Vocazione e lavoro
-Saggio sull'etica puritana
(Studi storici. Saggi) [Libro con legatura cucita]EAN 9788870167955
ll titolo del libro si basa su due parole, «vocazione » e «lavoro». Tra «vocatio» e «labor» sussiste, però, una differenza non solo semantica, ma anche di fortuna storica. Nel primo caso si tratta di un termine di lunga durata che, nel solco tracciato negli scritti biblici e apostolici, accompagna tutta la vicenda della cristianità occidentale, cosicché, pur nella cospicua variazione dottrinale e pratica, essa ha conservato un significato di fondo di tipo religioso. In tale prospettiva è perciò dato confrontare tra loro, in modo sufficientemente diretto, i vari usi della parola. Più complesso il caso del termine labor, per lungo tempo caratterizzato dal significato di fatica e pena. Soltanto in età moderna e contemporanea esso si è decisamente innalzato nella scala dei valori ottenendo una piena dignità culturale (specie in ambito anglosassone) e poi centralità teorica nella nuova scienza economica e nelle «filosofie del lavoro» (p. 7). Il divario nell’evoluzione delle due parole si riflette nella composizione del libro. I cc. I-IV (13-108) sono dedicati alle figure dell’attività «vocazionale», delineate negli scritti di Calvino e, in seguito, in due trattati inglesi del XVII secolo, rispettivamente di William Perkins e Richard Steel. Nei cc. V-VII (109-192) vengono invece in primo piano le varie figure del «lavoro» modernamente intese. La rivoluzione religiosa del XVI secolo ha spianato i muri eretti nel corso dei secoli precedenti tra i due comparti della società cristiana: da un lato lo «stato ecclesiastico» e dall’altro quello dei laici, la cui condotta nel mondo era largamente retta da codici consuetudinari. La Riforma ha quindi riconfigurato in termini di «vocazione » l’intero arco delle attività mondane e profane e ha elevato i vari officia, domestici, pubblici, professionali, al rango di un agire che corrisponde alla chiamata di Dio. In particolar modo nel puritanesimo inglese il tema diventa oggetto di trattati specifici. È il caso dell’opera di Perkins Vocations or Callings (1603), che affronta la questione dell’ordine della so cietà elaborando l’assetto delle «vocazioni particolari». Essa privilegia gli incarichi pubblici e i ruoli di governo della comunità civile e di quella ecclesiastica. Nella sua ottica incomincia, però, ad aver un ruolo anche il tradesman (l’uomo di mestiere e di bottega). Appunto The Tradesman’s Calling è il titolo del trattato di Steel (1684), nato dopo che, sconfitti nella rivoluzione politica, ai puritani furono preclusi gli spazi pubblici. Essi dedicano, dunque, i loro sermoni alle callings particolari degli agricoltori, marinai, commercianti ecc. Solo da questo ripiegamento, e non dall’impulso originario, nascono i cataloghi delle «virtù economiche» esposti da Max Weber nel suo celebre studio del 1905 (da cui Miegge prende risolutamente le distanze) su etica protestante e spirito del capitalismo. La valutazione positiva del labour prende quota nelle pagine del Christian Directory (1673) di Richard Baxter; in quel contesto il maggior teologo del dissenso colloca e definisce il labour proponendo una robusta dottrina dell’azione divina e umana. In lui com paiono i termini labour/ labor, work e action che sa rebbero divenuti caratteristici, in tutt’altro contesto storico, anche del libro di Hannah Arendt The Human Condition (1958); in questa sua opera l’autrice annunciava l’esodo dalla concezione del lavoro, di ascendenza vocazionale e legata all’etica del tardo puritanesimo, dominante nella scena culturale precedente. Attraverso questo passaggio si è introdotti nella parte finale del volume di Miegge in cui, mettendo in discussione le tesi della Arendt, ci s’interroga sulle possibili qualità «vocazionali» dell’agire umano nel nostro tempo. A causa delle devastanti strategie economiche di breve periodo, le condizioni e i rapporti di lavoro negli ultimi due decenni si sono molto deteriorati su scala globale. Non si tratta solo di egemonia della finanza e di «fine del lavoro»,1 evidenziata da crescente perdita di manodopera impiegata nel settore industriale. Questo fenomeno infatti, proprio dei paesi occidentali, si spiega solo come altra faccia della medaglia di una globalizzazione produttiva senza precedenti. Nel 2007 Luciano Gallino ha calcolato che nel mondo i lavoratori dipendenti da un’impresa tendono a superare i due miliardi di persone (169). La precarietà universalizzata propria dei nostri anni sembra, perciò, porre totalmente fine, in dimensione planetaria, alla componente «vocazionale » legata al lavoro. Con tutto ciò, l’incombere della crisi ambientale può, forse, dischiudere la via a for me di lavoro e di agire sociale di nuovo contraddistinti dal senso di una «chiamata», addirittura collegata, questa volta, all’avvenire stesso del genere umano. In tal modo si è improvvisamente riaperto lo spazio a forme di attività dotate di senso, liberamente decise e organizzate in gruppi sodales, sottratte ai meccanismi costrittivi della nostra economia, e orientati al tentativo di costruire un durevole futuro comune. Il Nobel per l’economia J. Stiglitz ha affermato, dall’alto della sua autorità, quanto ormai molti avvertono come una specie di condizione psicologica, vale a dire che, se non si pone freno ai danni ambientali, si è destinati al disastro (180). Per rispondere a questa sfida immane non è estraneo il recupero di tratti «vocazionali» del lavoro; infatti «una conversione ecologica dell’economia non è possibile senza una ricon versione economica dell’ecologia» (M. Pallante).
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 8
(http://www.ilregno.it)
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