Il "pensiero incompleto" è un pensiero che non si chiude, che non alza muri alla riflessione: è un pensiero che pone sfide al dialogo. Non è definitivo, statico o coercitivo. È invece curioso, aperto, creativo, alla ricerca inquieta. L'espressione è stata usata da papa Francesco per definire il tratto intellettuale del gesuita. Ma chi sono i gesuiti? E, soprattutto, cosa c'è del gesuita in papa Francesco? Questo libro si propone di rispondere - in modo "incompleto" - alla domanda, rivolgendosi al credente e al non credente in Dio, nella consapevolezza che affrontare tali questioni porta inevitabilmente a ragionare su cosa sia la Chiesa e a misurarsi con l'idea di Dio, sia essa accolta o negata. Il papa gesuita, pertanto, parla di libertà e laicità, in un itinerario in parte biografico dell'autore - laico e studioso di filosofia -, che oggi è officiale della Santa Sede di papa Francesco e che ha sempre frequentato i gesuiti.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. Premessa orizzontale
Perché questo libro non ha in copertina una foto di papa Francesco? Perché si è ritenuto di interpretare in questo modo, già a partire da qui, ciò che il suo essere gesuita afferma e propone: il fatto, cioè, di non concentrarsi solo o troppo su di lui, di non vederlo come un idolo, una superstar, o addirittura un'icona, un logo che ritrae un one man show.
La spiritualità e formazione gesuitica è, infatti, anti-idolatrica in radice. Si contrappone nettamente a ogni culto della personalità e, quindi, a ogni prospettiva individualistica. Per fare solo un esempio, nelle regole dell'ordine dei gesuiti, le Costituzioni, è scritto che i gesuiti sono contenti di portare la tonaca del Signore. Del Signore, appunto. Non la propria. E perché ciò sia reale — perché, cioè, si formino veramente a non fare l'idolo di se stessi — i gesuiti hanno sviluppato un sistema di educazione che tende a orientare il desiderio, senza reprimere, al tempo stesso, le giuste ambizioni, i talenti, le volontà del singolo.
Un papa è un sacramento, cioè è un segno, un po' come un cartello stradale che dà la direzione verso un luogo. Così, lo sguardo che ora rivolgerò verso papa Francesco terrà ben presente l'orizzonte, il luogo verso il quale questo segno dà la direzione, e quindi l'attenzione.
Nel cattolicesimo — e molto nei discorsi dei gesuiti — il papa è, infatti, un segno visibile di una realtà più alta e grande: la centralità di Cristo, tratto primario della prospettiva ignaziana. Un tratto che fa sì che il gesuita è, come ha detto Francesco, un uomo decentrato, nel senso che si propone di «svuotarsi» nella propria individualità per porre al centro della propria esistenza, delle proprie azioni, meditazioni, scelte, riflessioni, il Cristo, che così va inteso come centro della storia e pienamente presente oggi nel mondo (storia di Dio che entra nella storia degli uomini). Cosa significa? Che la spiritualità gesuitica dispone di essere ben piantati per terra, nella storia, per cercare Cristo nel mondo storico, attuale, quello nel quale viviamo.
Per quale ragione? Perché il cristiano crede che Cristo sia il Dio che si è fatto uomo. E quindi Cristo stesso, come uomo, ha sperimentato le cadute, le tentazioni, le angosce di ogni essere umano. In questo senso, la spiritualità gesuitica potenzia quella generale cristiana, nel senso che pone l'enfasi in particolare sull'umanità di Cristo.
Occorre tenere conto di questa concezione, anche se si è atei o agnostici o, da cattolici, avversi o estimatori di papa Francesco, per capire ciò che fa e dice questo pontefice alla luce della sua formazione di gesuita. Diversamente, si rischia fortemente di andare fuori strada e, dunque, di non afferrare una prospettiva sua propria che, per quanto complicata da tenere sempre presente, non è prescindibile.
In altre parole, se intendo accostare Francesco alla sua identità di gesuita, non posso non cercare di assumere, sul piano dell'approccio conoscitivo, prima di tutto la spiritualità del gesuita e soprattutto prenderla seriamente, nel senso che devo scartare ogni pregiudizio di valore, sia esso positivo o negativo. Solo così, credo, avrò un orientamento opportuno — per quanto critico — alla questione.
Per la copertina avevamo inizialmente scelto, invece, un mio disegno del 1995 raffigurante la basilica di san Pietro composta di volti corrucciati, tormentati, minacciosi, che per così dire non riescono ad elevarsi da terra. Perché? Perché in un colpo solo avevamo riunito l'emblema della chiesa di Roma con il tratto distintivo della spiritualità gesuitica: il fatto che Dio è presente, direi meglio mischiato nel mondo, in questo mondo, in ogni cosa di questo mondo. E questo mondo è, pur nella sua bellezza, una valle di lacrime nella quale, il più delle volte, gli uomini preferiscono le tenebre alla luce. Qualcuno, tra i teologi, addirittura identifica questo mondo con l'inferno, scartando la possibilità che ce ne possa essere uno oltre il mondo fisico. E di qui i visi torvi e sofferenti del disegno, a comporre oppure ad attaccarsi alla basilica, un po' come i mostri di pietra scolpiti nelle cattedrali romaniche e gotiche.
Non solo: quel disegno fa parte di una raccolta che poi ho usato per illustrare un racconto nel quale si narra la storia di un uomo apparentemente immortale, che viaggia avanti e indietro nei secoli per cercare, tra mille difficoltà e avventure, la propria libertà, quindi il senso della propria esistenza. Il percorso di quest'uomo, che ha peraltro un nome strano, intrecciato alla sua ricerca, Cimbro Eudòsso Patuà Peripoiètico, è quindi un itinerario di liberazione.
Ma cosa c'entra questo con il tema di questo libro? C'entra, perché prima di provare ad affrontare un ragionamento, quale questo libro è, sulla relazione tra identità gesuitica e papa Francesco, occorre fissare un principio che sono certo costituisca una strada obbligata: la relazione che affianca Bergoglio, cioè un uomo, e la spiritualità, cultura,forma mentis, rappresentazione attuale di un ordine religioso, la Compagnia di Gesù, richiede una premessa orizzontale, cioè insieme di sfondo e di piano sul quale poi costruire tutto il discorso. Tale premessa orizzontale passa attraverso l'esperienza di vita ed è orientata lungo un itinerario di liberazione e libertà: libera ricerca, libertà di coscienza, libero pensiero. In questo senso, non senza una certa riluttanza, scrivo in prima persona perché la spiritualità gesuitica è "esistenzialista" (ecco l'esperienza di vita) e io credo, con la mia esperienza vissuta finora, di costituire un esempio abbastanza utile per capire l'orizzonte di ricerca e libertà — tra "credere" e "non credere", tra "chiesa" e "non chiesa" — entro il quale è opportuno svolgere un ragionamento sul papa gesuita.
2. Libertà nella giustizia e laicità
Parlare dei gesuiti e di papa Francesco significa parlare di laicità e libertà. È, questa, una libertà peraltro intimamente intrecciata a un'idea di giustizia che considera le piaghe di Cristo, sia che si veda come il figlio di Dio, che come uomo tra uomini. Si tratta, insomma, di considerare una libertà che non scade nell'esaltazione individualistica, nella solitudine del singolo, ma che piuttosto ricade e trova attuazione nella relazione (anche spirituale), nella comunità, entro la quale si può concepire l'idea di giustizia.
L'esaltazione individualistica, oggi, lungi dall'aver esaltato la libertà dell'uomo, sta scadendo nell'omologazione degli individualismi, per la quale siamo individualisti e, a un tempo, omologati.
Io ritengo di essere, o spero di essere, un libero pensatore. E sono un laico: lo dico per quanto cosciente della notevole ambiguità della parola. Mi sento laico perché cerco di fare i conti fino in fondo, cioè non solo nel pensiero speculativo ma nell'esperienza di vita, con le capacità di liberazione o di oppressione delle strutture religiose e di quelle non religiose, della religione e dell'ideologia, di uomini religiosi e di uomini non religiosi.
Il laico — dal greco laòs (popolo) — era originariamente, nel Medioevo, come lo è oggi, chi non era un ecclesiastico, e io non sono un ecclesiastico. Poi, con la modernità, il concetto ha caricato su di sé i conflitti della storia dell'Occidente fino a un confronto tra opposti integrismi, oggi da superare.
Alcuni filosofi e scrittori mi hanno convinto che la parola laicità sia sinonimo di filosofia, dunque libera ricerca, libertà del pensiero, che, certamente, non è un terreno composto di sola luce, anzi, devo dire che la sua preziosità consiste proprio nel suo dolore, nella sua opposizione interna, nel suo tormento. È il tormento della ricerca del senso, della ricerca della verità o, in altre parole, tormento della comprensione dei fatti e delle cose. Così, ritengo di essere un laico anche in questo senso, non solo quindi come mio status giuridico non ecclesiastico.