Sanguine tumulus madet. Devozione al sangue dei martiri delle catacombe nella prima età moderna
EAN 9788854816022
La devozione del sangue dei martiri ha radici molto antiche, che risalgono al tempo dei Padri della Chiesa. In un’epistola inviata alla sorella Marcellina, Ambrogio descrisse con ricchezza di particolari il rinvenimento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protesto. Il santo Vescovo di Milano, rievocando un celebre passo virgiliano, notò al momento della scoperta come il loro sepolcro inviolato fosse completamente intriso di sangue ancora fresco: sanguine tumulus madet. Questa celebre espressione latina appare come titolo del volume che presentiamo, opera di un archeologo tardoantichista, Massimiliano Ghilardi, direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, già noto ai lettori de “La Civiltà Cattolica” e che si occupa da diversi anni della riscoperta delle catacombe in età moderna. La sua monografia ha origine da due distinte relazioni presentate nel mese di luglio 2007 in due differenti convegni, ma non pubblicate negli Atti: la prima presso l’Università della Tuscia e la seconda al Koninklijk Nederlands Institut Rome. La monografia, di conseguenza, si compone di due parti nettamente distinte: «Ossa omnia integra, sanguinis plurimum» (Ambr. Ep. LXXVII) tratta delle inventiones ematiche dagli inizi fino alla fine del Settecento. Segue, poi, «Il sangue dei martiri tra devozione e ammirazione artistica». Ghilardi ci informa che «a partire dai secoli finali del Medioevo quando incominciò a radicarsi profondamente la certezza che nelle antiche catacombe del suburbio romano fossero conservate esclusivamente le spoglie gloriose dei primi testimoni della Fede, caduti nel corso delle persecuzioni anticristiane, l’immagine che il suolo della città di Roma fosse rubricato sanguine sanctorum prese e diffondersi tra gli abitanti della città e soprattutto tra i numerosi pellegrini che vi giungevano» (p. 27). Tra questi pellegrini non mancano nomi illustri: Santa Brigida (1303-1373) con la figlia Santa Caterina. La mistica svedese in una visione si sente dire da Cristo: Vade Romam ubi platee strate sunt auro et sanguine sanctorum rubricate (sic!). Il topos martiriale, stando dunque alle fonti coeve, è già rivelazione divina alla metà del XIV secolo! Francesco Petrarca (1304-1374) è ancora più esplicito: in una lettera inviata al papa Clemente VI (1342-1352) ricordava il copioso sangue dei martiri che, ancora ai suoi giorni, sembrava trasudare dalle pareti delle catacombe: Osseus est paries illic, ubi terra cruentis imbribus et sacra distillant tabe caverne (sic!). Lo studioso continua ad informarci che ritrovamenti ematici furono visti a Nepi nel 1540, quando venne scoperto il corpo del martire San Tolomeo. Così pure durante la ricognizione del corpo di Santa Cecilia in Trastevere, il 20 ottobre 1599, i presenti poterono constatare il sangue ancora miracolosamente fresco: madida sanguina vela. In una tarda biografia di San Pio V (1566-1572), redatta nel 1712, viene riportato un interessante aneddoto. L’ambasciatore del re polacco, incontrando il pontefice in Piazza San Pietro, lo supplicò di concedergli qualche preziosa reliquia per il suo sovrano. Il papa raccolse in un candido fazzoletto una manciata di terra e gliela donò. Ritornato in Polonia, l’ambasciatore, temendo di essere stato schernito, apri il fazzoletto e lo trovò, con suo grande stupore, completamente intriso di sangue. «Il recupero archeologico delle catacombe romane ... fu costantemente supportato – lungo tutto l’arco del Seicento e del Settecento – dalle narrazioni ... di ritrovamenti di piccoli vasi fittili e soprattutto vitrei – le cosiddette ampullae sanguinis – contenenti il sangue dei martiri conservati presso le tombe che si andavano restituendo alla pubblica devozione» (p. 37). Non mancarono voci che invitassero alla prudenza o deplorassero gli inevitabili abusi. Il grande de Rossi (1822-1894) era una tra queste. Aveva preparato una memoria scritta su queste “ampolle”, ma i tempi non erano ancora maturi per la pubblicazione. Secondo il suo illuminato parere contenevano soltanto residui di profumi. Su questa delicata questione oltre 60 anni fa il Padre Antonio Ferrua S.I. (1901-2003), ha dedicato una dettagliata e insuperata trattazione, corredata da numerosi documenti d’archivio, dimostrando l’inattendibilità dei vasi contenenti sangue dei martiri. Merito del Ferrua è stato quello di pubblicare, con la sua trattazione, la memoria inedita del de Rossi: A. Ferrua, Sulla questione del vaso di sangue. Memoria inedita di Giovanni Battista de Rossi, Città del Vaticano 1944. Il secondo capitolo della monografia del Ghilardi affronta il problema della devozione del sangue dei martiri. Lo studioso si domanda: «Dopo il rinvenimento di questi “vasi di sangue”, qual era il loro destino?». Sappiamo che venivano donati a parrocchie, istituti religiosi, a benefattori distinti, quando non finivano in collezioni private. Riflessi significativi del culto del sangue dei martiri si ebbero anche nel campo della produzione artistica. Ecco qualche brevissimo cenno. Oltre alla celebre statua del Maderno (1566-1636) rappresentante Santa Cecilia morente, esiste anche il dipinto “Morte di Santa Cecilia” opera di Francesco Vanni (1601-1602) nel convento delle suore presso la basilica trasteverina, e quello del Domenichino nella chiesa di San Luigi dei Francesi (1612-1615). A Santo Stefano Rotondo, negli spazi murati degli intercolumni del deambulatorio, tra il 1582 e il 1583 Niccolò Circignani, detto il Pomarancio, Matteo da Siena e Antonio Tempesta realizzarono un vasto apparato decorativo con la rappresentazione di scene cruente di martirio. Nel 1591 ecco apparire, ad opera dell’oratoriano Antonio Gallonio, il “Trattato de li strumenti di martirio e delle varie maniere di martoriare usate da’ Gentili contro i Christiani”. Inoltre, nel titolo paleocristiano dei Santi Nereo e Achilleo, chiesa restaurata dal Cardinale Cesare Baronio (1538-1607), troviamo altre rappresentazioni di scene di martirio. Una “conserua” (cisterna) di sangue poteva ammirarsi e venerarsi anche nella basilica di Santa Pudenziana, prima dei restauri compiuti sotto il pontificato di Sisto V (1585- 1590). Pudenziana con la sorella Prassede aveva traslato all’interno di pozzi, presso la loro casa, migliaia di corpi di martiri, raccogliendo il sangue da loro versato nel corso del martirio con spugne e vasi. Almeno così recita una tarda ma diffusissima leggenda agiografica. Lo studioso, dopo aver evocato questa galleria di rappresentazioni artistiche, dedicate alla venerazione ematica, tenta di chiarire il perché di tanta “esplosione” devozionale verso il sangue dei martiri in età moderna ed ecco la risposta più che soddisfacente che ci offre: «Nel momento in cui la Chiesa di Roma sembrava vacillare sotto i colpi dei riformatori protestanti, le gerarchie ecclesiastiche compresero che se la devozione popolare fosse corsa sul filo del sangue dei martiri vi sarebbe stato un canale emotivo privilegiato che avrebbe avvicinato alla fede anche coloro che sembravano maggiormente scettici» (p. 83). Eccezionale l’apparato di note ad ogni pagina, come è costume del Ghilardi, ma ancora più eccezionale è la bibliografia: su 110 pagine, tante ne ha il volumetto come si è detto, il ricercatore cita ben 195 autori, riportando di non pochi anche il pensiero. Segue un Indice dei personaggi e degli autori moderni. Grazie a questa sua ricerca le catacombe romane, dopo la loro riscoperta, possono contare su un ulteriore apporto di maggior conoscenza.
Tratto dalla rivista "Salesianum" 72 (2010) 1, 162-164
(http://las.unisal.it)
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