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La voce della rivelazione. Fenomenologia della voce per una teologia della rivelazione
(Teologia e cultura religiosa) [Con sovraccoperta]EAN 9788821553561
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DETTAGLI DI «La voce della rivelazione. Fenomenologia della voce per una teologia della rivelazione»
Tipo
Libro
Titolo
La voce della rivelazione. Fenomenologia della voce per una teologia della rivelazione
Autore
Gaburro Sergio
Editore
San Paolo Edizioni
EAN
9788821553561
Pagine
400
Data
settembre 2005
Peso
446 grammi
Altezza
21 cm
Larghezza
14,5 cm
Profondità
2,5 cm
Collana
Teologia e cultura religiosa
COMMENTI DEI LETTORI A «La voce della rivelazione. Fenomenologia della voce per una teologia della rivelazione»
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Recensione di Tommaso Tuppini della rivista Studia Patavina
La recente pubblicazione di Sergio Gaburro si propone come scopo di rendere fruttuoso in un ambito di ricerca teologico il dibattito filosofico che negli ultimi decenni ha messo a tema, dalle prospettive più disparate, il fenomeno della voce. Ovvero, come si esprime l’Autore stesso, senso della sua fatica è di delimitare «il possibile apporto dell’odierna ‘fenomenologia della voce’ alla teologia della rivelazione» (p. 169). Soprattutto il primo capitolo della prima parte del libro (pp. 39-182) consiste infatti, per buona parte, di una ricostruzione delle riflessioni che sulla voce sono state sviluppate di recente in ambito fenomenologico, le quali risultano particolarmente feconde perché hanno saputo evidenziare quel nesso tra le dimensioni dell’immanenza e della trascendenza che sembra inerire strutturalmente anche al peculiare dinamismo della rivelazione religiosa.
La ricognizione che Gaburro ha fatto del «pensiero della voce» di Derrida, Sini, Cavarero, Agamben, Natoli, Vitiello ed altri filosofi contemporanei è più attenta ad un commento puntuale di alcuni passi tratti da testi di pur così differente ispirazione, che non a delineare un’architettura capace di ricomprendere in un percorso coerente i numerosi apporti speculativi. Il motivo conduttore che comunque presiede a questa parte ricostruttiva della ricerca sembra essere in ultima istanza l’evidenziazione di una struttura eminentemente dialettica. Si tratta infatti per Gaburro di saper circoscrivere il dinamismo di correlazione che l’emissione della voce dispiega come gesto fonatorio e i paradossi teoretici dell’auto-affezione vocale al fine di trovare una figura concettuale sintetica che tali paradossi sia capace di sciogliere. Per giungere a questo risultato preliminare la discussione dei testi di Sini ha senz’altro un ruolo strategico. Il gioco della distanza che l’ascolto della voce produce in chi la emette viene infatti definito da Gaburro come il fenomeno dell’«incanto» (che è al centro del più volte citato testo di Sini Immagini di verità. Dal segno al simbolo, Spirali, Milano 19902). L’«incanto» (vocale) viene appunto descritto come il fenomeno emotivo in cui si produce lo spazio della distanza aperto per ogni tipo di tensione esperienziale e Streit: «incantesimo […] simile all’attimo in cui il parlatore, parlando, sente la provenienza stessa del suo parlare e del suo sentirsi contemporaneamente come parola e parlante. Alla stessa maniera del danzatore, che trovandosi sull’orlo estremo è in grado di vedere i suoi amici danzare, nel contempo vede la stessa danza che è egli stesso» (p. 137). La peculiarità del fenomeno dell’“incanto” di cui si sostanzia l’auto-affezione vocale è dunque quest’intreccio dialettico, così difficile da districare, tra alienazione ed appropriazione, immediatezza e distanza (la voce, «mentre la pronuncio l’ascolto, è sulla mia bocca, ma mi è anche distante» [p. 138]). Facendo ricorso a categorie sostanzialmente peirciane Gaburro dice infatti: «l’in-canto, che vive nel bilico proprio del suo nulla, tra la Risposta e l’oggetto, ha in sé una forza che at-trae nel mondo e che dis-trae dal mondo. In questa tensione tenuta viva dall’‘incantesimo del bilico’, accade la voce e si manifestano in questa gli stati d’animo primordiali pro-vocati dal vivere nella natura e nella relazione» (p. 137). O ancora, più hegelianamente: all’accadere del gesto vocale «il pàthos realizza una mediazione che mantiene la distinzione nella fusione, tanto che meraviglia e grafema della parola sono da sempre e reciprocamente familiari estranei» (p. 136). È a questo punto della ricerca che alle categorie fenomenologiche e semiotiche finora adoperate cominciano a sovrapporsi categorie di matrice teologica. La tensione tra la Risposta e l’oggetto si trasforma – è proprio il caso di dirlo! – come per incanto, in una «vita tra l’estasi e il mistero. Ci troviamo di fronte all’incanto estatico del mistero, perché nell’in-canto si è introdotti all’esperienza della Stessità dell’Altro, mentre nell’ek-stasi è concessa l’esperienza dell’Alterità dello Stesso. […] Nell’in-canto si assume la posizione ek-statica di chi sta sul limite estremo del segno e della sua infinita possibilità di esprimersi, sull’orlo di mondo che è sul punto di farsi segno e parola» (p. 137).
Questo gioco della distanza che si gioca nell’accadimento del grafema vocale viene da Gaburro messo in corrispondenza, per così dire «punto su punto», con il dinamismo rivelativo delle differenti «voci» che percorrono come un vento dai mille aliti tante pagine vetero- e neotestamentarie. Senso dell’esegesi biblica dell’Autore è dunque di mostrare come la struttura dialettica che dà forma al fenomeno della voce trovi una sua precisa traduzione in termini teologici. Commentando il racconto dell’evento della Pentecoste: «la correlazione che il testo stabilisce tra ‘rumore/voce/lingue’ delinea un significativo movimento spaziale che va dal ‘cielo’ alla ‘terra’ e dall’esterno all’interno per ritornare poi nuovamente all’esterno. Infatti il ‘rumore’, assimilato a vento gagliardo, viene dal ‘cielo’ e riempie ‘la casa’, dov’è raccolto il primo nucleo della comunità cristiana (v. 2), e successivamente divenuto ‘voce’ (v. 6) provoca il raduno in un solo luogo dei rappresentanti di tutti i popoli» (p. 82). La tensione tra la Risposta e l’oggetto è ora il percorso, immer wieder da tracciare, tra il cielo e la terra. Facendo questa volta riferimento ad Es 19, 20 ed Es 20, 22 Gaburro evidenzia come questo fenomeno della tensione sia nient’altro che la stessa voce di Dio: «in un intreccio di trascendenza ed immanenza, i racconti biblici indicano che la voce di Dio proviene sia dal monte che dai cieli. Non è una contraddizione? Da dove viene in realtà questa voce?» (p. 54). Appoggiandosi, in questo caso, soprattutto alle ricerche di Scholem, Gaburro indica nelle «teorie mistiche del linguaggio» le più avvertite nel saper sciogliere quella che dal punto di vista di una logica non-dialettica è una mera contraddizione, in una affermazione dal punto di vista della religione. La consapevolezza affermativa, appunto, che «il medium del linguaggio, inteso come lo spazio in cui avviene la vita spirituale dell’uomo, ha un lato interno che, nell’atto della comunicazione, rimane velato. […] La stessa ‘voce’, mentre è udita, mantiene il suo ‘segreto’ determinato dal carattere trascendentale che lo contraddistingue» (p. 56). Questo «trascendentale segreto», questa contraddizione che ogni scienza logica vieta di formulare, questa parte velata del gesto della fonazione è la liberazione di «un movimento di distanza e vicinanza che scorre da Dio verso l’uomo» (p. 48). Come dire: mentre i termini che la relazione mette gioco rappresentano il lato evidente, il suo côté esoterico, la struttura stessa della relazione, invece, il fenomeno della relazione qua talis che quei termini mette in gioco, significa quella «mediazione immediata» (p. 57) che è il lato esoterico-misterioso e sempre sottratto, il lato occulto di tutto il gioco. Questa struttura, infatti, è un ni-ente, una non-cosa. Non è un aliquid, ma ha la consistenza di uno spazio vuoto, di una «fessura che si colloca tra l’aver interpretato […] e il dover interpretar[e]» (p. 227), una vacuità tra il passato ed il futuro che ricorda da vicino l’exaìphnes platonico e la diaphanìa di Aristotele.
La Voce (questa volta, dunque, quella scritta con l’iniziale maiuscola) ri-vela. La voce auto-affettantesi della fenomenologia diventa la Voce della Ri-velazione, secondo tutta la feconda ambiguità che inerisce al fenomeno della ri-velazione: «come coniugare insieme il Dio che si rivela e l’eccedenza che implica, il Dio vivo e inafferrabile con un Dio prevedibile, il Dio che parla e quello che ha già detto tutto? Dal punto di vista semantico il termine latino re-velatio (come del resto l’analogo greco apo-kalipsis) comprende al suo interno questo gioco dialettico di apertura e di nascondimento. Il prefisso re-, nei composti, dice la ripetizione dell’identico e il passaggio opposto. Pertanto il termine re-velare sta a indicare sia il togliere il velo, che al contrario l’infittirsi del velo» (p. 201). In questo senso «l’interpretazione della Parola di Dio» deve consistere in una preliminare comprensione del carattere di misticismo, e dunque di mutezza, che appartiene per natura al fenomeno stesso della relazione considerato nella sua rescissione dai termini finiti che la relazione appropria espropriando l’uno all’altro. L’esegesi divina deve «mostrare la necessità di mantenere, nel rispetto dell’Evento stesso, la tensione dialettica tra immanenza e trascendenza» (p. 217), ma la tensione dialettica non è loquace. Essa è muta, pur essendo la fonte di ogni loquacità.
Oltre ai due termini pieni della relazione «come terzo aspetto si evidenzia la forza del silenzio quale fessura e spazio di libertà per l’evento della rivelazione» (p. 257). La Voce, dunque, per certi versi, è il Silenzio, coincide con esso, «voce di silenzio» (p. 267). Collocata nel luogo impossibile «tra historia sacra e historia profana» (p. 238), «la Voce è in se stessa una traccia che mostra e nasconde, è soffio inafferrabile, presenza e rinvio infinito» (p. 260), «fessura linguistica che collega il Creatore alla creatura» (p. 261). La Voce, in quanto fessura, è allora l’et…, et…, oppure il nec…, nec… (di mostrazione/nascondimento, presenza/rinvio) della teologia negativa. La modalità di corrispondenza più adeguata a questo Silenzio della Voce viene individuata in un dire di carattere poetico-analogico più che nella concettualizzazione filosofica. Il linguaggio poetico gode della possibilità di delineare nella maniera più limpida il gioco dialettico che è stato delineato come l’esoterico della Voce: «il poema […] indica la tensione verso la trascendenza, che non è appropriazione di idee, ma il mantenersi nell’insonnia del letto dell’essere, sulla traccia, costantemente in esilio» (p. 263). Il dire poetico, che «pur essendo nel tempo, […] libera una voce che va oltre il tempo» (p. 265), è insomma l’accettazione di quel tenersi-in-cammino che è il modo più proprio per abitare lo spazio della fessura di cui il mistero della Voce si sostanzia. Secondo questa particolare comprensione della prassi versificatoria, poeta nel modo più compiuto è Gesú, Gesú nella sua funzione pontificale, Gesú come «voce del Padre, la vivente ‘analogia’ tra Dio e gli uomini» (p. 318), finendo così per recuperare, forse inconsapevolmente, una di quelle complicate equazioni del cattolicesimo pagano del George-Kreis che volentieri metteva insieme Gesú e Dichter, Dichter e Kaiser, e via componendo.
Chiude il volume un’appendice intitolata Spiraglio (pp. 343-360) in cui la struttura dialettica della Voce viene illustrata nella sua applicazione al contenuto teoretico del dogma trinitario. Il nesso trinitario ci apre l’orizzonte della «pericoresi» nel quale lo «scambio […] delle persone divine, nel quale l’una rende l’altra perfettamente partecipe di sé», produce quella «inabitazione e penetrazione reciproca» di cui risulta d’immediata evidenza il carattere d’analogia ch’esse condividono con lo spazio di Silenzio il cui ascolto era appena emerso come il proprium dell’esperienza religiosa. In questa prospettiva, cui serve da riferimento testuale privilegiato il Vangelo di Giovanni, è soprattutto la persona dello Spirito Santo a stagliarsi con nettezza nella sua funzione eminentemente mediativa e dunque, in qualche modo, più strettamente apparentato, rispetto alle altre persone della Trinità, alla natura mistica della Voce/Silenzio. In un’affermazione che contiene molti dei fili concettuali che ci hanno guidato in questo cammino, e che può suonare come ampiamente compendiativa del percorso svolto dalla sua ricerca, Gaburro scrive: lo «Spirito Santo […] è l’intimo di Dio, la comunione più sincera di Padre e Figlio, è l’autodonazione divina, l’autoapertura di Dio. L’immanenza e la trascendenza, l’interiorità e la relazione, la traccia e l’inafferrabilità, l’essere in sé e l’essere oltre e al di fuori di sé, l’essere ‘dentro’ e ‘sopra’ sono dimensioni della voce dello Spirito» (p. 347). O ancora, per meglio illustrare come lo Spirito (della voce) non significhi soltanto un dinamismo infra-trinitario, ma liberi al contempo uno spazio per l’orecchio dell’uomo: «attraverso lo Spirito, il luogo della voce di silenzio non è semplicemente ‘prima’ o ‘dietro’ la parola, ma si fa trovare in un ‘tra’: il respiro comune tra Padre e Figlio, ma anche il respiro ‘tra’ il soffio/voce della croce e colui che nella fede lo ascolta» (p. 359).
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2007, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
La ricognizione che Gaburro ha fatto del «pensiero della voce» di Derrida, Sini, Cavarero, Agamben, Natoli, Vitiello ed altri filosofi contemporanei è più attenta ad un commento puntuale di alcuni passi tratti da testi di pur così differente ispirazione, che non a delineare un’architettura capace di ricomprendere in un percorso coerente i numerosi apporti speculativi. Il motivo conduttore che comunque presiede a questa parte ricostruttiva della ricerca sembra essere in ultima istanza l’evidenziazione di una struttura eminentemente dialettica. Si tratta infatti per Gaburro di saper circoscrivere il dinamismo di correlazione che l’emissione della voce dispiega come gesto fonatorio e i paradossi teoretici dell’auto-affezione vocale al fine di trovare una figura concettuale sintetica che tali paradossi sia capace di sciogliere. Per giungere a questo risultato preliminare la discussione dei testi di Sini ha senz’altro un ruolo strategico. Il gioco della distanza che l’ascolto della voce produce in chi la emette viene infatti definito da Gaburro come il fenomeno dell’«incanto» (che è al centro del più volte citato testo di Sini Immagini di verità. Dal segno al simbolo, Spirali, Milano 19902). L’«incanto» (vocale) viene appunto descritto come il fenomeno emotivo in cui si produce lo spazio della distanza aperto per ogni tipo di tensione esperienziale e Streit: «incantesimo […] simile all’attimo in cui il parlatore, parlando, sente la provenienza stessa del suo parlare e del suo sentirsi contemporaneamente come parola e parlante. Alla stessa maniera del danzatore, che trovandosi sull’orlo estremo è in grado di vedere i suoi amici danzare, nel contempo vede la stessa danza che è egli stesso» (p. 137). La peculiarità del fenomeno dell’“incanto” di cui si sostanzia l’auto-affezione vocale è dunque quest’intreccio dialettico, così difficile da districare, tra alienazione ed appropriazione, immediatezza e distanza (la voce, «mentre la pronuncio l’ascolto, è sulla mia bocca, ma mi è anche distante» [p. 138]). Facendo ricorso a categorie sostanzialmente peirciane Gaburro dice infatti: «l’in-canto, che vive nel bilico proprio del suo nulla, tra la Risposta e l’oggetto, ha in sé una forza che at-trae nel mondo e che dis-trae dal mondo. In questa tensione tenuta viva dall’‘incantesimo del bilico’, accade la voce e si manifestano in questa gli stati d’animo primordiali pro-vocati dal vivere nella natura e nella relazione» (p. 137). O ancora, più hegelianamente: all’accadere del gesto vocale «il pàthos realizza una mediazione che mantiene la distinzione nella fusione, tanto che meraviglia e grafema della parola sono da sempre e reciprocamente familiari estranei» (p. 136). È a questo punto della ricerca che alle categorie fenomenologiche e semiotiche finora adoperate cominciano a sovrapporsi categorie di matrice teologica. La tensione tra la Risposta e l’oggetto si trasforma – è proprio il caso di dirlo! – come per incanto, in una «vita tra l’estasi e il mistero. Ci troviamo di fronte all’incanto estatico del mistero, perché nell’in-canto si è introdotti all’esperienza della Stessità dell’Altro, mentre nell’ek-stasi è concessa l’esperienza dell’Alterità dello Stesso. […] Nell’in-canto si assume la posizione ek-statica di chi sta sul limite estremo del segno e della sua infinita possibilità di esprimersi, sull’orlo di mondo che è sul punto di farsi segno e parola» (p. 137).
Questo gioco della distanza che si gioca nell’accadimento del grafema vocale viene da Gaburro messo in corrispondenza, per così dire «punto su punto», con il dinamismo rivelativo delle differenti «voci» che percorrono come un vento dai mille aliti tante pagine vetero- e neotestamentarie. Senso dell’esegesi biblica dell’Autore è dunque di mostrare come la struttura dialettica che dà forma al fenomeno della voce trovi una sua precisa traduzione in termini teologici. Commentando il racconto dell’evento della Pentecoste: «la correlazione che il testo stabilisce tra ‘rumore/voce/lingue’ delinea un significativo movimento spaziale che va dal ‘cielo’ alla ‘terra’ e dall’esterno all’interno per ritornare poi nuovamente all’esterno. Infatti il ‘rumore’, assimilato a vento gagliardo, viene dal ‘cielo’ e riempie ‘la casa’, dov’è raccolto il primo nucleo della comunità cristiana (v. 2), e successivamente divenuto ‘voce’ (v. 6) provoca il raduno in un solo luogo dei rappresentanti di tutti i popoli» (p. 82). La tensione tra la Risposta e l’oggetto è ora il percorso, immer wieder da tracciare, tra il cielo e la terra. Facendo questa volta riferimento ad Es 19, 20 ed Es 20, 22 Gaburro evidenzia come questo fenomeno della tensione sia nient’altro che la stessa voce di Dio: «in un intreccio di trascendenza ed immanenza, i racconti biblici indicano che la voce di Dio proviene sia dal monte che dai cieli. Non è una contraddizione? Da dove viene in realtà questa voce?» (p. 54). Appoggiandosi, in questo caso, soprattutto alle ricerche di Scholem, Gaburro indica nelle «teorie mistiche del linguaggio» le più avvertite nel saper sciogliere quella che dal punto di vista di una logica non-dialettica è una mera contraddizione, in una affermazione dal punto di vista della religione. La consapevolezza affermativa, appunto, che «il medium del linguaggio, inteso come lo spazio in cui avviene la vita spirituale dell’uomo, ha un lato interno che, nell’atto della comunicazione, rimane velato. […] La stessa ‘voce’, mentre è udita, mantiene il suo ‘segreto’ determinato dal carattere trascendentale che lo contraddistingue» (p. 56). Questo «trascendentale segreto», questa contraddizione che ogni scienza logica vieta di formulare, questa parte velata del gesto della fonazione è la liberazione di «un movimento di distanza e vicinanza che scorre da Dio verso l’uomo» (p. 48). Come dire: mentre i termini che la relazione mette gioco rappresentano il lato evidente, il suo côté esoterico, la struttura stessa della relazione, invece, il fenomeno della relazione qua talis che quei termini mette in gioco, significa quella «mediazione immediata» (p. 57) che è il lato esoterico-misterioso e sempre sottratto, il lato occulto di tutto il gioco. Questa struttura, infatti, è un ni-ente, una non-cosa. Non è un aliquid, ma ha la consistenza di uno spazio vuoto, di una «fessura che si colloca tra l’aver interpretato […] e il dover interpretar[e]» (p. 227), una vacuità tra il passato ed il futuro che ricorda da vicino l’exaìphnes platonico e la diaphanìa di Aristotele.
La Voce (questa volta, dunque, quella scritta con l’iniziale maiuscola) ri-vela. La voce auto-affettantesi della fenomenologia diventa la Voce della Ri-velazione, secondo tutta la feconda ambiguità che inerisce al fenomeno della ri-velazione: «come coniugare insieme il Dio che si rivela e l’eccedenza che implica, il Dio vivo e inafferrabile con un Dio prevedibile, il Dio che parla e quello che ha già detto tutto? Dal punto di vista semantico il termine latino re-velatio (come del resto l’analogo greco apo-kalipsis) comprende al suo interno questo gioco dialettico di apertura e di nascondimento. Il prefisso re-, nei composti, dice la ripetizione dell’identico e il passaggio opposto. Pertanto il termine re-velare sta a indicare sia il togliere il velo, che al contrario l’infittirsi del velo» (p. 201). In questo senso «l’interpretazione della Parola di Dio» deve consistere in una preliminare comprensione del carattere di misticismo, e dunque di mutezza, che appartiene per natura al fenomeno stesso della relazione considerato nella sua rescissione dai termini finiti che la relazione appropria espropriando l’uno all’altro. L’esegesi divina deve «mostrare la necessità di mantenere, nel rispetto dell’Evento stesso, la tensione dialettica tra immanenza e trascendenza» (p. 217), ma la tensione dialettica non è loquace. Essa è muta, pur essendo la fonte di ogni loquacità.
Oltre ai due termini pieni della relazione «come terzo aspetto si evidenzia la forza del silenzio quale fessura e spazio di libertà per l’evento della rivelazione» (p. 257). La Voce, dunque, per certi versi, è il Silenzio, coincide con esso, «voce di silenzio» (p. 267). Collocata nel luogo impossibile «tra historia sacra e historia profana» (p. 238), «la Voce è in se stessa una traccia che mostra e nasconde, è soffio inafferrabile, presenza e rinvio infinito» (p. 260), «fessura linguistica che collega il Creatore alla creatura» (p. 261). La Voce, in quanto fessura, è allora l’et…, et…, oppure il nec…, nec… (di mostrazione/nascondimento, presenza/rinvio) della teologia negativa. La modalità di corrispondenza più adeguata a questo Silenzio della Voce viene individuata in un dire di carattere poetico-analogico più che nella concettualizzazione filosofica. Il linguaggio poetico gode della possibilità di delineare nella maniera più limpida il gioco dialettico che è stato delineato come l’esoterico della Voce: «il poema […] indica la tensione verso la trascendenza, che non è appropriazione di idee, ma il mantenersi nell’insonnia del letto dell’essere, sulla traccia, costantemente in esilio» (p. 263). Il dire poetico, che «pur essendo nel tempo, […] libera una voce che va oltre il tempo» (p. 265), è insomma l’accettazione di quel tenersi-in-cammino che è il modo più proprio per abitare lo spazio della fessura di cui il mistero della Voce si sostanzia. Secondo questa particolare comprensione della prassi versificatoria, poeta nel modo più compiuto è Gesú, Gesú nella sua funzione pontificale, Gesú come «voce del Padre, la vivente ‘analogia’ tra Dio e gli uomini» (p. 318), finendo così per recuperare, forse inconsapevolmente, una di quelle complicate equazioni del cattolicesimo pagano del George-Kreis che volentieri metteva insieme Gesú e Dichter, Dichter e Kaiser, e via componendo.
Chiude il volume un’appendice intitolata Spiraglio (pp. 343-360) in cui la struttura dialettica della Voce viene illustrata nella sua applicazione al contenuto teoretico del dogma trinitario. Il nesso trinitario ci apre l’orizzonte della «pericoresi» nel quale lo «scambio […] delle persone divine, nel quale l’una rende l’altra perfettamente partecipe di sé», produce quella «inabitazione e penetrazione reciproca» di cui risulta d’immediata evidenza il carattere d’analogia ch’esse condividono con lo spazio di Silenzio il cui ascolto era appena emerso come il proprium dell’esperienza religiosa. In questa prospettiva, cui serve da riferimento testuale privilegiato il Vangelo di Giovanni, è soprattutto la persona dello Spirito Santo a stagliarsi con nettezza nella sua funzione eminentemente mediativa e dunque, in qualche modo, più strettamente apparentato, rispetto alle altre persone della Trinità, alla natura mistica della Voce/Silenzio. In un’affermazione che contiene molti dei fili concettuali che ci hanno guidato in questo cammino, e che può suonare come ampiamente compendiativa del percorso svolto dalla sua ricerca, Gaburro scrive: lo «Spirito Santo […] è l’intimo di Dio, la comunione più sincera di Padre e Figlio, è l’autodonazione divina, l’autoapertura di Dio. L’immanenza e la trascendenza, l’interiorità e la relazione, la traccia e l’inafferrabilità, l’essere in sé e l’essere oltre e al di fuori di sé, l’essere ‘dentro’ e ‘sopra’ sono dimensioni della voce dello Spirito» (p. 347). O ancora, per meglio illustrare come lo Spirito (della voce) non significhi soltanto un dinamismo infra-trinitario, ma liberi al contempo uno spazio per l’orecchio dell’uomo: «attraverso lo Spirito, il luogo della voce di silenzio non è semplicemente ‘prima’ o ‘dietro’ la parola, ma si fa trovare in un ‘tra’: il respiro comune tra Padre e Figlio, ma anche il respiro ‘tra’ il soffio/voce della croce e colui che nella fede lo ascolta» (p. 359).
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2007, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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