"Moschko von Parma" si situa al centro della produzione letteraria di Franzos, all'inizio di quegli anni '80 che determinarono mutamenti profondi nel mondo dello scrittore e delle sue idee. Esso per certi versi anticipa quanto poi contenuto in Der Pojaz, pur traendo spunto non già dall'esperienza biografica di un singolo individuo, ma da un evento storico di grande rilievo, risalente a cento anni prima: l'estensione del servizio militare agli Ebrei. Giuseppe II, l'imperatore illuminato, con le sue Toleranzpatente degli anni '80 del XVIII secolo, aveva infatti ampliato i diritti di tutte le minoranze incluse nei Domini ereditari, ivi compreso l'arruolamento nell'esercito imperial-regio. Ancora alla metà del secolo successivo la "novità" appare mal digerita. Se ne colgono i riflessi tra le stradine fangose dello Schtetl "simbolo" di Barnow, dove vive Moschko, un giovane poverissimo, alto e robusto però, un'eccezione tra i Figli di Israele di quelle zone, spesso denutriti e in generale poco propensi all'esercizio fisico. Moschko si distingue dagli altri non solo per la sua corporatura e il suo vigore, ma anche per una profonda inquietudine (un "tarlo", lo chiama lui) e uno spirito ribelle. Egli non vuole rassegnarsi a sopportare il giogo dell'intolleranza e dell'emarginazione. Così, appena pubere, vuole diventare soldato, suscitando l'esecrazione della sua comunità. Frustrato in questo suo primo tentativo, sceglie di fare un mestiere comunque inusuale per un ebreo, il fabbro. Attraverso i suoi occhi e il suo cuore semplice e generoso, impariamo a conoscere la gente di Barnow, composta da Polacchi, Ruteni ed Ebrei, questi ultimi rassegnati al proprio destino e in attesa di una millenaristica ricompensa nell'Aldilà. Si dipanano così storie e vicende personali in cui, accanto al protagonista, emergono diverse figure di grande interesse, letterario e umano, dal Marschallik Itzak Türkischgelb al fabbro Wassili, alla impetuosa Kasia, fino al dramma finale, a cui anche la Natura sembra partecipare commossa. Franzos, seguace del rabbino Moses Mendelssohn, non nasconde l'arretratezza delle comunità israelitiche orientali, flagellate dalla povertà, dall'alcol e dalla ristrettezza di vedute, ma le chiama al riscatto. Accusato ingiustamente di voler sostenere una politica assimilazionista, egli è piuttosto un sostenitore appassionato di un ideale di bontà universale, che si erge contro ogni intolleranza nei confronti di chi è "diverso" e di chi si trova in posizione di minoranza - Ruteni, Slavi, Ebrei, non importa - senza tuttavia che ciò debba comportare la perdita delle individualità culturali di ciascuno. Un ideale il suo riassunto magnificamente nell'epitaffio inciso sulla sua tomba: "Se pure possedessi tutto lo sfarzo della Terra e in te fiorisse la somma saggezza, quello che solo fa di te un essere umano è pur sempre la bontà."