''Tenenda est media via" . L'ecclesiologia di Reginald Pole (1500-1558)
(Studi e ricerche)EAN 9788830808911
Tratto dalla Rivista Il Regno 2008 n. 8
(http://www.ilregno.it)
Al centro del chiostro della graziosa abbazia di Maguzzano, adagiata sul Garda, campeggiano un grande inginocchiatoio ed un leggio corale in marmo bianco di foggia rinascimentale: sono la testimonianza del soggiorno in quel luogo del cardinale Reginal Pole, importante uomo di chiesa e di dialogo, che tuttavia non è raffigurato, lasciando di lui solo la memoria della presenza orante e di studio. Il lavoro di Vito Mignozzi, docente di ecclesiologia presso la Facoltà teologica pugliese prova a colmare questa lacuna, facendoci fare un percorso di sintesi storico-teologica per ricostruire l’importante contributo di Pole per l’ecclesiologia e per l’ecumenismo. Vissuto poco più di cinquant’anni, Pole è cugino di Enrico VIII e suo collaboratore prima, ma diviene poi oppositore, cardinale romano, candidato al pontificato e in seguito arcivescovo di Canterbury e riformatore della chiesa cattolica nell’isola.
È figura di notevole rilievo per la sua mediazione con la riforma e lo scisma anglicano nonché esponente del ricco movimento spirituale che precede il rinascimento: non Anglus sed angelus vocetur (p. 148 n. 56). L’inginocchiatoio e l’ambone, lo studio e la preghiera attraversano infatti una biografia intensa, coinvolta in eventi cruciali come il Concilio di Trento e le correnti riformatrici della Chiesa cattolica. Sono esse ad aver guidato l’autore anche nella produzione dei suoi scritti, che non hanno finalità direttamente ecclesiologiche, ma rispondono soprattutto ad intenti apologetici e di mediazione. L’a. deve dunque compiere una lettura trasversale delle coordinate ecclesiologiche racchiuse in trattati nati con altro scopo. Ecco allora che i primi due capitoli ricostruiscono il profilo del cardinale inglese ed i principi fondativi della sua teologia, strettamente connessi con le vicende ed i compiti affidatigli. Dopo un primo periodo ad Oxford, utile per avvicinarlo all’umanesimo di Erasmo e More, Pole giunge a Padova - dove soggiorna ripetutamente a partire dal 1521 - incontrando uno dei maggiori centri dell’umanesimo italiano, rappresentato da personaggi come Nicolò Tomeo e Pietro Bembo, che lo introdussero anche negli ambienti romani.
Il secondo momento formativo, mentre gli eventi ormai precipitano in Inghilterra, è il costituirsi del circolo degli spirituali a Viterbo, influenzato da Juan de Valdés, che si aggrega a seguito della sua nomina a governatore del Patrimonium Petri, la provincia pontificia lì insediata. L’umanesimo e la spiritualità si consolidano nel cardinale ed emergono dagli scritti, prima concentrati sul primato e poi sul concilio. Dopo Trento infatti la riforma è inevitabile ed il cardinale vi si inserisce pienamente, al punto da essere identificato con essa e uscire sconfitto dal lungo conclave del 1549-1550 a causa dell’opposizione (e dell’assenza) dei cardinali francesi. L’inquisizione getta l’ombra del sospetto su di lui e sull’intero «circolo di Viterbo», consigliandone l’allontanamento in Inghilterra dove ritorna come legato papale proprio nel momento in cui Maria Tudor aveva riacceso le speranze di un ritorno alla fede cattolica. Pole rivede la sua patria nel 1554, l’anno dopo muoiono sia Giulio III che il suo successore, Marcello II, il cardinale Cervini.
Le alleanze politiche si aggiustano e viene eletto finalmente il Carafa, amico-nemico di Pole, che lo convoca a Roma con l’accusa di eresia, ma al contempo lo conferma legato per l’Inghilterra, per tenerlo lontano. Nonostante questi intrighi il cardinale si getterà con impegno in un’opera di riforma della chiesa inglese attraverso decreti, visite pastorali e sinodi. Nominato arcivescovo di Canterbury, opererà anche sul piano culturale, portando nelle università un umanesimo fondato sullo studio della Scrittura e dei classici condiviso con la regina Maria, che morì anch’essa il 17 novembre 1558. Da questo profilo biografico assolutamente unico, l’a. trae le coordinate teologiche del pensiero di Pole mediante le opere apologetiche e che sono riassunte nel II capitolo: l’incontro tra fede e ragione, sulla scia di Platone ed Agostino, dove è tuttavia è la prima a vincere come «unica via di salvezza, proprio perché conduce alla Chiesa, nella quale l’uomo incontra Cristo» (p. 132); la Chiesa e la Scrittura come principi di conoscenza, ma sempre con il dominio della prima: Ego Evangelio non crederem, nisi me Ecclesiae catholicae commoveret auctoritas (p. 139), dovendosi su questo confrontare con le idee di Marsilio, abbracciate dai teologi di Enrico VIII.
Su tutto domina il cristocentrismo teologico e spirituale, che gli deriva direttamente dalla frequentazione e dallo studio della Scrittura, accostata con l’animus umanistico e mistico di Padova e Viterbo. In questo Pole si distanzia dalla scolastica che lo precede: preferendo più amare Dio che conoscerlo (p. 150) vuole che per questo si ritorni alla Scrittura e ai Padri, soprattutto ad Agostino. Da queste fonti gli deriva l’attenzione per l’obbedienza di Cristo al Padre e una theologia crucis di cui è immediato il raffronto con Lutero, al quale Pole si avvicina soprattutto in alcuni elementi riguardanti la giustificazione. L’ecclesiologia viene dopo e da qui deriva: la chiesa è sponsa Christi, costruzione, edificio fondato su di Lui o da Lui a seconda che se ne consideri l’essenza spirituale o la forma esterna, ma in tutto relativa a Cristo che le sta di fronte come suo architetto (p. 165).
Opposta vi è la dottrina della corte inglese che invece voleva nettamente separato l’elemento umano, per poterla governare come qualunque stato. Ci vuole ancora un po’ di pazienza perché ora, nei capitoli terzo e quarto, bisogna inquadrare la genesi dell’ecclesiologia di Pole, vero oggetto formale della ricerca, e metterla a confronto con le altre teorie del tempo. È una grossa rassegna storica, che attraverso gli interlocutori di Pole, inquadra le sue posizioni facendole risaltare dal confronto. Sulla scorta degli studi di Jedin e Antón l’a. ricostruisce il quadro delle teorie ecclesiologiche del primo ’500, dominate dalla quaestio del conciliarismo che nel periodo tra Basilea e Trento concentra su tale istituto il dibattito sulla riforma in capite e in membris. Sconfitto dalla bolla Laetentur cieli del 1439, esso cede il posto alle posizioni più papaliste (Torquemada, Caietano) della scuola romana che tentano di coniugare i principi monarchici con i temi contestati dalla riforma, presentati sinteticamente, con una attenzione speciale per il versante anglicano, molto interessato a Marsilio e all’idea di un principe cristiano che quasi fanno da sfondo all’Act of Supremacy del 1534 e alle teorie ecclesiologiche da esso derivate, la più articolata delle quali è quella di R. Sampson, decano della cappella reale.
Di fronte a questo quadro sta la concezione di Chiesa di Pole, che raccoglie elementi agostiniani e altri di origine medievale, guardando «al papato e alle strutture istituzionali della chiesa come all’incarnazione immanente e alla perfetta immagine terrena di una realtà soprannaturale» (p. 282). L’essenzialismo ontologico gli serve per fronteggiare ogni forma di relativismo storico. Questa teologia della chiesa mostra quattro elementi, secondo l’a.: anzitutto l’unità tra congregatio fidelium e istituzione, un’armonia gerarchica che tende a ricondursi ad unum nella figura del pontefice, il quale però compie il proprio officium a servizio dell’unità stessa, in un movimento dall’alto verso il basso, tale è anche il senso della nozione di Ecclesia romana, che supera quella della concreta chiesa locale di Roma. Ecco allora che il cardinale articola anche con le immagini (cap. IV) una visione di chiesa che tenga insieme l’elemento storico-istituzionale (monarchia, civica e regnum) e quello religioso (Cristo fondamento e fondatore, la chiesa populus Dei, corpus Christi, aedificium spirituale, congregatio multorum, sponsa et mater) «non come due società, quella ecclesiastica e quella politica, ma come due poteri all’interno della stessa società» (p. 318).
Fronteggia così il rischio, rappresentato dalla chiesa scismatica inglese, di assorbimento della realtà ecclesiale nella struttura politica del regno, rendendo spirituale ciò che è solo amministrativo (p. 348). Giungiamo finalmente al cuore della ricerca: i capitoli V e VI dedicati rispettivamente alla teologia del papato e a quella del concilio. Entrambe mostrano delle evoluzioni, risentendo delle vicende storiche e delle posizioni teologiche fronteggiate da Pole: la Royal supremacy di Enrico VIII, il ruolo di Pole al concilio di Trento ed il conclave del 1550 che lo coinvolse in prima persona. Anche riguardo al papato ciò che emerge è la centralità cristologica: non è la chiesa che richiede qualcuno che la governi, ma è l’opera di Cristo ad esigere di essere continuata nel modo che Egli volle (372). Cristo rimane il fundamenti fundamentum, con tutto lo sforzo di mostrare i titoli e le caratteristiche che la Scrittura gli attribuisce (pater, tutor, pastor), messi in parallelo con il compito vicario di Giuseppe, poiché Dio provvede anche alla natura umana del soggetto ecclesiale, mediante una paternità terrena, quella del Sommo pontefice. Il cardinale passa in rassegna tutte le prove scritturistiche della dottrina del primato, in modo da trovare una base comune di argomentazione con la controparte, giungendo ad una profondità di analisi e ad un equilibrio davvero inaspettate, come confermano gli studi di J. Ratzinger a riguardo.
Se è vero – come nota l’a. – che il metodo esegetico di Pole risenta talora delle tonalità allegoriche respirate nel circolo di Viterbo è altrettanto vero che il contesto storico e controversistico, giocato sugli elementi della potestas e sulla strumentalizzazione della Scrittura, nonché la compromissione stessa del cardinale con il successivo conclave rendono ancora più rilevanti le sue posizioni. Due elementi almeno meritano di essere rimarcati: anzitutto il carattere martiriale del ministero petrino (ripreso da J. Ratzinger) che impedisce di considerare la forma esterna della Chiesa al pari di uno stato. «In un periodo storico in cui il rischio di ridurre anche il ministero del Papa ad una forma privilegiata di governo temporale era abbastanza reale, Pole ricorda che la realtà fondante l’identità del Pontefice è proprio il suo essere vicario di Cristo, scelto dal Signore, per continuare la propria opera di salvezza nel mondo» (p. 423). Il secondo elemento è lo spostamento dalla figura del papa alla cathedra Petri, la sede romana, che raccoglie l’eredità spirituale dei due apostoli: «come Cristo non è mai sceso dalla croce, allo stesso modo il Papa non deve scendere mai dalla propria, ai piedi della quale sono presenti le preoccupazioni per tutte le chiese del mondo» (p. 432).
Dal De Concilio (1562) e De Summo Pontifice (1569) esce una dottrina che mette in correlazione Pietro, la Chiesa romana e il Papa: tre elementi distinti, ma inseparabili. La priorità dell’«ontologico sul funzionale» (p. 440) in Pole è così spinta da non riuscire a preoccuparsi di tutte le prerogative connesse all’ufficio papale e riconoscere, pur distinguendo tra persona e carica, il carattere martiriale dell’intera comunità romana, in virtù non solo dei due apostoli, ma di tutti i cristiani ad essa appartenenti (p. 454). L’ultimo capitolo è dedicato alla teologia del Concilio, che Pole dovette formulare in quanto legato papale, ma che risulta esemplare di tutta la sua «via media», cioè di un fare teologia sulla base delle istanze storiche, illuminando i dibattiti mediante le fonti bibliche e patristiche, muovendo dall’interno l’istanza riformatrice senza timore di toccare i temi oggetto del conflitto. Qui l’a. si può giovare degli studi di E. Sieben sul De concilio di Pole, nel definire la sua proposta «romana» ed «ecumenica» allo stesso tempo, anche se si distanzia da lui nel ritenere che la subordinazione di Pole rispetto a Lutero sia piuttosto una condivisione di prospettive che, personalmente, vedrei volentieri ricondotte e confrontate con la comune matrice agostiniana e con l’intento di bypassare tutta la scolastica per approdare a autorità condivise. Non v’è dubbio ad esempio che l’esegesi di Pole sia larga quando vuole far dipendere l’intero assetto conciliare dall’unico passo di At 15 come forma ideale per la soluzione dei conflitti nella Chiesa (p. 466).
Se le coordinate del consensus fidei e della manifestazione di Chiesa si riescono a rintracciare, con più fatica emerge quella di rappresentanza, dentro la quale Pole deve far entrare il ruolo papale. La centralità cristologica gli offre ancora una volta l’opportunità di tenersi ugualmente discosto da papalismo e conciliarismo, ma lo sforzo di fondare biblicamente il ruolo di tutti i partecipanti (papa e vescovi soprattutto, ma anche chiese locali e perfino legati papali) appare veramente spinto. Pole affronta una per una tutte le questioni dibattute, compresa l’ipotesi disputata di un papa eretico o impazzito (p. 510). Secondo Sieben la chiave interpretativa di tutto è l’evento storico del concilio che Pole deve in tutti i modi sbloccare e far avanzare. Su questo avremmo voluto leggere qualcosa di più perché Trento è stato uno dei concili più frammentati, eterodiretti e politicamente influenzati della storia, con buona pace dei feticisti di quell’assise e dei suoi pronunciamenti. Dietro i vescovi infatti c’erano i principi e gli stati nazionali con le loro alleanze, i contadini ed il popolo, lo stato pontificio e i nascenti stati nazionali. Le discussioni sulla potestas di papa e vescovi allora rivelano un lato ben poco teologico, come conferma ad esempio la querelle sul ruolo dell’imperatore richiesto dai vescovi a Nicea, ma assente a Gerusalemme (pp. 518.524). L’a. ci ricorda questo potere temporale sotteso, ma crediamo che esso abbia avuto un peso anche maggiore nella determinazione dei discorsi e degli avvenimenti.
L’ultima parte è dedicata a sintetizzare la «via media» di Pole (ben diversa da come Newman interpreterà l’anglicanesimo durante il primo periodo della sua vita): anzitutto metodologica, nell’accostare ad elementi ecclesiologici di natura istituzionale quelli derivanti da un ritorno alle fonti; in secondo luogo nella prospettiva teologica, che procede tra pessimismo antropologico e dono della grazia e la centralità cristologica, che diventa addirittura apertura allo Spirito nell’evento conciliare; infine la sua proposta tematica - figlia degli eventi da lui attraversati – «capace di esprimere con maggiore coerenza la densità ontologica e insieme la qualità strutturale della chiesa» (p. 552) con una netta predilezione per gli aspetti trascendenti di essa, che guidano la riforma delle istituzioni, opera nella quale si può dire che il cardinale inglese abbia giocato tutta la sua esistenza. Di questa «via media» si sentiva un gran bisogno, allora non meno di oggi. Eppure Pole non è molto citato anche nei recenti simposi sull’anglicanesimo.
I limiti dell’opera non sono molti, qualche ripetizione è inevitabile in un percorso così lungo; l’autore ribadisce la sua lettura trasversale e la natura contingente e controversistica dei testi poliani, ma l’esegesi è corretta, come pure i raffronti: di fatto pochi sono i riferimenti all’epistolario mentre la gran parte dei testi riguarda argomenti che sono a pieno titolo ecclesiologici: De Concilio, De reformatione Ecclesiae, De sacramento Eucharestia, De Summo Pontifice, De unitatis defensione. Saranno pure occasionati da motivi concreti e perfino da pressioni politiche, ma questi testi mostrano un livello di maturità teologica davvero notevole, rispetto al quale le nostre povere carte sbiadiscono.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2011
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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