Sul perdono. Storia della clemenza umana e frammenti teologici
(Sintesi)EAN 9788842420170
Un magistrato e un teologo valdese, ambedue docenti a livello universitario, affrontano con riflessione competente una delle nozioni più elevate del patrimonio etico dell'umanità, attualmente diventata spesso una moda o merce di scambio o tema per una domanda giornalistica superficiale in momenti magari drammatici: «Lei perdona o no?». Nelle pagine introduttive (pp. VII-XI), firmate insieme dai due autori all'inizio del volume, il lettore può già intuire la serietà con cui viene affrontata la ricerca di una nuova grammatica nel trattamento delle offese, facendo perno su modelli senza precedenti, ma anche senza dimenticare la sfida del confronto con le grandi tragedie dell'umanità che chiamano a riflettere sulla perdonabilità o meno dei grandi crimini del secolo appena tramontato, anche con l'apporto della psicologia. Prescrizione, grazia, amnistia sono le tecniche tradizionali nel declinare il perdono in leggi positive: negli ultimi decenni ha fatto la sua comparsa il termine riconciliazione che in qualche modo si avvicina alla logica del perdono e domanda forme partecipative protese verso il futuro, con assunzione di notevole responsabilità, specie se l'annuncio del perdono prende l'accento tipico della Riforma protestante.
La prima parte del volume, proposta da Bouchard, percorre La storia della clemenza umana, iniziando dal perdono nel potente codice della speranza che è il giubileo ebraico, dal perdono per il primo errore dei figli ribelli o nelle lotte di successione del regno hittita, onde interrompere lo scambio vendicativo nella successione reale. Nell'epopea omerica è il vecchio Nestore a sedare il dissidio tra Agamennone e Achille. Nel mondo greco l'aspirazione degli uomini onesti punta alla sicurezza e conferma una scarsa propensione degli ateniesi alla clemenza: solo in epoca ellenistica, con l'allargamento della dimensione territoriale della Grecia, si passa all'amnistia con l'intervento di un terzo equidistante per ricostruire una convivenza democratica ad Atene. Nell'amnistia romana sopravvive l'ordine di non ricordare i fatti del passato. La consuetudine indulgenziale degli imperatori romani in occasioni di festività o di vittorie evolve, con il Codice Teodosiano, nelle amnistie pasquali che stanno alla radice del perdono penitenziale ecclesiale cristiano fino al sistema tariffato che porta alle indulgenze e poi alla confessione. La riforma protestante introduce una novità nella valorizzazione del lavoro per assegnare un senso sociale alla pena detentiva, dato che l'interdipendenza del potere civile e quello religioso si rivela fortissima nel cammino verso gli stati nazionali.
Lo scorrere del tempo pone il problema della prescrizione che si rivela un perdono pre-stabilito: mentre per i greci e romani antichi la prescrizione era sconosciuta al diritto penale, lungo il Medioevo l'imprescrittibilità diventa l'eccezione, guidata comunque dall'attenzione al rischio dell'impunità. Nel Novecento il problema si ripropone drammaticamente, dal versante delle vittime più che dei governi, con lo Shoah dello sterminio nazista e la lezione sudamericana dovuta all'opera intelligente della giurisprudenza degli organi internazionali (specie la Corte Interamericana de Derechos Humanos) sui cosiddetti desaparecidos: per voltar pagina nella storia bisogna prima averla letta, nella «ricerca di una verità condivisa, unica, in grado di assicurare un orizzonte comune all'indomani delle grandi tragedie collettive» (p. 43), individuando, come in Sud Africa, una via mediana tra l'amnistia e l'imprescrittibile, attraverso uno scambio virtuoso. Certo: non si possono tirare conclusioni universali, perché le ragioni alla base della prescrizione cambiano. Oggi si può dire: più si cerca di seppellire il ricordo, più il silenzio rischia di essere destabilizzante.
Una forma di perdono su domanda è la grazia, che presuppone sottomissione e riafferma il potere di chi la dispensa in una specie di «risurrezione giuridica». Gli inquisitori del territorio di Tolosa inaugurarono, a metà del secolo XIII, un vero e proprio «tempo della grazia», che successivamente assunse varie forme come garanzia di dedizione della popolazione al sovrano, a suo modo anche nell'Impero ottomano. Il diritto alla grazia va oggi coniugato con il dovere di punire anche alla luce del diritto penale internazionale, che comporta ridimensionamento del potere sovrano nazionale e chiede nuovo respiro e nuova funzione alla clemenza.
Uno sguardo attento alle amnistie del Novecento nel primo e nel secondo dopoguerra (in cui la magistratura italiana non fa una figura particolarmente brillante fra gli stati europei) permette di concludere che oggi si prospetta una nuova visione della comunità internazionale in cui, in ragione di principi assoluti e sovraordinati, «non sono ammesse le autoamnistie che coprono i crimina juris gentium (genocidi, crimini contro l'umanità, riduzione in schiavitù, pirateria): il divieto di amnistia appartiene ormai allo jus cogens del diritto internazionale» (p. 83).
L'abbiamo accennato all'inizio, ma il fatto va ripreso: negli ultimi decenni è approdato nel repertorio del diritto umanitario il termine «riconciliazione» che propone soluzioni negoziali tra aggressori e vittime, quasi nuovo strumento politico e giuridico nel trattare la violenza e i crimini di Stato, specie in Africa e in America Latina. Il termine propone dilemmi per la giustizia in politiche di transizione dopo momenti drammatici, con inevitabili soluzioni di compromesso, perché anche il «nuovo» Stato non è mai innocente e rivela difficoltà a voltar pagina. Si tenta di utilizzare organismi internazionali nel ruolo di terzo garante dei diritti violati, ad esempio la Corte penale internazionale. La riconciliazione implica un movimento delle parti separate e divise: si preoccupa soprattutto del futuro della nazione; in tale prospettiva lo Stato è chiamato a svolgere una funzione ben più complessa rispetto a quella tradizionale.
Le ultime pagine della storia offrono una serie di ricami sul perdono, con l'attenzione a svelarne anche i lati ambigui, specie nelle richieste plateali, e precisarne le condizioni per la sua concedibilità. Non è dimenticato il fenomeno del pentitismo e la differenza tra riconciliazione e perdono. Un ultimo insegnamento sottolinea la laicità della riconciliazione contrapposta alla religiosità del perdono: una via laica, civica alla riconciliazione può trovare il suo fondamento nell'umana esperienza del riconoscimento delle offese, nella loro concreta riparazione e nel ruolo attivo assegnato alle vittime; si tratta in ogni caso di un atto verso il futuro.
Abbiamo voluto ripetere da vicino il filo della storia della clemenza umana per rilevare i cambiamenti di interpellanze che soprattutto negli ultimi secoli e decenni costringono la riflessione di un magistrato a rinnovarsi. Per un insegnante di teologia cattolica, che conosce la storia travaglia-ta della penitenza cristiana, il tutto serve da stimolo per guardare oltre le forme penitenziali tradizionali, dinanzi a fenomeni sociali che i secoli passati non registravano: probabilmente anche la disciplina penitenziale delle chiese (anche cattolica) deve ripensarsi e riformarsi, almeno in analogia.
Con eguale attenzione affrontiamo i percorsi di riflessione teologica sul perdono tracciati dal pastore Fulvio Ferrario. Con la tipica sensibilità riformata, nelle sue 120 pagine egli desidera offrire una piccola e rapsodica provocazione al dialogo ritmata su alcuni passi dell'Antico Testamento, su alcuni elementi del messaggio del quale Gesú è portatore e dell'annuncio ecclesiale di Gesú come evento del perdono di Dio, per concludere sulla chiesa come «istituzione del perdono» con le relative potenzialità e ambiguità. I colpi di sonda nell'Antico Testamento esaminano la vicenda di Caino (Gen. 4, 1-15), un fratricida riconosciuto colpevole ma non condannato a morte: perché vi sia perdono deve esservi grazia, cioè un intervento non deducibile e un atto creatore che ristabilisce unilateralmente la relazione dove essa è stata infranta. Nel Miserere e nel ciclo di Giuseppe (Gen. 37-50) Dio si rivela come colui che promette e crea storia, come presente che medita il passato nella speranza: «il nuovo costituito dal perdono ‘orizzontale' è reso possibile dall'intervento di Dio che guida la storia e che anzi più precisamente crea storia» (p. 152). E tuttavia l'etica e il diritto non devono né possono essere semplicemente cancellati dal perdono, ma solo relativizzati per cogliere il nuovo in termini diversi dalla pura replica delle dinamiche del passato: la valutazione dell'operato dei fratelli di Giuseppe non muta, ma viene sospesa.
Gesú di Nazareth come portatore di un messaggio di Dio, nei confronti del suo maestro Giovanni Battista, annuncia il Regno in termini di promessa e di buona notizia: il banchetto con «cattive compagnie» diventa segno dell'approssimarsi benevolo di Dio, creatore di nuove possibilità per la libertà. «L'approssimarsi del Regno nella persona di Gesú costituisce un'irruzione di futuro e di possibilità nella realtà umana e storica. È in essa che accade il perdono» (p. 164). Perdono, guarigione, autorità sono termini progressivamente approfonditi negli episodi del paralitico di Mc 2, 1-12 (in cui la potenza del perdono è identificata con quella del Dio creatore, che ristruttura la convivenza umana), nel richiamo agli esorcismi che danno conto dell'effettiva complessità del male e rappresentano la dimensione cosmico-storica del perdono: paradossalmente il perdono può diventare elemento promettente e insieme disturbante sul piano sociale come in Mc 5, 1-20 (i maiali annegati nel lago). Non poteva mancare la quinta richiesta del Padre nostro, in cui chi chiede perdono si colloca nello spazio della speranza superando la semplice giustizia retributiva, e l'episodio sorprendente dell'adultera di Gv 8, 1-11 in cui il riconoscimento della propria colpa crea spazio al perdono. Quando una società perdona, essa fa appello a risorse di responsabilità che altrimenti non potrebbero dispiegarsi.
Dalle prime comunità cristiane, sulla linea dei testimoni delle apparizioni del Risorto, Cristo viene letto come l'evento del perdono: egli stesso è l'evangelo, la buona notizia della grazia di Dio nei confronti dell'umanità e della creazione intera; il nome di Dio non è più separabile da quello di Gesú di Nazareth. In tale luce vengono rilette le Scritture ebraiche. La morte di Gesú ha lo stesso significato della sua vita, espressione del perdono di Dio: non si tratta di dedurre logicamente la necessità della croce, bensì di interpretarla. I modelli interpretativi si possono ricondurre alla morte come espiazione (la sostituzione vicaria dice che le conseguenze del peccato sono radicalmente relativizzate) e come atto di culto (offerto una volta per sempre, il che dà primato alla dimensione ricettiva e secolare della vita, sottolineando la precedenza e l'indipendenza dell'evento del perdono rispetto alla sfera del diritto e della religione cultuale). Ulteriormente la morte di Gesú come riscatto è forse l'interpretazione più innovativa: la comunità che vive del perdono può essere determinata, nelle sue dinamiche, solo da tale evento e dunque dalla libertà (cf. p. 199); e l'idea di risurrezione è promessa di relazione anche oltre la morte. Se la morte di Gesú viene letta anche come manifestazione dell'amore di Dio, amare è sinonimo di esporsi e rinunciare a imporre se stessi. L'amore è il rischio supremo, il più ardito investimento sulla relazione. Le lettere dell'apostolo Paolo, interpretate per la storia occidentale da Agostino nel IV secolo, aggiungono la «giustizia di Dio» identificata con l'evento di Gesú Cristo morto e risorto: egli è rivelazione del sì incondizionato di Dio nei confronti di ebrei e pagani, grazia come potenza che vince il peccato radicale e rende possibile il perdono dei peccati specifici. La distinzione tra fede e opere porta a cogliere l'irriducibilità della persona alle sue azioni: il che diventa un buon criterio critico, contributo della teologia alla riflessione civile e penale.
Lo sguardo per spunti alla storia bimillenaria ecclesiale sull'esercizio delle forme di perdono si sofferma su tre passaggi: il legare e sciogliere neotestamentario, la prassi ecclesiastica antica e medioevale (che dispone del perdono di Dio più che annunciarlo: l'idea di Purgatorio, le messe a catena, le indulgenze provocano la carica liberante ed esorcista della Riforma); in terzo luogo si mettono a fuoco le teorie moderne della pena e del perdono, e si conclude con un paragrafo sintetico di tesi riassuntive che riteniamo utile riportare quasi alla lettera. Anzitutto il perdono come parola che viene dal futuro, relativizza il passato, il presente, i conflitti che li strutturano e che Stato e diritto intendono regolare. La teologia cristiana, sulla linea del primo comandamento, si batte per una secolarizzazione radicale del diritto in una visione della pena laica, secolare e pragmatica contro la permanente tentazione di una nuova sacralizzazione del diritto. In secondo luogo il perdono, come parola che strutturalmente rinuncia a imporsi, bensì si propone, presenta una immagine della forza che rifiuta l'esercizio della violenza. La teologia cristiana si batte per uno Stato sempre più forte e sempre meno violento, in grado per tale ragione di umanizzare il diritto penale, puntando alla convivenza come criterio costante. Ancora: il perdono, come parola gratuita e indeducibile, ricrea la relazione interrompendo la consequenzialità retributiva tra colpa e sanzione. La teologia cristiana sottolinea le potenzialità sociali di istituti giuridici che corrispondono a tale dinamica, come quelli dell'amnistia e della grazia. Infine la parola del perdono, nella sua qualificazione cristiana, svolge una funzione sociale per il fatto stesso di essere predicata e testimoniata dalla chiesa. Tale predicazione e tale testimonianza si esprimono in modo eminente nella rinuncia, da parte della chiesa, a gestire il perdono. Una chiesa che rinuncia all'esercizio religioso delle dinamiche del potere contribuisce alla maturazione di una società laica e tollerante, liberando in tal modo spazi importanti per l'esercizio di frammenti di perdono. Il paradosso del perdono, raccontato nella storia biblica di Gesú, resta una sfida che nemmeno l'Occidente secolarizzato può permettersi di ignorare.
Le 245 pagine del bel volume firmato da Bouchard e Ferrario chiedono un certo prezzo in termini di attenzione perché non sempre facili: e tuttavia leggerle ne vale la pena come utile stimolo anche per il lettore cattolico. La realtà studiata è complessa, leggibile da diversi punti di vista. Delle pagine firmate da Marco Bouchard abbiamo detto. Al teologo valdese Fulvio Ferrario va riconosciuto il coraggio di accettare il tentativo di dialogo con un magistrato, anche se articolato «per spunti, piste di ricerca, frammenti» (p. 238). La lunga insignificanza culturale della teologia italiana, segnalata nelle prime pagine, invita a tale coraggio, anche se non si può pretendere di raggiungere vette dolomitiche ad ogni tentativo. Ma forse la teologia riformata si dimostra più allenata al dialogo con mondi laici rispetto alla teologia cattolica. Comunque, sul tema del perdono, dal versante cattolico trova ormai forte consonanza il registro della promessa e del futuro, senza deprezzare il momento giuridico, grazie al movimento biblico e al concilio Vaticano II, per il quale vale la pena di spendere sempre qualche parola di difesa. La sensibilità ecumenica può aprire una finestra ulteriore e rendere apprezzabile e stimolante anche qualche frecciatina, che aiuta a diventare tutti realmente più ricettivi verso il solus Christus e probabilmente più capaci di testimoniare il suo evangelo nella cultura contemporanea.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2008, nr. 3
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)