L'inverno più lungo
-1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma
(i Robinson / Letture)EAN 9788842086734
Un’immagine definita e soprattutto definitiva, che descriva attraverso toni netti le azioni del pontificato di Pio XII negli anni che vanno dall’emanazione delle leggi razziali contro gli ebrei alla Liberazione è, ad oggi, in realtà, tanto cercata ed evocata quanto sfocata. L’inverno più lungo di A. Riccardi ci accompagna in un percorso spazio-temporale ben definito dal sottotitolo: 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma. Riccardi resterà fedele a questa impostazione non facendo digressioni sugli avvenimenti che precedettero quell’inverno, né tradendo la centralità dei protagonisti espressi.
Il libro è, prima di tutto, un percorso che ha come protagonista indiscussa Roma: percorso fisico, affannato, reale per i protagonisti, soprattutto per gli ebrei che cercano di fuggire e nascondersi dopo il rastrellamento del ghetto del 16 ottobre 1943; visivo per il lettore che corre con loro attraverso le strade e i luoghi di allora, ancora oggi assolutamente familiari per chiunque sia vissuto, anche per brevi periodi, a Roma. Questo percorso è importante per definire le distanze e soprattutto le vicinanze tra i “luoghi” della fede cattolica, tra i monasteri, i conventi, lo stesso Vaticano, e il ghetto. Grazie alla descrizione di Riccardi, il lettore riesce ad arrivare fino ai portoni dei monasteri con gli ebrei che fuggono e riesce quasi a sentire il loro bussare convulso e la speranza che quel portone venga aperto. Roma, descritta più che come scenografia, proprio come una protagonista quasi umanizzata, ha un suo punto di riferimento in quegli intensi mesi: Pio XII. La figura di papa Pacelli viene declinata in maniera diversa rispetto ai diversi “fronti” sui quali il pontefice si trova a dover agire in quei mesi. Una posizione di Pio XII chiaramente a favore e a difesa degli ebrei, in un frangente in cui il problema ebraico diventa, improvvisamente, un problema non tanto della comunità ebraica italiana, quanto di quella romana, quindi di quella a lui geograficamente più vicina, è continuamente evocata, intuita, quasi attesa, ma resta una suggestione.
Oserei paragonare questa presa di posizione a un fiume che molti continuano a sostenere che esista, ma del quale si continuano a vedere solo gli affluenti. In questo libro Riccardi ce ne presenta molti e diversi: gli affluenti sono i documenti, le testimonianze che evocano, riportano, trascrivono un ordine o una parola, una presa di posizione chiara e soprattutto determinata di papa Pacelli. Tutti ci indicano un percorso che sembra sempre sottendere una volontà, un intervento che, ripeto, è probabile, ma non certo; deducibile, ma non dimostrato. Andrea Riccardi rincorre questa dimostrabilità in tutto il testo e questo è, probabilmente, il suo unico ma importante limite storiografico: evocando un “documento” del quale, ad oggi, non è stato possibile verificare l’esistenza, si fa viaggiare il lettore verso un’ipotesi che sembra quasi reale, ma storicamente non lo è; inoltre si rischia di perdere, in questo modo, il valore e l’importanza dei tanti “sì” detti dai singoli sacerdoti, religiosi o religiose, delle tante porte dei conventi che furono aperte e delle tante vite salvate. Altro è cercar di indagare nel profondo le motivazioni che hanno portato anche chi non si era opposto alle leggi razziali, a rischiare la vita per salvare gli ebrei. Tutto questo in mancanza di una presa di posizione ufficiale che lo stesso autore sembra riconoscere quando afferma «Pio XII non denunciò la razzia degli ebrei di Roma» (p. 140), ma che non smette di evocare in tutto il libro. Altro punto centrale nella trattazione è il rapporto Germania-Vaticano. Nelle prime pagine il piccolo Stato Vaticano sembra quasi già nelle mani tedesche in quel tragico ottobre romano del 1943.
Ma così non è, e lo si evince soprattutto nel settimo capitolo intitolato «Lo spazio della Chiesa». Uno spazio che Riccardi chiarisce molto bene essere non solo geografico, ma politico, etico e morale, di controllo e protezione, ma anche di diplomazia e potere. Uno spazio che da semplicemente difeso sembra quasi ampliarsi con il passare dei giorni, grazie a una diplomazia vaticana, a uno stesso Pontefice, che si sono da subito relazionati con una Germania che, dopo l’8 settembre, inizia a minacciare spazi fino a quel momento inviolabili. Riccardi ci racconta una diplomazia fatta da uomini impauriti come gli altri, ma che si è confrontata con la Germania da pari a pari, pur essendo in realtà totalmente vulnerabile. Una diplomazia che non tentenna neppure quando i tedeschi iniziano a entrare in chiese, conventi e monasteri, aiutati, e a volte anticipati, dai fascisti della Repubblica di Salò. Il Governo del Vaticano prende nomi e volti noti alla storiografia soprattutto nel quinto capitolo, «Governare in un Vaticano sotto controllo»: quello del cardinale Maglione e della sua fiducia nei rapporti diplomatici con l’ambasciatore tedesco Weiszäcker; quello delle discussioni tra mons. Montini e il Pontefice sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli ebrei, riportate facendo riferimento soprattutto agli appunti scritti da Montini al termine delle stesse. Montini è stato l’uomo chiave della sorte degli ebrei di Roma per due motivi fondamentali: aveva la possibilità di parlare quasi quotidianamente con papa Pacelli ed era lui a presentare al Pontefice casi specifici, spesso particolari, di ebrei che chiedevano rifugio a strutture vaticane; attraverso di lui Pio XII ha potuto conoscere non solo la Grande Storia di una Roma assediata, ma, presumibilmente, anche tante piccole storie di singoli ebrei assediati.
La diplomazia vaticana prende il volto della figura, ancora priva di una biografia sintetica, del padre gesuita Pietro Tacchi Venturi che, da un lato, sosteneva presso il governo Badoglio la non necessità di una totale abrogazione delle leggi razziali, perché contenenti passaggi condivisibili e, dall’altro, denunciava presso la Segreteria di Stato, dopo il 16 ottobre, «la bestialità» della deportazione alla quale erano stati costretti gli ebrei; e prende il volto della presa di coscienza di mons. Tardini dopo l’irruzione dei repubblicani a S. Paolo, certo che un’azione specificatamente tedesca di violazione dei territori vaticani si sarebbe svolta da lì a poco e che quindi bisognava denunciare l’accaduto e non affidarsi più ai soli rapporti diplomatici, ma soprattutto non bisognava più fidarsi di Weizsäcker. Figure complesse in un panorama altrettanto sfaccettato, ma che Riccardi ci presenta in maniera ordinata e sintetica: in un Vaticano sotto controllo, gli uomini della Segreteria di Stato, gli uomini del Papa, avevano ognuno un proprio ruolo, ma a tratti emerge anche che ognuno avrebbe voluto, forse, affrontare l’emergenza di quei mesi in maniera parzialmente diversa; proprio in questo panorama così ricco di sfumature, anche se all’interno della stessa Santa Sede, il controllo e l’intervento di Pio XII emerge deciso, con quei contorni netti e dimostrabili, che invece mancano nella descrizione della sua posizione sulla “questione ebraica”.
Accanto a questi nomi nel libro di Riccardi ne compaiono altri, sicuramente meno noti, meno familiari ai più; addirittura nomi che non conosceremo probabilmente mai perché sembrano quasi nascondersi dietro altri nomi: il convento delle suore salvatoriane sul Gianicolo, il convento di Maria Bambina vicino a piazza S. Pietro, le agostiniane dei Sette Dolori di via Garibaldi, le benedettine di Priscilla fondate da mons. Giulio Belevederi, le suore di Sion, le suore della Dottrina Cristiana e tanti altri. Riccardi ce ne offre un panorama che potremmo definire quasi “topografico”, senza dimenticare né un nome, né una strada. Per la lettura del libro questa scelta potrebbe sembrare a volte pesante, difficile da seguire, ma questi nomi sono necessari, perché dietro ognuno di essi c’è stata una mano, una comunità religiosa, soprattutto femminile, spesso di clausura, che ha deciso di aprire la porta del proprio “mondo” a chi in quel momento bussava lì come se fosse l’ultima possibilità di salvare se non se stessi, almeno i propri cari. Sono stati loro la mano del Vaticano che, al di là della diplomazia, è stato vicino alla gente di Roma, senza distinzioni politiche, religiose e razziali attraverso ognuno di questi luoghi, ognuna di queste comunità. Il capitolo dodicesimo ha un titolo, «La scelta di aprire», che racchiude la grande difficoltà e insieme la semplicità del gesto di aprire le porte dei conventi, soprattutto quelli femminili. Le comunità religiose femminili, come Riccardi spiega in questo capitolo, erano infatti le più isolate dagli avvenimenti politici e questo accadeva non solo nelle comunità di clausura: la «vita attiva» delle comunità religiose femminili era assai lontana dai palazzi vaticani, ma assai vicina alla figura del pontefice. A papa Pacelli sembrano infatti ispirarsi molte madri superiore che hanno aperto i loro conventi anche agli uomini, sconvolgendo una vita consacrata fatta di silenzio, preghiera, momenti definiti e scanditi da sempre e per sempre, all’interno di mura che riuscivano a donare pace nonostante tutto il mondo fosse in guerra, facendo entrare dentro quelle stesse mura un mondo che fino ad allora ne era rimasto fuori. Che cosa potevano donare questi conventi di così prezioso agli ebrei e a tutti i ricercati che bussavano alle loro porte? Le religiose erano convinte di poter donare pace e, fino a un certo punto, sicurezza a queste donne, uomini e bambini. Chi si rifugiava da loro aveva meno certezze, molta paura, e soprattutto aveva trovato solo quel portone... aperto.
L’ultimo capitolo che ritengo sia necessario citare è il decimo, «Tra organizzazione e spontaneità», nel quale Riccardi traccia il percorso di quella che è stata la più importante organizzazione di assistenza ebraica in quegli anni, la Delasem, facendolo intersecare con il percorso a volte non progettato, non definito dell’aiuto offerto da tanti sacerdoti (tra i quali emerge padre Benoit, cappuccino francese già impegnato nell’assistenza degli ebrei nella Francia occupata dagli italiani e in quei mesi a Roma, collaboratore privilegiato della Delasem), che si muovono nei quartieri romani; quartieri ai quali Riccardi fa quasi prendere vita, definendone un atteggiamento generale anche se non generalizzato: la popolazione non ha in blocco nascosto gli ebrei, ma sicuramente si è mostrata ostile alla caccia feroce fatta contro di loro dai repubblicani e dai tedeschi. Sono molti altri gli avvenimenti che Riccardi riporta e racconta fino al momento della Liberazione: ognuno affidato a intere pagine che andrebbero citate tutte, perché un indubbio merito di questa narrazione è quello di dare a tutti, e ad ognuno, di questi avvenimenti la stessa importanza. Riccardi riesce a non far mai pensare al lettore quanti sono stati i rifugiati, presentando subito chi erano alcuni di loro; ogni avvenimento, ogni portone aperto è stato importante, ogni “no” che si è poi trasformato in “sì” è stato importante e dal testo emerge l’impressione della descrizione non di un eroe, ma di una comunità, inconsapevole forse di essere tale, fatta di conventi, monasteri, suore, sacerdoti secolari, frati, laici; una comunità forse inconsapevole di essere così numerosa perché mossa da sentimenti e motivazioni molto diverse e spesso distanti; una comunità che però ha fatto sì che quasi «metà città era nascosta in casa dell’altra metà» (p. 284).
Questa comunità, romana, italiana e internazionale, è stata l’eroe inconsapevole di quel terribile inverno: non sempre è riuscita a proteggere i rifugiati, ma ci ha provato, senza voltarsi dall’altra parte. Riccardi continua la sua narrazione dopo la Liberazione, fino a quando i “nascosti” si sono sentiti abbastanza sicuri da poter uscire: lo fa descrivendo i sentimenti di chi, a torto o ragione, ha visto nel Papa l’unico punto di riferimento, l’unico uomo al comando che non ha abbandonato Roma per rifugiarsi altrove.
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (3/2010) 512-515
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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