli Ordini mendicanti. Si deve a Todeschini l’interpretazione critica e la rielaborazione scientifico-letteraria in termini di lessico e linguaggio che restituisce continuità storica a un discorso di più ampio respiro sulla dialettica esistente tra povertà mendicante e prassi economica. Un’impostazione che caratterizzerà le successive analisi degli studiosi fino alle più recenti ricerche di Roberto Lambertini, Paolo Evangelisti e Giovanni Ceccarelli.
Maria Caterina Jacobelli tratteggia la linea di pensiero che dall’«altissima povertà», così come pensata e voluta da san Francesco, conduce a Pietro di Giovanni Olivi, uno dei più importanti maestri del pensiero economico francescano. San Francesco inaugurò l’epoca della «gente nova», nuovi poteri e nuovi attori caratterizzarono e animarono la politica e l’economia cittadina, economia che andava ben oltre le cinte murarie della stessa città. Un’economia mobile e incerta con nuovi rapporti sociali e una circolazione di merci e denaro fino ad allora sconosciuta. Il XIII secolo fu, per certi versi, l’apice di una riforma sociale iniziata con Gregorio VII e la lotta per le investiture (1073-1085) con la conseguente riforma degli Ordini monastici e dei Benedettini in particolare. Un discorso la cui portata può essere colta attraverso la convocazione di quattro concili in meno di un secolo: dal Laterano I del 1123 al IV del 1215. La società del Duecento fu profondamente modificata oltre che dalla crescita della ricchezza, dai movimenti ereticali diffusi in Italia settentrionale e in Provenza, dalle crociate e dall’Inquisizione. Le gerarchie si irrigidivano e le classificazioni intensificavano. Da una parte ebrei, eretici, lebbrosi, poveri e miserabili; dall’altra nobiltà, prelatura, potenti, ricchi e commercianti (pp. 23-26). Il rifiuto del denaro da parte di san Francesco, seppure categorico, non comportava la condanna del commercio: il pericolo era costituito non dalla ricchezza, ma dal suo uso. Nelle cose e nei beni era l’istinto accumulativo a preoccupare, non il loro uso. Era in discussione l’idea di merce, di bene economico, come «cosa buona». Termine direttamente mutuato dalla filosofia e dalla teologia, in una relazione diretta con la categoria etica di buono, bonum, in un’antichissima antinomia con il vizio, nella concezione teleologica del «fin di bene» per il quale solo ciò che è buono per le persone e la comunità contribuiva al bonum commune.
San Francesco volle per sé e per i suoi confratelli una Regola austera ma non perseguì la fuga mundi tipica della tradizione monastica. Egli estese la sua opera all’interno delle città, al «latino» lingua dei letterati preferì il «volgare» contribuendo alla nascita delle lingue romanze, ai modelli di pietà cristiana autoreferenziali e solenni sostituì opere dirette nella realtà dei Comuni. L’obiettivo fu di annullare la brama di potere attraverso l’altissima paupertas stigmatizzando il possesso in quanto capace di ridurre l’uomo a ciò che possiede, rendendolo incapace di trascendere ciò che ha. Possesso e potere tormentarono il Fondatore dell’Ordine dei Minori fino alla morte nel 1226, che già nel capitolo delle stuoie del 1222 vide la sua «famiglia» cresciuta esponenzialmente e oscillante tra nuove interpretazioni e osservanza rigorosa di quella Regola che egli volle vissuta «simpliciter et sine glossa» (pp. 32-35). Fu il confratello Pietro di Giovanni Olivi († 1298) a interpretare il senso della povertà francescana declinandola in una delle direzioni più problematiche nelle quali la vita sociale può esprimersi: l’economia. La teorizzazione sull’uso dei beni in rapporto alla proprietà degli stessi ha radici profonde nel pensiero teologico cristiano, ma fu sotto la pressione del pensiero francescano che la questione culminò nell’aspro confronto che contrappose i francescani a Giovanni XXII (1322). La polemica riguardava la proprietà e l’uso dei beni nella condizione pre e post peccato originale. La Scuola francescana stabilì che, nello stato naturale adamitico, non c’era né il «mio» né il «tuo» decretando che l’uomo ideale, quello edenico, non era afflitto dalle passioni del dominio. Lo stato post caduta era il frutto di un compromesso: la proprietà esisteva poiché l’uomo, dopo il peccato originale, necessitava della legge per sottrarsi all’istinto dominatorio dell’uno sull’altro. Per i francescani l’«io» non si identificava con il «mio», condizione che si tradusse per i confratelli nel divieto dell’uso degli aggettivi «tuo» e «mio». Con Pietro di Giovanni Olivi, Giovanni Duns Scoto († 1308) e Guglielmo d’Occam († 1349) il pensiero francescano partì dalla povertà volontaria per strutturare il discorso intorno alle categorie economiche della proprietà, del possesso e dell’uso distinguendone decisamente senso e significati. San Francesco auspicò per i suoi «fratelli» la forma sancti Evangelii in un delicato parallelo secondo il quale Gesù Cristo e gli apostoli sarebbero vissuti senza alcuna proprietà, una condizione mitigata dalla bolla Exiit qui seminat (1279) che recepì la proposta compromissoria di san Bonaventura († 1274) per la quale i beni erano di proprietà della chiesa e l’uso dei frati (p. 45). Una proposta definitivamente eclissata da Giovanni XXII con la costituzione apostolica Cum inter nonullos del 1325.
Il pensiero economico francescano principiò dall’altissima paupertas per ridiscutere l’intero istituto della proprietà dell’uomo sulle cose e giungere a una profonda riflessione sul dominio dell’uomo sull’uomo. Prima di san Bonaventura la radice di tutti i mali era rappresentata dalla superbia. Poi il primato in negativo appartenne alla cupiditas o atteggiamento accumulativo. Un atteggiamento attraverso il quale i beni economici avrebbero rappresentato la condizione idolatra e totalizzante sintetizzata nell’avaritia. Oltre alla connotazione teologica, l’avarizia aveva un significato propriamente sociale vòlto a denunciare l’acquisizione dei beni cosiddetti «superflui». Se il «necessario» si correlava al «valore» morale dell’uomo, il «superfluo» veniva riferito alla nullità dell’uomo, schiavo delle cose del mondo. Per completare il quadro è necessario collocare l’avarizia in funzione della brama del superfluo e in una correlazione diretta con profitto e mercatura (p. 60). Accumulando si sottraggono risorse alla comunità, risorse da ri-immettere nel circuito produttivo a favore dell’intera comunità. Fu l’intuizione di fondo per la quale il pensiero francescano aprì l’economico ai valori morali. Un percorso iniziato con san Bonaventura, strutturato da Pietro di Giovanni Olivi e portato a compimento da san Bernardino da Siena († 1444). Olivi, più di altri, indagò a fondo la logica della vita economica dei suoi tempi, in particolar modo per quelle criticità derivanti dalla mercatura, innovativa ed emergente, ma anche sospetta e condannabile. E non fu un elemento isolato in un’analisi che, anzi, coinvolse l’intera speculazione bassomedievale e del Duecento in particolare. Il pensiero economico oliviano è quasi tutto rinvenibile nel suo Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et de restitutionibus (pp. 59-69; 123-195). La sorprendente maturità e sensibilità economica del discorso oliviano emergono prima di tutto dalla nozione di capitale, ovvero ciò che è destinato a un probabile lucro, denaro compreso. Il capitale divenne così somma di denaro destinata a un processo produttivo. Vi è poi la nozione di valore economico determinabile attraverso tre grandezze: scarsità (raritas), utilità (virtuositas - utilitas), e preferenza individuale (complacibilitas), alla quale va aggiunta quella del giusto prezzo. Nel prezzo dovevano essere contenuti il lavoro e le capacità che avevano reso possibile la produzione del bene. Il prezzo divenne così il punto d’equilibrio tra attori del mercato di riferimento (p. 67). Il tutto all’interno della logica secondo la quale la crescita economica non deve aver luogo a favore di pochi ma del bene comune, cornice nella quale intendere ogni transazione lecita. Le idee economiche di Olivi «sopravvissero» alla censura più radicale attraverso san Bernardino da Siena e sant’Antonino da Firenze entrambi del XV secolo, mai da loro citato, a testimoniare come il nome di Pietro di Giovanni Olivi suscitasse, più di un secolo dopo la morte, ancora forti risentimenti dovuti alle vicende che ne accompagnarono il pensiero e la vita (p. 63).
Il volume è strutturato in due parti: la prima dedicata al rapporto tra san Francesco e il pensiero di Pietro di Giovanni Olivi, l’altra a un considerevole apparato di allegati che testimoniano il percorso storico e teologico-filosofico del pensiero economico oliviano. Dopo l’introduzione nella quale si presentano le linee di sviluppo storico che vanno dalla Regola francescana al pensiero economico di Olivi, il testo invita a riflettere sulla maturità dell’analisi economica oliviana scaturita dalla profonda riflessione sulla povertà volontaria e sull’usus pauper dei beni e delle cose del mondo. I primi cinque capitoli affrontano le vicende dell’Ordine fino alla sistematizzazione, peraltro non definitiva, della questione sulla povertà evangelica ad opera di Nicolò III con la bolla Exiit qui seminat (p. 45) del 1279 e alla metamorfosi sociale dovuta alla presenza di una nuova figura che scosse la secolare tripartizione medievale: il mercante (p. 23). Gli altri capitoli sono dedicati all’analisi delle principali categorie economiche operata da Olivi ove, tra le altre, risalta quella di «capitale» dalla quale va comunque distinta quella di capitalismo al quale, normalmente, la storiografia e la scienza economica riportano il sistema socio-economico post illuminista e del XIX secolo in particolare. L’idea oliviana della produttività del capitale è davvero rivoluzionaria e la si comprende appieno considerando che il denaro, inserito e impiegato in un processo produttivo, ristora dal «lucro cessante» attraverso il riconoscimento dell’interesse. Viceversa, se tesaurizzato e improduttivo, risulta dannoso e prevaricante. Emerge in questo senso l’elemento intenzionale proprio del soggetto coinvolto nella transazione, il firmo propositum, che costituisce una cesura definitiva sia con l’indistinta condanna del prestito a interesse, sia con un più ampio discorso che culminerà nel Quattrocento, dove la distinzione tra guadagno usurario illegale e profitto su capitale appartiene ormai al lessico, alla testualità e alla cultura. Di particolare interesse risulta il capitolo VII che traccia la sintesi tra le idee economiche di Olivi e la Regola francescana attraverso l’usus pauper delle risorse e la loro utilizzazione. In tutti i capitoli, l’interpretazione delle fonti rilevanti accompagna il riferimento alla letteratura filosofica e teologica, nell’imprescindibile relazione con il pensiero della Scuola francescana. L’impostazione della Jacobelli raccorda la povertà francescana con la riflessione sull’economico operata dal pensiero di Pietro di Giovanni Olivi; pensiero che pone l’accento sul profitto nelle sue varie forme, da non rifiutarsi aprioristicamente ma da intendersi in funzione dell’utilità della comunità, in senso sociale e culturale, e che un secolo e mezzo più tardi, del tutto naturalmente, costituirà il «calore naturale» del corpo civico quattrocentesco nelle prediche di san Bernardino da Siena.
Tratto dalla Rivista "Il Santo. Rivista francescana di storia dottrina arte" LIV, 2014, fasc. 2-3
(http://www.centrostudiantoniani.it)
Riteniamo utile cominciare questa recensione con una premessa storiografica, che in questi ultimi decenni è stata rilevante e merita attenzione per quanto riguarda la genesi delle idee della scienza economica. Quelle che qui brevemente premettiamo sono, quindi, considerazioni che inquadrano il saggio di Maria Caterina Jacobelli nella cornice culturale della Scuola medievale francescana, che ha saputo conciliare attività speculativa con la pratica pastorale del vivere quotidiano.
Non vi è dubbio che la vicenda e il pensiero teologico ed etico-economico di Pietro di Giovanni Olivi (1248 – 1298), da qualche tempo a questa parte, abbiano avuto – non senza qualche polemica e riserva storiografica – una accelerazione. L’effetto – certo non intenzionale, ma comunque reale – di questo approccio, che ha condotto alcuni studiosi ad approfondire le origini francescane, ha suscitato un sereno ma diffuso disagio tra i francescani, tormentati da un inevitabile confronto tra l’osservanza “spirituale” o “evangelica” della Regola delle origini e l’usus pauper dell’éra della globalizzazione. Ma la fecondità spirituale del carisma francescano è inesauribile e l’interesse verso di esso, in questi tempi di smarrimento e di crisi socio-economica, ne è una chiara conferma.
Dal punto di vista dei fatti, dopo otto secoli, non si può negare che vi sia una notevole distanza tra l’intuizione-ispirazione del progetto di vita evangelica di Francesco d’Assisi e quello vissuto oggi dai suoi frati; ma tale metamorfosi del francescanesimo va inserita nell’evoluzione della storia e rientra nel discernimento profetico dei “segni dei tempi”.
Premesso questo, va ancora detto che sono trascorsi ormai 50 anni dalla monumentale Opera omnia di S. Bernardino da Siena (1380-1444), magistralmente edita dai Padri studiosi del Collegio S. Bonaventura di Quaracchi (Firenze 19501965), senza la quale forse sarebbe stato complicato risalire ai brani del Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et de restitutionibus di Pietro di Giovanni Olivi, che l’autrice riproduce (nella versione in italiano) nella seconda parte del suo volume. Difatti, la prima segnalazione dei testi “teologico-economici” di fra Pietro è del Padre Dionisio Pacetti, Un trattato sulle usure e le restituzioni di Pietro di Giovanni Olivi, falsamente attribuito a fra Gerardo da Siena, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 46 (1953) 448-457, che riuscì a ricomporre la biblioteca privata del predicatore senese (cf. La libreria di S. Bernardno da Siena e le sue vicende attraverso cinque secoli, in “Studi Francescani”, 12 (1965) 3-43), individuando, tra la vasta raccolta di testi, il Tractatus dell’Olivi.
Occorre, infatti, tener presente la circostanza che il teologo provenzale fu condannato dal Concilio di Vienne (1311-1312) per la sua dottrina sull’anima; di conseguenza tutti i suoi scritti furono rigorosamente proibiti sotto pena di scomunica e destinati ad essere bruciati dal Ministro generatale dell’Ordine Giovanni da Murro (1295-1303). Questa circostanza spiega il motivo per cui S. Bernardino, pur attingendo a piene mani dal pensiero socio-economico del confratello, non lo citi mai. Non appena terminata l’edizione critica dell’Opera omnia bernardiniana, lo studioso belga Raymond Roover, statunitense per elezione, segnalò per primo la dipendenza del pensiero economico di S. Bernardino e, attraverso lui, di sant’Antonno da Firenze da quello dell’Olivi (cf. San Bernardino of Siena and sant’Antonino of Florence. The Two Great Economic Thinkers of the Middle Age, Mass, Boston 1967), modificando una serie di giudizi autorevoli ed assai ricorrenti, come quello di J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Torino 1990, p. 117, che considera, appunto, il vescovo di Firenze “il primo uomo al quale si possa attribuire una visione generale del processo economico” (cf. p. 64). Certamente Antonino – è bene ribadirlo – accoglie nella sua Summa teologica la funzione del prestito di denaro sia per consumi che per investimenti vantaggiosi (pars II, tit. I, cap. VI, par. 2, col. 80c), ma lo fa registrando l’opinione di S. Bernardino, che a sua volta, riporta il pensiero di Pietro di Giovanni Olivi (cf. A. SPICCIANI, Sant’Antonino, san Bernardino e Pier di Giovanni Olivi nel pensiero economico medievale, in “Economia e Storia”, 3 (1972) 316-341; Note su sant’Antonino economista, ibid., 3 (1975) 171-192).
Il dibattito sulle sfide della globalizzazione e sulla grave crisi econonomico-finanziaria, che da oltre cinque anni ha colpito soprattutto il mondo occidentale, si è spostato dalle aule universitarie agli spazi della comunicazione pubblicistica, nella quale si tenta di rispondere dal passato a domande del presente. E sta qui l’attualità del saggio di Maria Caterina Jacobelli, centrato, appunto – come sottolinea Piero Bini nella Presentazione – sulla “vicenda specifica del francescano Pietro di Giovanni Olivi e, in particolare, sulle sue elaborazioni volte a codificare un pensiero economico permeato sì nella spiritualità francescana, ma, al tempo stesso, adeguato anche a interpretare il nuovo mondo dell’economia”.
Il libro si divide in due sezioni. La prima, articolata in sette capitoli, prende in considerazione, anzitutto, il contesto socio-economico (capp. I e II: pp. 19-36); successivamente, affronta, nel dettaglio, la “questione” della povertà francescana e dell’usus pauper (capp. III, IV e V: pp. 37-58); infine, analizza il contributo offerto da Pietro di Giovanni Olivi nel Tractatus e nei Quodlibeta, che stabilisce la distinzione tra una somma di denaro qualsiasi da una somma di denaro efficientemente inserita o da inserirsi all’interno di un processo produttivo. Solo quest’ultima può infatti essere definita come “capitale” e solo a questa può associarsi un valore superiore (superadiungtus), legato alla possibilità di offrire un rendimento (pp. 70-72).
Particolarmente rilevante è anche la teoria del valore economico e del giusto prezzo, che l’Olivi analizza nella prima parte del Tractatus. In un mercato una merce vale più di un’altra:
- perché è più adatta ai nostri usi per le sue intrinseche qualità;
- perché se ne sente di più il bisogno, essendo scarsa o difficile da reperire;
- perché soggettivamente è più desiderata di un’altra.
S. Bernardino da Siena nella sua trascrizione di questo passo conia tre espressioni ben conosciute agli storici del pensiero economico: virtuositas, raritas, complacibilitas (p. 67). Perciò, il valore economico si determina in funzione dell’utilità: sia nella sua forma oggettiva (virtuositas), sia nella sua forma soggettiva (complacibilitas), sia nella sua forma di scarsità (raritas).
Al termine della riflessione sul pensiero economico dell’Olivi, l’autrice si chiede se “lo spirito di povertà di Francesco d’Assisi” sia “stato rispettato” (p. 72); e risponde, dopo aver ricordato il “valore infinito” del Cantico delle Creature, che “la grandezza di Francesco è in questo saper guardare oltre. Pietro di Giovanni Olivi ha saputo coglierlo e renderlo concreto in quell’usus pauper, che insegnò a Parigi, a S. Croce a Firenze, a Montepellier, a Narbona”.
Nella seconda sezione – documentaria – l’autrice riproduce i seguenti testi: Exiit qui seminat (pp. 85-122); Trattato sulle vendite e sulle compere (pp. 123-140); Trattato sulle usure (141-172); Trattato sulle restituzioni (pp. 173-199). L’intento divulgativo è attestato dalla traduzione italiana del Tractatus.
Al di là di una bibliografia parziale, nel complesso il lavoro di Maria Caterina Jacobelli, da un lato, ha il grande pregio di contribuire ulteriormente alla conoscenza ed alla diffusione dell’originalità del pensiero francescano anche per quanto riguarda le tematiche sociali, offrendo riflessioni sulle analisi di un testimone di eccezione così autorevole come Pietro di Giovanni Olivi; dall’altro, con la pubblicazione, nella seconda parte del volume, di alcuni scritti, ha il vantaggio di agevolare il contatto diretto del lettore con le fonti e il pensiero della Scuola francescana. Pertanto, siamo certi che il messaggio etico-economico oliviano potrà essere ancor più conosciuto, apprezzato e fatto proprio da una cerchia più vasta di persone.
Tratto dalla rivista "Miscellanea Francescana" n. I-II/2014
(http://www.seraphicum.com)
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