Sapiente, sacerdote, profeta. La leadership religiosa e intellettuale nell'Israele antico
(Studi biblici)EAN 9788839407023
L’autore, noto in italiano soprattutto per i suoi studi sul Pentateuco e sui Profeti (cf. Il Pentateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia [Biblioteca biblica, 21], Queriniana, Brescia 1996 [ed. inglese 1992]; Idem, Storia della profezia in Israele [Biblioteca biblica, 22], Queriniana, Brescia 1997 [ed. inglese, 19962]), attinge dai risultati del metodo storico critico, ma si inserisce nella linea degli ‘storici sociali’. Questo metodo si concentra prevalentemente sull’organizzazione sociale, le condizioni di città e villaggi, le fasi della vita, il contesto ambientale, la distribuzione del potere in relazione a classe e status, la stabilità e instabilità sociale. È sviluppato soprattutto in ambito anglosassone e americano, in Italia vi è solo qualche tentativo: ricordo l’intervento antropologico e sociologico di Bellia (in G. Bellia-A. Passaro, Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Paoline, Milano 2001), mentre S. Pinto, «Ascolta figlio»: autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1-9, Città Nuova, Roma 2006, si impegna più sul piano antropologico.
In Italia, in parallelo a questo volume, è apparsa già nel 1998, l’opera di L.L. Grabbe, Sacerdoti, profeti, indovini, sapienti nell’antico Israele, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), che tale approccio rivolge a tutta la storia di Israele. Introducendo gli ‘indovini’ nel titolo, distinti dai profeti, ne amplifica la portata. È un volume di godibile lettura. Ambedue le opere, di Blenkinsopp e Grabbe, nell’originale inglese sono state pubblicate nel 1995. Il volume del secondo ha avuto la fortuna di essere tradotto prima… ed è già esaurito. I due titoli sono da segnalare per il particolare approccio.
Blenkinsopp (= B.) precisa subito lo scopo e il metodo: ricercare la leadership intellettuale esercitata dai gruppi che furono artefici dei testi biblici e hanno dato corpo in modo rilevante a costruzioni intellettuali, religiose e morali nella società in cui hanno operato. Si propone quindi di definire i ‘ruoli sociali’ in cui sono inseriti, sviluppando la teoria del ruolo e dell’esecuzione del ruolo rispondendo alle aspettative della società o di una sua parte, come le competenze richieste, compresa la pretesa autorità in campo religioso, che ha determinato la loro competizione. Ricordiamo che va considerata anche l’ideologia, consapevole o implicita, che ha accompagnato i compilatori dei libri.
In secondo luogo, l’autore avverte le ambiguità dei tentativi di definizione dei ruoli, sia per le connotazioni attuali del termini, sia perché uno stesso individuo poteva ricoprire ruoli diversi, sia infine per gli aspetti culturali che interagivano tra di loro e nella società. Queste righe raccolgono quelli che sembrano i risultati che il metodo può avere offerto.
L’autore parte dai ‘sapienti’, anche se poi ne ridimensiona il ruolo, in quanto la loro tradizione intellettuale è riconoscibile piú agevolmente e resta la figura più vicina a quella che oggi chiamiamo ‘intellettuale’. La trattazione, a parte qualche spunto particolare, pare abbastanza tradizionale nel confronto storico-critico. La “tradizione sapienziale” è definita «un insieme di conoscenze o di un gruppo di temi trasmessi oralmente o per iscritto attraverso diverse generazioni e soggetti ad adattamento, modifica, reinterpretazione, e magari confutazione nel corso della trasmissione» (p. 35). Questa concezione diventa utile perché pone al centro determinate questioni e una vasta intesa sul modo in cui vengono impostate. L’esame di Ben Sira, giudicato nell’insieme piuttosto negativamente, porta Blekinsopp a concludere che «in un modo o nell’altro i ruoli tradizionali avevano cominciato a sovrapporsi l’uno all’altro» (anche se la profezia ritenuta cosa del passato, era componente importante del curriculum del sapiente, Sir 39,1). Ciò sarebbe in armonia con il detto rabbinico che la profezia è stata tolta ai profeti e data ai sapienti (es. bBaba Batra 12a).
Le fonti bibliche sull’identità e il ruolo del sapiente vanno usate con cautela. Una ricerca storica colloca l’identificazione dei ‘saggi’ come categoria sociale di persone ben distinta solo al IX secolo con Omri al nord e Giosafat al Sud. La ricerca si allarga anche ai ‘codici di leggi’ per ricordare il fatto - del resto già noto - che la tradizione giuridica rivela in realtà uno stile pedagogico al fine dell’edificazione morale. Vi è dunque una sovrapposizione tra formulazioni didattiche e giuridiche. I funzionari riconosciuti, ai quali si richiedeva in modo speciale la capacità di «mantenere il controllo», vanno dal mazkir (cronista di corte o archivista), al sofer (scriba reale con un posto privilegiato nella burocrazia), al consigliere, fino ai tofeshê hattorâ (coloro che maneggiano la legge) legati alle leggi deuteronomiche. Contro questi ultimi, che rivendicavano a se stessi la suprema autorità di interpreti in modo vincolante ed esclusivo della legge, dovette polemizzare Geremia.
Nella Sapienza, femminile come la torah, personificata e idealizzata, B. riprende la tesi di Claudia V. Camp, sul «ritorno del rimosso», e la interpreta come «sfida potenzialmente sovversiva al predominio maschile e come decostruttiva della razionalità e rigidità dei sistemi ortodossi portanti, nel giudaismo come nel cristianesimo» (p. 87). Anche nel pensiero cristiano l’attingere alle immagini della sapienza preesistente finì per incorporare elementi femminili sulla natura divina, sebbene mai in completo accordo con l’insegnamento ortodosso.
Lo sviluppo critico nei confronti del «principio di retribuzione» occupa l’ultima parte: dalla visione tradizionale fino alla disputa di Giobbe e al suo indebolimento dall’interno con Qohelet. Lo sviluppo del pensiero dovette influenzare anche Gen 1-11. Le sezioni non sacerdotali sembrano tese a compensare la visione ottimistica del sacerdotale con una diagnosi più realistica e disincantata, sul modello dei sapienti posteriori. Questo fu il risultato di una storia religiosa e intellettuale contrassegnata da ‘ostilità culturale’ (secondo la definizione di Weber), molto differente da quella greca che godette della sua libertà e fu alimentata da un ceto agiato di intellettuali laici favorito da condizioni economiche favorevoli. La tradizione sapienziale giudaica fu meno speculativa e piú contrassegnata da aspetti pratici ed etici – come del resto in molti pensatori ebrei moderni, da Buber a Lévinas; inoltre, l’etica basata su osservazioni ed esperienza, fu attratta dall’orbita della legge, intesa come principio religioso fondamentale. Essa divenne dominante e attiva al più tardi nell’ultimo secolo del secondo tempio.
La seconda parte cerca di comprendere come il sacerdozio di fatto mostrò maggior potere e influsso durante il secondo tempio e in che senso si possa parlare di una tradizione intellettuale sacerdotale, superando le negative valutazioni dei biblisti liberali mediante la migliore comprensione attuale dei ruoli sociali della legge e del rituale, e riscoprendo nelle narrazioni storiche una prospettiva universalistica assente nella altre parti del Pentateuco (p. es. Deuteronomio).
Per comprendere il mondo religioso e intellettuale P, B. considera il complesso letterario, che egli estende fino alla costruzione del santuario a Silo come narrato in Gs 18-19, con narrazione schematica, cataloghi e genealogie, leggi cultuali e rituali.
Dopo aver tentato una difficile, talora improbabile, ricostruzione delle fonti e delle fasi del culto – mantenendo una distinzione tra giudaismo ‘ortodosso’ e culto popolare, che oggi, rispetto a quando scrive B., si rivela ancor più lontano da quello, in base agli scavi archeologici a Gerusalemme nella città di Davide – l’autore si sofferma sull’epoca del secondo tempio, nella quale il ruolo sacerdotale estese il suo campo di azione. «Il secondo tempio era il centro di una comunità gerarchica piú o meno rigidamente organizzata e chiusa, esclusivamente maschile, che costituiva forse un dieci per cento della popolazione della provincia» (p. 164).
Quali ruoli e in che senso i sacerdoti furono creatori, portatori e interpreti di una tradizione intellettuale peculiare o caratteristica? Per rispondere, B. cerca di ricostruire la formazione professionale o il tipo di conoscenze richieste al sacerdote per attendere al suo ruolo, da quelle tipicamente rituali e cultuali alla medicina e alle competenze giuridiche, fino al forte controllo sul matrimonio. Poi traccia il sistema di pensiero tipico del sacerdozio che ha la sua caratteristica nella distinzione tra puro e impuro, ma ha la sua origine in un sistema ordinato che parte dalla creazione (cf. Gen 1), con la distinzione e separazione (B. non cita l’opera di Beauchamp), e si riflette nell’ordine sociale. Come il corpo fisico dell’individuo deve mantenersi puro, cosí deve essere integro il corpo politico, la condizione del paese, i suoi confini. Ne deriva la concezione di Israele come popolo ‘separato’ per essere santo, possesso di Dio, che difende il paese dalla ingerenza dell’idolatria. Le stesse prescrizioni cultuali rientrano in una cosmologia coerente nella quale Israele assume un suo posto nel mondo.
Un secondo elemento è l’asse temporale, che manifesta l’interesse per la precisione cronologica ed è legato al culto: ha inizio con la creazione del mondo, santuario cosmico, e termina con l’erezione del santuario nella terra promessa (Gs 18-19). Anche il senso del patto del Sinai e delle peregrinazioni ha una funzione paradigmatica: mira a creare una comunità unita nel culto (già chiamata nel deserto ‘?dâh e q?h?l, termine preferito in Esdra-Neemia), avendo presente la nuova comunità del primo secolo del periodo persiano. Non manca una visione universalistica che assegna una caratterizzazione religiosa a tutta l’umanità come nel diluvio e nell’attenzione al forestiero.
L’asse spaziale è concentrato su terra, paese, tempo, che B. collega alla dottrina cosmologica della tradizione mitologica e storiografica erudita del Vicino Oriente. Per il sacerdotale vi è una gradazione di santità espressa in termini spaziali, in forma di centri concentrici o di quadrati inscritti in altri quadrati con simbolismo cosmico: «Il paese (’eres) di Israele esprime in forma più intensa e più concentrata la consacrazione dispensata sulla terra all’atto della creazione, e la santità del paese si concentra nel grado più alto nel santuario» (p. 183).
Storicamente si imposero le casate giudeo-babilonesi che si appellavano al sacerdozio aronita, con la pretesa al diritto esclusivo sull’ufficio sacerdotale, soprattutto nei sacrifici, escludendo o riducendo a un ruolo ausiliario i ‘figli di Levi’. Il controllo del tempio significò l’egemonia spirituale con una specie di monopolio del culto, ma anche una gran parte del potere politico ed economico. Del resto, il sacerdote assunse, oltre il rito dell’unzione riservata al re, anche alcune tipiche insegne regali come la miznefet o tiara e il nezer o diadema, nonostante l’opposizione profetica, religiosa e civile. D’altra parte, nella lotta per il potere, se i leviti assunsero ruoli secondari nel tempio, di fatto assunsero compiti di primaria importanza come ‘maestri della legge’, quando lo studio della legge e l’omiletica assunsero un posto sempre più rilevante, e la preghiera da attività complementare e accessoria ai sacrifici divenne attività indipendente, uno degli atti di culto per i quali non era richiesta la presenza di un sacerdote. Questo permise al giudaismo di sopravvivere dopo la fine del tempio e dei sacrifici, divenendo religione laica. Alla fine, sacerdote e sapienza si fusero nella leadership del rabbi del periodo tannaitico, ma il sacerdozio lasciò un risultato imponente che divenne parte dell’asse portante della cultura giudaica.
Anche per il profeta, al quale applica il concetto di ‘intellettuale dissidente’, B. attinge a Max Weber il metodo e la definizione, che comporta un carisma, una missione e un annuncio tipicamente religioso. Tra le fonti della ricerca in primo luogo sono il Deuteronomio e l’ortodossia deuteronomista che costituisce «il primo tentativo sistematico di ricostruzione del passato a propria immagine» (p. 201). L’autore vorrebbe sperare di giungere a situazioni sociali, identità e ruoli originari. Potremmo chiederci se ci siano mai stati. O non si siano sviluppati in diversi contesti, compresi quelli della «scrittura» ultima dei libri, che offre sempre una interpretazione. Non è un altro «mito» ideale, come le ipsissima verba Christi o la pretesa di giungere al testo originale?
L’autore, cosciente di questo limite e dei limiti delle fonti disponibili, cerca qualche risultato. Pone anche i profeti nella categoria della mediazione: divennero intermediari del potere politico sia per il suo rafforzamento che per l’indebolimento. Ma in modo diverso dal sacerdote. Mentre questi è impegnato in una attività prestabilita e permanente, quella del profeta è sporadica. La figura fu elevata dai deuteronomisti - che tendevano a minare il sistema di discendenza consolidato e le pratiche religiose popolatori che lo sostenevano - alla condizione di portavoce di una religione incentrata sulla moralità.
L’autore ipotizza e analizza l’evoluzione e la discontinuità nell’ambiente sociale e politico in cui operavano profeti di tipo diverso. Riconosce però una pratica continuità tra la «scuola» di Eliseo e i profeti ‘classici’ come Amos e Osea. Il titolo padre dato a Samuele, Elia ed Eliseo, riserva loro una leadership di carattere familiare, affettivo e personale, in gruppi di profeti socialmente marginali e periferici, la cui funzione sociale (qui ritorna Weber) era quella di rafforzarsi tra loro e di sostenere il morale di una società esposta a forti pressioni politiche e sociali.
In che senso i profeti rappresentano un nuovo tipo di leadership intellettuale? È definita secondo l’idea di «intellettuali dissidenti e agenti di cambiamento», intendendo con ciò «che essi collaborarono con un certo grado di consapevolezza all’emergere di una visione coerente di un universo morale in opposizione alle opinioni correnti favorite e propagate dall’apparato statale del tempo, ivi compresi i suoi rappresentanti sacerdoti e profeti» (p. 234). Procedendo secondo il metodo storico critico, B. mostra dei caratteri nuovi, partendo dai quattro profeti classici Amos, Osea, Isaia e Michea. Essi rivelano una competenza letteraria del discorso e una prospettiva storica più ampia che tenne presente la politica internazionale (la potenza assira dominava) e li pose in uno strato sociale molto più elevato dei nebi’îm precedenti e contemporanei, dissociandosi da loro. Fu così che crearono una tradizione letteraria e profetica che durò per secoli. Si trattò di una attività comune più che di una professione. Per la definizione si appella alle moderne trattazioni sul ruolo dell’intellettuale nella formazione, mantenimento e disintegrazione delle tradizioni. Si appella anche al concetto, forse meno convincente, di «età assiale» (cf. per primo Karl Jaspers), cioè di una svolta in varie aree verso una visione coerente di una realtà trascendentale e la costruzione del mondo in sintonia con essa, che condusse all’elaborazione di un’idea di salvezza in cui l’adempimento etico aveva una parte imprescindibile. Riconosce ai profeti biblici una indipendenza e interiorità superiori rispetto al mondo mesopotamico che li rese indipendenti dalla volontà del governante. In una visione internazionale, che guardava alla politica estera, i profeti di Israele elaborarono una critica dell’ideologia imperiale e delle condizioni sociali, abbandonando l’idea di Jhwh come divinità locale.
Qualunque si stata l’accoglienza della critica nel loro tempo, di fatto, il loro annuncio raggiunse un grado di riconoscimento ufficiale. In tal senso ottennero una leadership culturale, il cui primo segno sarebbe stata la riforma di Ezechia. Stranamente e paradossalmente, la strada del riconoscimento del loro dissenso, secondo B., dovette passare per «il popolo del paese», termine che definiva la classe dei proprietari terrieri, grandi oppositori di Geremia, ma che si opponevano anche al governo straniero e al tradizionalismo sociale (burocratico) e religioso. Il Deuteronomio in qualche modo segnò il loro riconoscimento ufficiale; nello stesso tempo fu il primo passo decisivo verso la neutralizzazione del loro dissenso. Infatti ridefinisce il profeta come continuatore dell’opera di Mosè, protoprofeta e la profezia come funzionale alla legge.
Nella conclusione, l’autore nota nella società israelitica un movimento di ruoli – scriba, sacerdote, profeta – che si sovrapponevano l’un l’altro. Il loro consolidamento dipende dalla raccolta canonica che rende però sfocate le immagini dei contesti sociali in cui queste categorie e ruoli si muovevano. Tuttavia, il costituirsi della legge come sfera autonoma e indipendente dalla volontà di un governante, la rende sempre l’ultima corte d’appello. Anche il tentativo di neutralizzare o addomesticare la protesta profetica da parte del potere burocratico non impedì di conservare le parole della protesta. In modi diversi si costruì dunque un universo intellettuale e morale persistente.
Da parte nostra, raccogliamo gli stimoli interessanti dell’autore. Anche se l’accostamento dei due metodi, storico critico e sociologico, non sempre riescono a dimostrare tutti gli asserti. Effettivamente l’autore si muove con circospezione. In tal senso, resta utile la provocazione. La traduzione appare abbastanza ben curata. Un solo appunto: a p. 190, n. 2: «V. sopra.»; dove, a che pagina?
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2009, nr. 3
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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