Chiesa romana e modernità giuridica
(Per la storia pensiero giuridico moderno)EAN 9788814136368
L’ampio lavoro di ricostruzione storica e di analisi filosofico-giuridica del prof. Carlo Fantappiè, ordinario di storia del diritto canonico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Urbino, è destinato a diventare un “classico”, non solo della storia del diritto canonico, ma della storia della Chiesa dell’età contemporanea. Mi sembra infatti che l’interesse di questo lavoro basato su una impressionante documentazione (in parte inedita) e completata da un non meno impressionante (quanto utile e prezioso) apparato scientifico (schedario bio-bibliografico) non si limita al suo oggetto formale: cioè la ricostruzione minuziosa e articolata del processo di elaborazione del Codice di diritto canonico (1917). Fosse solo questo, esso rappresenterebbe già un contributo fondamentale alla nostra conoscenza della storia della Chiesa contemporanea.
A mio avviso l’apporto della ricerca del prof. Fantappié va ben oltre questo aspetto per così dire “monografico” del volume. Mi limiterò a sottolineare tre aspetti: la rivalutazione del pontificato di Pio X; il ruolo centrale del cardinale Gasparri; l’importanza della Scuola dell’Apollinare (Laterano). Il pontificato di Pio X è stato per lungo tempo identificato con la lotta al modernismo. Oggi viene riscoperto un altro versante del pontificato: il versante riformista. Lo aveva già visto il grande storico belga Roger Aubert quando scriveva: «Questo papa così conservatore fu nel medesimo tempo uno dei più grandi riformatori della storia». Un volume recente che raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Treviso nel novembre 2000 sotto il titolo Pio X e il suo tempo (a cura di Gianni La Bella, Il Mulino, 2003) mette bene in evidenza i diversi aspetti del riformismo ecclesiale di papa Sarto: la riforma del conclave (1904), la riforma della liturgia (1903), la riforma dei seminari (1907), la riforma della curia (1908).
La codificazione del diritto canonico (reformatio iuris) rientrava perfettamente in questo disegno riformatore di papa Sarto, il quale, spiega l’A., si spiega fondamentalmente da due fattori convergenti: «un forte spirito d’iniziativa personale», «una valutazione negativa degli organi e del personale di governo della curia romana, da lui ritenuti poco efficienti e bisognosi di revisione» (639-640). Più avanti, l’A. non esita a collegare questa ansia riformatrice di papa Sarto alle sue esperienze pastorali anteriori al pontificato: «le riforme promosse al centro della Chiesa – compresa la codificazione canonica – possono essere interpretate come lo specchio fedele delle esigenze maggiormente avvertite nell’esperienza di governo delle chiese particolari» (924). Sul suo modo di operare (modus reformandi), l’A. fa osservare che Pio X non si fidava degli uomini della curia e che fu per questa ragione che decise di creare una specie di Segreteria privata (denominata “Segretariola” negli ambienti curiali), parallela alla Segreteria di Stato e composta di uomini di fiducia. Il ruolo personale di Pio X in tutte le riforme del suo pontificato è stato determinante (ha avuto la magna pars).
Per quanto riguarda la riforma del diritto canonico, l’A. gli attribuisce la paternità stessa dell’idea della codificazione, nonostante la testimonianza in senso contrario del card. Gasparri, e dimostra come egli non ha cessato di seguire e di controllare i lavori delle varie commissioni e sottocommissioni tramite la sua Segretariola o collaboratori di fiducia. Il volume fa anche ben vedere come Giuseppe Sarto aveva manifestato già prima del pontificato, da prete e da vescovo, un «costante interesse per il diritto canonico» (670). Al di là del suo ruolo personale nelle diverse fasi del progetto, mi pare molto stimolante la chiave interpretativa che ci viene proposta per cogliere il vero significato di tutta l’azione riformatrice di papa Sarto. Riferendosi alla sua teologia politica molto influenzata dalla lettura quotidiana degli scritti del cardinale Pie, l’A. parla di una sorta di “teocrazia spirituale” di ispirazione filoagostiniana per caratterizzare la sua concezione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, la quale lo portava ad affermare fortemente la “dipendenza assiologica” del primo nei confronti della seconda. Il filone antimoderno della cultura intransigente non esaurisce tuttavia il suo rapporto alla modernità. Il pontificato «giudicato quasi universalmente il più reazionario della storia della Chiesa contemporanea» viene posto qui in un nuova luce almeno per quanto riguarda «i metodi e gli strumenti » del suo governo.
L’A. propone la categoria di “modernizzazione stabilizzatrice” o “modernizzazione giuridico-istituzionale” per definire il suo sforzo di adeguare la Chiesa alle forme della modernità statuale (974-975). In altre parole, papa Sarto non ha esitato a ricorrere ai metodi e agli strumenti della modernità odiata per meglio combattere quest’ultima in nome delle primato dello spirituale (Instaurare omnia in Cristo). La “secolarizzazione” delle norme canoniche operata dalla codificazione «riguarda più la forma che la sostanza»: il codice rappresenta «un momento significativo di un processo di spiritualizzazione del diritto della Chiesa» (G. Dalla Torre). Un altro aspetto particolarmente interessante dell’opera è tutta la parte (la seconda del primo volume) dedicata alla formazione culturale e all’opera canonistica di Pietro Gasparri. Il cardinale Gasparri rappresenta sicuramente una delle figure «più rappresentative della Curia romana tra Otto e Novecento» (p. 335). Non c’è bisogno di ricordare il suo ruolo di segretario di Stato sotto i pontificati di Benedetto XV e di Pio XI (dal 1914 al 1930). Fu lui il vero ispiratore di tutta la politica concordataria della Santa Sede dopo la Prima guerra mondiale, in particolare della politica di conciliazione con l’Italia fascista. L’interesse maggiore del volume del prof. Fantappié è di aiutarci a capire meglio, attraverso lo studio della sua formazione all’Apollinare e degli suoi anni del suo magistero all’Institut catholique di Parigi (1880-1898), le radici culturali e intellettuali del cosiddetto “realismo politico” del card. Gasparri.
Non c’è infatti soluzione di continuità tra lo studioso di diritto canonico e il capo della diplomazia vaticana. L’influenza del pontificato di Leone XIII e del suo cardinale segretario di Stato Rampolla è stata sicuramente determinante. Tra le altre esperienze decisive «per la sua maturazione giuridica e politica » che il libro mette in evidenza, troviamo anche gli anni del tirocinio presso la segreteria del cardinale prefetto della Segnatura di Giustizia Teodolfo Mertel (1877-1880). L’A. parla di «vere e proprie consonanze» tra l’anziano primo ministro dello Stato pontificio e il futuro Segretario di Stato: «una visione comune dei principi regolatori delle relazioni tra la società spirituale e quella civile», tra la Chiesa e lo Stato (moderno) visti ambedue come “societates perfectae”, «tra loro distinte, ma non contrarie», che portava all’idea di accordi reciproci possibili tra di loro «su materie contingenti»; ma anche una identica valutazione delle conseguenze storiche dell’unità italiana per la Santa Sede e della necessaria rinuncia ad ogni tentativo di restaurazione del potere temporale. Nella parte finale del secondo volume, l’A. fa vedere come la sua concezione neotomista dei rapporti tra Chiesa e Stato si discostava da quella filoagostiniana di papa Sarto.
Questa divergenza sul modo di impostare teologicamente le relazioni tra le due società spiegherebbe in ultima analisi la discontinuità della politica vaticana tra Pio X e i suoi due successori immediati (Benedetto XV e Pio XI): all’intransigenza del primo che teneva “in scarsa considerazione” l’arte della diplomazia succederà la politica di “conciliazione” dei secondi che culminerà nella firma dei Patti lateranensi (964-965). Il volume traccia i lineamenti di una biografia scientifica del cardinal Gasparri che manca ancora oggi: la prima parte, la più difficile, è già scritta; rimane solo da scrivere la seconda, quella che riguarda più specificamente la sua attività di segretario di Stato e sulla quale esiste ormai tutta la documentazione vaticana (comprese le famose Memorie di Gasparri di cui l’apporto è giudicato dall’A. «modesto» per lo storico, 337).
Il cardinale Gasparri fu per così dire “il prodotto” della Scuola romana dell’Apollinare. Mi pare anche giusto accennare all’apporto fondamentale del volume per una possibile futura, anche auspicabile, storia dell’Università Lateranense. L’A., che ha avuto la “grande chance” di poter accedere agli archivi dell’università (ciò che, a quanto mi sembra, non è più possibile oggi), fa vedere l’importanza delle Facoltà giuridiche (Facultates legales) del Seminario romano dell’Apollinare per la formazione dell’élites curiali alla fine dell’Ottocento. Fondate da Pio IX nel 1853, al fine di restaurare l’antica tradizione dell’utrumque ius (diritto canonico e diritto civile), queste ultime si fusero alla fine del secolo con un’altra istituzione, l’Accademia di conferenze storico-giuridiche, nata dopo la caduta della Roma pontificia (1878) e dedita interamente allo studio del diritto romano «considerato nella sua genesi e nel suo sviluppo». La fusione del 1897, almeno fino all’assorbimento completo dell’Accademia di conferenze storico-giuridiche nella facoltà di giurisprudenza dell’Apollinare, non rimarrà senza effetti sui programmi e sul contenuto degli insegnamenti impartiti durante tali anni, che sono esattamente quelli (1899-1902) in cui l’allora giovane Eugenio Pacelli (per prendere solo questo esempio) compierà gli studi giuridici all’Apollinare. Il contributo della Scuola dell’Apollinare alla codificazione sarà determinante.
Circa il 40% dei consultori (31 su 79) della commissione per la codificazione provenivano dall’Apollinare. Tra questi maestri di questa Scuola canonistica, oggi un po’ dimenticati, vanno ricordati i nomi, oltre a quello di Gasparri, di Filippo de Angelis, Francesco Santi, Guglielmo Sebastianelli, Michele Lega. Rispetto all’altra grande scuola romana di diritto canonico, la Scuola della Gregoriana (Camillo Tarquini, Franz Xavier Wernz, Benedetto Ometti), quella dell’Apollinare si contraddistingue per una maggiore apertura alla modernità giuridica degli Stati. «In termini generali si potrebbe dire che la Scuola dell’Apollinare insiste assai più della Scuola della Gregoriana sulla necessità di allinearsi all’impostazione dei codici moderni» (855). Anche dal punto di vista di una storia della teologia romana in senso largo (luoghi di formazione, professori, manuali, ecc.) tra Ottocento e Novecento, il volume del prof. Fantappié rappresenta un’opera di fondamentale importanza per la ricchezza del materiale raccolto e l’ampiezza delle prospettive aperte.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 1/2010
(http://www.pul.it)
Una poderosa opera di storia giuridica è questa di Carlo Fantappiè nei due volumi che onorano la bella collana del Centro studi «Per la storia del pensiero giuridico moderno» fondata da Paolo Grossi nel 1973 e già giunta al 76o volume. Il libro, frutto di lavoro intenso di molti anni (e lo si vede bene), è dedicato a Paolo Grossi e di questo Maestro della Storia del diritto condivide le linee di fondo. Il Fantappiè, la cui visione storica ci è già nota soprattutto attraverso la sua bella Introduzione storica al diritto canonico, 3a ed. Bologna 2003, giunge ora a darci un’opera che fa entrare compiutamente nel dominio della storia il Codex Iuris canonici del 1917 pubblicato da Benedetto XV: in un iter che tiene conto degli eventi nodali dello svolgimento storico e delle correnti filosofiche e teologiche sottostanti e nella vigile attenzione ai principi metodologici e nella matura concezione delle finalità e delle dimensioni del complesso ordinamento della Chiesa.
1. – Storicizzare il ‘Codex iuris canonici’. L’A. muove dal fatto che tale Codice è ancora «prevalentemente una riserva di caccia dei canonisti esegeti», considerato «un monumento perenne della scienza canonistica anziché un’opera del passato nei cui riguardi occorra mantenere il senso della continuità storica ma anche della distanza culturale e ideale», e ciò non ostante vari eventi innovativi (Concilio Ecumenico, revisione del Codex nel 1983, Codex canonum Ecclesiarum Orientalium del 1990); e perciò occorre «recuperare la dimensione storico-spaziale del diritto della Chiesa cattolica, in linea con il nuovo rapporto tra Chiesa, società e culture, e con la nuova articolazione conciliare tra chiesa universale e chiesa particolare, tra chiesa cattolica e altre chiese». E poiché tale dimensione storico-spaziale è sempre stata «intrinsecamente connaturale» al diritto canonico e nei secoli «ha sapientemente condotto ad esaltarne il carattere flessibile e plastico, quasi del tutto perduto con la codificazione del 1917», occorre recuperare l’elasticità un tempo consueta, che Gabriel Le Bras aveva individuato quale vero ‘segreto’ del diritto canonico. Dunque storicizzare il Codex, far opera di de-condizionamento teologico e giuridico: una impresa in qualche modo epica, per l’enorme lavoro che richiede e l’attenzione costante coerente alla verifica di alcune condizioni ermeneutiche previe. Non si tratta solo di andare al dibattito che ha preceduto il Codice piobenedettino o ai lavori preparatori, si tratta di una vasta opera di riesame storico di tutto il tentativo di codificazione, a partire dal Concilio di Trento. E il Fantappiè tiene fede alle indicazioni che già nel 1983 additò Paolo Grossi, di iniziare a comprendere non solo gli influssi immediati che agirono sulla norma iuris ma «su tutto il dibattito retrostante», individuando cioè «apporti e canali di derivazione, per collocare questa scienza canonistica nel gioco vivo delle grandi correnti culturali» (P. Grossi, Storia della canonistica moderna e storia della codificazione canonica, in Quad. fior. per la storia del pens. giur. moderno 14 [1985] 587-599: cit. pp. 591 e 597), dunque guardare con coraggio «al fondo di un amplissimo imbuto storico». È un atto di coraggio (del Fantappiè e del Grossi); un compito ambizioso, l’A. ne è cosciente: e questo senso di avventura grande colora tutta la sua indagine, che non si ferma di fronte alle molte difficoltà che l’analisi obiettivamente presenta. Si tratta di una storia del Codex JC, ma di così ampia portata – come esigito dalla vastità e complessità del programma che l’A. si è imposto – da sfociare in una Storia dell’intero Diritto canonico moderno: con un orizzonte larghissimo, intessuto di implicanze giuridiche filosofiche teologiche, rievocate puntualmente. In un iter distinto in tre parti: a) prima della realizzazione del Codex JC, ricostruzione dei tentativi di redazione e degli ostacoli e delle premesse teoriche e delle istanze pratiche e delle anticipazioni che si operarono per racchiudere la materia immensa entro un sistema coordinato; b) durante la redazione del Codex, lo schema assunto per i lavori e la riflessione dei giuristi che vi operarono, esponenti di correnti dottrinali e di esperienze acquisite nella conduzione di uffici amministrativi e giudiziari, recettori di molteplici e ben individuate tradizioni; c) dopo la promulgazione del Codex, verifica dei suoi effetti sulla Chiesa e sulle scuole canonistiche. Le fonti, avverte l’A., sono lacunose, per le restrizioni ai commissari di servare secreta sull’iter e di afferire i documenti alla Santa Sede, ciò che ha portato a distruggerne molti, nonché per la dispersione archivistica (talune carte che dovrebbero afferire a un archivio le troviamo classate in un altro); per il ritardo in cui fu compiuta la classificazione (nel 1955!) ma anche per la complicazione prodotta dalla esistenza di una Segreteria privata, la Secretarìola, creata da Pio X, funzionante in modo parallelo alla Segreteria di Stato.
2. – Codificazione e Compilazione. Viene opportunamente segnalata la radicalità del passaggio tra Compilazione e Codificazione e la impossibilità di considerare tale passaggio come ‘evoluzione’ storica e concettuale. Grande infatti è la differenza tra una Compilazione, quale la Chiesa aveva seguito con il Decretum di Graziano sulle tracce del Corpus iuris giustinianeo – anche con le varianti apportate dalle Decretales di Gregorio IX (e i successivi Liber Extra e Liber Septimus) – e un Codex vero e proprio quale il Pio-Clementino. È questo un punto che lo storico del diritto non deve desistere dal sottolineare: mi si consenta perciò qualche parola in proposito, convergente – a mio parere – con quelle dell’A. Codificazione e Compilazione non sono solo due forme diverse di presentazione delle norme, si tratta di due modi diversi di intendere il diritto. Vi è tra le due opzioni una differenza di mentalità, un orizzonte diverso e in gran parte opposto; due universi di pensiero, in cui si rispecchiano due differenti visioni della realtà: da una parte un diritto come dimensione continua e coinvolgente, che non può essere ridotto o cristallizzato ma solo visitato con lo studio nonché con l’attenzione al concreto e all’umano, questo il diritto della Compilazione; dall’altra lo schema semplificatorio astratto che vuole risposte immediate e riduce l’umana esperienza a fattispecie regolate dall’alto e sanzionabili con nettezza aritmetica, questo il diritto della Codificazione. Da una parte il diritto che è nella natura razionale dell’uomo e deve tradursi nel concreto della vita per poi ripresentarsi diverso a ogni variazione storico-geografica eppur sempre legato a istanze permanenti e a principi indefettibili, questo il diritto della Compilazione; dall’altra il diritto che coincide con la Legge e prescrive norme di comportamento invariabili, questo il diritto/ legge della Codificazione. E dunque parlare di Codice è come fare un salto da un universo giuridico ampio (ove la mente è rapita nel continuo tentativo di adeguarsi ai principi) ad uno schema ristretto, verso l’abisso di un mondo ove si reclama una uniformità a un dettato legislativo. Il romanista noterà con sofferenza in questo passaggio l’abbandono pressoché totale del diritto romano, del quale sono forse conservati taluni istituti, ma smarrendone l’anima. Viene meno l’adeguamento dei giuristi al caso concreto, alla osservazione puntuale del reale, e a quella aequitas che dal caso della vita emergeva, suprema legislatrice, e nel richiamo evidente alla legge naturale dettava al pretore e al giurista i canoni per la decisione di quel caso specifico. Il principio seguito dai giuristi romani, anche al di fuori delle collezioni casistiche – anche nelle opere sistematiche, anche nei vasti Digesta e in quello stesso di Giustiniano nell’ampia Compilazione, e che si ritrova in quello dei cultori del diritto della Scuola dei Glossatori e poi dei Commentatori, e in quello perseguito da Graziano – è sempre di allenare la mente del giurista a una continua riflessione sul diritto. Al contrario l’obiettivo perseguito dai codificatori è stato di interrompere il flusso della meditazione giuridica riducendo il diritto in norme, in articoli, e semplificando così (o credendo di semplificare) la complessa realtà: in tal modo decretando la sostituzione del diritto (ius) con la Legge positiva autoreferenziantesi e abbattendo consuetudini e ogni costruzione civile, sostituendovi il Diritto scritto, cioè l’Arbitrio sovrano del Legislatore ... E allora ecco il problema: un codice di diritto canonico è «un paradosso culturale e politico finora poco evidenziato dai canonisti» (così l’A. all’inizio del secondo volume): e la domanda ovvia che ne consegue «Come è stato possibile che la Chiesa abbia adottato – anche se a un secolo di distanza – la forma Codice che aveva trovato il suo indiscutibile modello in quel Code Civil uscito dalla rivoluzione francese e dallo statalismo di Napoleone? Non c’è in questo una contraddizione patente?». Come mai la Chiesa «ha potuto adottare e imitare uno strumento che era considerato il simbolo per eccellenza tanto della secolarizzazione del diritto, della società e dello Stato, quanto della negazione quasi assoluta della sfera di vigenza del diritto canonico negli Stati dell’Europa e dell’America Latina?» (p. 527).
3. – Motivi e fattori di una svolta radicale. Un tale profondo mutamento di indirizzo è potuto avvenire – osserva l’A. – attraverso tre vie «diverse ma confluenti»: a) il processo di «neutralizzazione ideologica» del modello ‘Codice’ mediante la sua assunzione anche da parte di Stati europei non rivoluzionari, come il Codice Austriaco del 1811 (ma anch’esso – vorrei sottolineare – inficiato di intenti illuministici); e c’erano (rileva l’A.) le tendenze liberaleggianti dell’episcopato (mons. Dupanloup rivendicava una ‘radice cristiana’ del Code Napoléon auspicando «porre il codice Napoleone in luogo delle leggi civili di Roma sarebbe un grande progresso ...»); b) il distacco tra tiara e corona, attuatosi con la debellatio dello Stato pontificio nel 1870: prima di questa data, l’apertura al metodo codificatorio veniva a scontrarsi con l’essenza teologico-politica dello Stato pontificio (p. 537); c) la «natura strettamente giuridica», configurata «quale strumento tecnico per risolvere i problemi di riassetto delle proprie fonti» (p. 539). Va detto che tali motivi non stanno sullo stesso piano. Il primo è invero (a mio avviso) quello fondamentale: si tratta dell’atteggiamento laico e liberaleggiante, di chi ha perso il sensus ecclesiae e l’dea di universalità (come mi propongo di meglio illustrare in un prossimo scritto) che rintracciamo in persone come il Dupanloup, l’oppositore a Pio IX nel Concilio Vaticano I e che per questa ragione è stato superesaltato dalla storiografia (liberale, appunto, anche di parte ecclesiastica) anziché coglierne il carattere gallicano per cui la sua apertura al nuovo era un moderno statalismo avulso dalla missione ecclesiale. Dunque il discorso andrebbe focalizzato (e invero l’A. lo fa nel corso dell’opera) su questo punto: la «laicizzazione» del pensiero canonistico, riflesso di una perdita del sensus ecclesiae e di una presa di distanza dai principi del diritto romano. Il secondo motivo, la debellatio dello Stato pontificio, che vari teologi hanno salutato positivamente come liberazione (e in parte lo è stata, se vogliamo coglierla nella prospettiva del passaggio verso un disvelamento maggiore della missione spirituale della Chiesa dopo un millennio di gestione di oneri temporali che non le competono: ma dà fastidio quella storiografia che prende posizione con irripetibili insulti al PapaRe), invero questo è sì un fatto reale dell’avvio alla codificazione, ma da porsi tra i motivi occasionali, quale acceleratore del moto codificatorio, più che come causa. Il moto era già in essere da oltre un secolo, pur frenato da resistenze varie convergenti: e l’A. addita l’opera riformatrice del cardinal Consalvi, che nel 1816 instaura tre Commissioni di sistemazione delle materie civilistica, commercialistica e penalistica in forma di tre codici; ma l’idea del Consalvi aveva una ragione pratica (come l’A. osserva a p. 532): la creazione di codici/manuali di commercio o di diritto civile e penale ha finalità pratiche di snellimento, ben altra cosa da una codificazione dell’intero diritto come un tutto organico con la idea sistematica sorretta da una impostazione teoretica; e tale scopo pratico riuscì nel Codice di procedura civile promulgato da Pio VII il 22 nov. 1817. Invece le riforme giudiziarie di Leone XII nel 1824 e quelle di Gregorio XVI (Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili del 10 nov. 1834, ed. anast. a cura N. Picardi, A. Giuliani, Milano 2004 con Prefazione di U. Petronio e N. Picardi pp. VII-XXX) giustamente sono messe nel conto di intenti diversi da quello del Consalvi, cioè non come aperture pratiche alla codificazione bensì come freni. E Gregorio XVI, acuto osservatore del «laicismo teologico e giuridico » che stava imponendosi (come ho accennato in Rivalutazione di un pontificato, negli Atti su Gregorio XVI promotore delle arti e della cultura, ed. Pacini, Pisa 2008, pp. 555 ss.), fece a tempo a stoppare l’effetto laicizzatore che avrebbero potuto avere i famosi consigli del Metternich, quando pose accanto al papa un riformatore della tempra del Sebregondi ... Viene ricordato anche il tentativo di Pio IX che nel 1859 ordinò al card. Mertel di riprendere il progetto consalviano, che Mertel giudicò superfluo per uno Stato ancor saldo e perché il diritto canonico aveva maggior elasticità rispetto a quello civile. Il terzo motivo di spiegazione della svolta codificatoria – la sua natura ‘strettamente giuridica’, di «strumento tecnico per risolvere i problemi di riassetto delle proprie fonti» – è esso stesso motivo concorrente alla svolta, non una causa; si trattò però di un fatto decisivo, servendo a superare obiezioni di fondo perché mascherava la portata della svolta che andava compiendosi: valutata come un dato meramente tecnico, essa poteva incontrare meno resistenze ... Inoltre, quattro fattori hanno concorso, secondo l’A., a perseguire la soluzione codificatoria: 1) i progressi della scienza canonica moderna; 2) la inadeguatezza del vecchio ordine delle Decretali a recepire la nuova legislazione tridentina; 3) l’obsolescenza di talune parti della legislazione ecclesiastica; 4) la situazione di inflazione e di incertezza normativa, che reclamava una semplificazione. E tre erano gli elementi frenanti: 1) lo spirito della tradizione normativa, lo schema autorevole delle Decretali; 2) il parere negativo della Santa Sede sull’eccessivo sforzo della impresa; 3) la discrepanza che avrebbe creato tra disposizioni di carattere universale e la varietà di situazioni reali di chiese locali soprattutto in paesi di nuova evangelizzazione. Anche tra tali motivi frenanti va tuttavia posta una distinzione di grado: il più vitale mi appare quest’ultimo, legato alla consapevolezza (forse ormai residua) che taluni pontefici avevano delle conseguenze devastanti di una svolta complessiva del diritto canonico.
4. – La «via breve» dell’iter codificatorio. Valutata come radicale la svolta codificatoria, di conseguenza viene considerata erronea la cosiddetta «via lunga» della preistoria del Codex (linea che pervade la esposizione del Gasparri e verrà poi consacrata). Questa ripartisce la storia del diritto canonico in tre fasi ritenute evolutive in una coerente sequenza: a) ius antiquum dalle origini all’Edictum grazianeo; b) ius novum da Graziano al Concilio di Trento; c) ius novissimum da Trento in poi; con le tre svolte metodologiche, i passaggi: 1o dal carattere cronologico della disposizione delle fonti a quello sistematico; 2o dal carattere privato a quello pubblico; 3o dalla pluralità all’unità e unicità delle fonti di cognizione. Nella Praefatio Gasparri, che enumera cinque opere decisive in tali ‘tornanti’ (1. Dionigi il Piccolo che nel VI sec. raccolse le lettere decretali dei pontefici dei secc. IV e V; 2. Graziano che tentò di conciliare i canoni contraddittori; 3. le Decretali di Gregorio IX e di Raimondo di Pen˜ afort, nuova e unica raccolta ufficiale, con l’occhio a Giustiniano; 4. Gregorio XIII che emendò il testo e varò l’edizione ufficiale del Corpus Iuris Canonici; 5. Pio X che, dopo i tentativi di Sisto V e Clemente VIII, e raccolte le richieste del Vaticano I e sempre con l’occhio a Giustiniano, volle il Codice), intendeva giustificare la Codificazione come naturale conclusione di un lungo processo lineare: una «linea lunga» con continuità nella sostanza pur nell’evoluzione della forma. È l’interpretazione prevalente, confermata da Trilhe (il Codex è «una serie di testi legislativi logicamente coordinati »), Stickler (il Codex è solo un novum Corpus) e Brian Edwin Ferme (il Codex fa da contrappunto al Liber Extra di Gregorio IX). Ma si tratta di criterio sbagliato, secondo l’A., perché non permette di cogliere la differenza tra Compilazione e Codificazione. Potremmo aggiungere: non solo un criterio sbagliato ma consapevolmente tale, una bugia programmatica di chi vuol coprire la gravità del passo compiuto contro la tradizione. E le stesse parole di Gasparri, in una con la dottrina canonistica moderna, han salutato il Codex come vero e proprio codice simile a quello degli Stati moderni ... Ben altro dunque che ‘evoluzione’, si tratta di una rivoluzione, come ritiene il Fantappiè. In effetti la Codificazione ha la sua ratio nella acquisizione di postulati della cultura moderna: la affermazione del primato della Legge sulle altre fonti del diritto e la trasformazione della scienza storico giuridica sistematica dalla disposizione ordinata dei fatti rilevanti a «scienza delle dottrine giurisprudenziali ». Con una differenza non solo nella forma ma nella essenza. Ecco allora la scelta interpretativa detta ‘Via breve’, da accogliersi da chiunque intenda l’attività storiografica come testimonianza alla verità dei fatti: essa individua nella frattura culturale dell’età moderna il momento genetico del processo che condurrà il diritto canonico a imboccare la via della codificazione, in una ‘imitazione ritardata’ del passo compiuto dai Codici degli Stati moderni.
5. – La Preistoria del Codice: la formazione del paradigma sistematico. La ‘preistoria del Codice’ si compendia nel passaggio dalla medievale Prudentia iuris canonici alla moderna Scientia iuris canonici, un passo epocale: «fin dal sec. XVI il diritto canonico non è rimasto estraneo all’istanza umanistica di rigore, di ordine e di coerenza della forma di presentazione del diritto». Poi il moto si accelera, «la scienza canonistica è stata attraversata dall’esigenza sistematica» (p. 10) che si avvale dei metodi introdotti dall’Umanesimo giuridico. Cos’era successo? Dopo che il papato medievale aveva sostituito il diritto consuetudinario con le Decretali, dalla metà del sec. XIII i canonisti vollero applicare il metodo della scolastica ai sacri canoni. La seconda tappa è quella del perugino Giovan Paolo Lancellotti (negli anni conclusivi del Concilio Tridentino) di ordinare i canoni secondo un metodo sistematico razionale mutuato dall’Umanesimo giuridico. Ciò sembra porsi sotto il segno della continuità, in sostanza invece v’è discontinuità: non ‘metamorfosi’ come nei tempi precedenti, bensì ‘innovazioni radicali’ che «toccano i capisaldi del diritto, come il sistema delle fonti e il metodo, e finiscono per stravolgerne la definizione e la configurazione assunte in precedenza» (p. 13). Si tratta di un «mutamento epocale» (ivi): per cui il diritto non è più romanisticamente inteso come «ars boni et aequi», bensì come sistema legislativo secondo i principi razionali moderni. Con due grosse novità: a) l’equivalenza tra ius e lex «con la riduzione del diritto a un complesso di leggi di carattere coattivo, a una tecnica che ne studia le relazioni logiche, a una scienza che attribuisce a questo insieme di regole un assetto il più possibile razionale»; b) la sostituzione del metodo casistico (che giungeva alla soluzione del caso mediante osservazione dei fatti e discussione scolastica delle autorità dottrinali) con il metodo logico-deduttivo, il quale «deduce le norme a partire da altre norme procedendo dall’alto verso il basso, dai principi alle conseguenze, dalle cause agli effetti, impiegando la logica propria delle nuove scienze matematiche e fisiche» (p. 13). E il diritto canonico si trasforma da «legislazione e prassi giurisprudenziale » a «sistema giuridico» (secoli XVI-XVIII). Si tratta di una svolta davvero grande: l’attività sistematica dei giuristi romani e del diritto comune procedeva dalla retorica, dalla distinzione (divisio) in ‘genera e species’ e ‘partes’ e la finalità era la disposizione complessiva della materia; invece la nuova «creazione del sistema» ha come fine «la elaborazione del discorso o di una serie di proposizioni organizzate in modo da formare un tutto le cui parti si rinviano a vicenda e sono derivabili l’una dall’altra» (p. 14). E le scuole di insegnamento influiscono sulla sistematica e sul metodo delle compilazioni, in tre grandi metamorfosi: a) dal ius Decretalium all’ordo iuris (sec. XVI); b) dall’ordo alla moderna scientia iuris (sec. XVII); c) dalla moderna scientia al systema iuris (secolo XVIII). E due sono le date evocative di opere e di eventi epocali: a) il 1563, chiusura del Concilio e pubblicazione delle Institutiones del Lancellotti; b) il 1791, frattura tra Chiesa e Rivoluzione e pubblicazione del Liber Isagogicus di Zallinger. Dunque – nel denso capitolo iniziale «Prolegomeni: La formazione del paradigma sistematico. Lineamenti di un percorso (1563-1791)»: pp. 3-94 (capitolo denso e lucido, in cui si avverte il nerbo dello storico, un poderoso lavoro sul lungo periodo) – l’indagine storica è a tutto campo, come l’A. avverte: riguarda l’insieme dei problemi teorici e pratici affrontati nel secolare dibattito: dalla concezione della Legge e del Diritto al metodo di esposizione, dalla tecnica formale alla sistematica, dalle dottrine dell’ecclesiologia alla definizione dello statuto disciplinare del diritto canonico. Vengono esaminati i tentativi di codificazione, ma anche i problemi strutturali affrontati nel grande dibattito. La nuova legislazione emersa dal Concilio di Trento, in una con la edizione ufficiale del Corpus iuris canonici, pose un problema di riassetto delle fonti canoniche, prendendo atto della non riproponibilità del metodo delle Decretali e, al tempo stesso, della «difficoltà di esperire soluzioni alternative d’impostazione razionale delle materie», nonché dell’esigenza di reagire alle sfide della Riforma. Perciò la fissazione, da parte dell’A., del terminus a quo della ricerca sul Codex proprio nella chiusura stessa del Concilio di Trento nel 1563. E si va poi all’esame del passaggio dall’ordo Decretalium ai systemata iuris (attuatosi in tre secoli), verificando la spinta alla sistematica sia in campo cattolico che protestante, lo sforzo di razionalizzazione dei gesuiti di Dillingen e Ingolstadt e dei francescani di Frisinga e dei benedettini di Salisburgo; e dei giusnaturalisti della Scuola di Würtzburg. Si tratta di un punto importante: l’A. valuta con attenzione il mutamento culturale avvenuto nella elaborazione del ius publicum della Chiesa. Si tratta di una «strategia adottata dalla Chiesa per neutralizzare la spinta offensiva statuale»: all’affermazione del ius publicum degli Stati, impiegato come strumento giuridico nei conflitti giurisdizionali con le istituzioni ecclesiastiche, la Chiesa romana eresse un ius publicum «strutturalmente analogo rispetto a quello degli Stati al fine di contrastarne l’azione politica» (p. 66). I canonisti di Würtzburg si proposero di rendere conto della natura dei diritti della Chiesa come aventi le stesse prerogative dello Stato ma essendo istituzionalmente irriducibili ad esso: rifiutarono l’assolutismo giuridico dello Stato moderno e furono fautori di un dualismo per cui la Chiesa è persona giuridica pubblica anche per lo Stato e «trova la sua fonte di legittimazione nella volontà fondativa di Cristo» (p. 67: essendo diversi i presupposti di legittimazione, «là la ragione naturale e i fini terreni della convivenza e dell’ordine, qua la rivelazione soprannaturale e i fini ultraterreni di ciascun individuo e dell’umanità»). Così il conflitto tra Stati e Chiesa nel campo del diritto pubblico produsse «un fenomeno di ‘imitazione per contrasto’ della Chiesa rispetto allo Stato moderno» (p. 69). Così «il criterio di riferimento e di validazione della ecclesiologia e dell’ordinamento giuridico venne ad essere costituito dai parametri concettuali e tecnici del diritto pubblico dello Stato». E se lo Stato aveva spezzato il legame con il diritto romano (trovando un nuovo fondamento nella filosofia naturale e razionale), allo stesso modo il ius publicum ecclesiasticum «si faceva portavoce di una serrata critica ideologica all’ordine politico medievale ... ed aspirava all’emancipazione dall’ordine delle Decretali» (p. 70). Era auspicato un orientamento astratto e razionalistico che «tendeva a rielaborare il diritto canonico alla luce dei principi del giusnaturalismo» e del diritto pubblico ecclesiastico e «della critica storico-politico-religiosa» (p. 71), proponendo un modello «del tutto estraneo alla rivelazione cristiana» esemplato su quella di Respublica (o societas perfecta); con una «forma di governo della Chiesa ridefinita sulla forma di regime dello Stato» (p. 71). Dunque il diritto canonico «assunse connotati razionalistici e secolarizzanti ancor più netti», simili al diritto statuale moderno (p. 73).
6. – Il cammino canonistico nel sec. XIX e il recupero del tomismo. Dopo questo ampio arco storico sapientemente indagato nei suoi aspetti concettuali e fattuali, ecco il secondo grande momento dell’indagine, quello riguardante il secolo XIX, decisivo per il passo verso la codificazione (cap. I: Il riordinamento degli studi giuridici nell’Urbe: 1824-1878, pp. 115-198): dalla distruzione operatasi delle diverse Scuole teologiche alla loro ricostruzione nel progressivo e finale accentramento romano; con l’indagine sui centri nuovi di produzione del pensiero canonistico, la istituzione della Università romana della Sapienza, il Seminario romano dell’Apollinare, il Collegio romano e l’Università Gregoriana. Merito dell’A. è di reagire alla svalutazione degli studi ottocenteschi risalente al canonista Eugène Grandclaude e passata nella vulgata, di definire la prima metà del secolo come epoca di ignoranza. Certo, nel periodo rivoluzionario «la soppressione dei seminari e delle facoltà universitarie creò un vero proprio habitus culturale» (p. 103) e produsse l’effetto negativo del decadimento degli studi; ma anche – osserva l’A. – importanti effetti involontari non negativi: a) eliminò «i principali centri di elaborazione delle teorie gallicane, giurisdizionaliste, episcopaliste utilizzati dai sovrani illuminati per programmare la politica ecclesiastica» (p. 105); b) favorì un processo di attrazione dalle periferie verso il centro della cattolicità e il venir meno delle premesse delle Chiese nazionali. E il papato poté ristrutturare gli studi sacri a Roma. Poi la debellatio dello Stato pontificio «sconvolse definitivamente l’ordine teocratico» obbligando a ripensare tutto «esclusivamente in rapporto delle esigenze della Chiesa universale» (p. 194). E qui si sottolinea l’importanza di Leone XIII, che fece perno sulla visione tomistica della realtà (cap. II: La ricomposizione dell’ordine giuridico durante il pontificato di Leone XIII: pp. 199-262); nonché della importanza della canonistica tedesca sul problema del metodo e del sistema. Vengono perciò studiati sia il filone protestante sia quello cattolico tedesco e le posizioni conservatrici della Scuola francese e infine analiticamente le Scuole romane, da cui proviene il Gasparri (cap. III: Il confronto tra i systèmata iuris canonici 1822-1903: pp. 263-332). Due i problemi: di aggiornamento (rivedere e integrare l’antico diritto) e di ridefinizione del ruolo del diritto nella vita ecclesiastica nel recuperare in forma nuova il senso del diritto canonico. Con Pio IX si erano poste le premesse istituzionali del rinnovamento dell’ordo studiorum delle facoltà di diritto canonico; e con Leone XIII la canonistica riceve un ulteriore rilancio sotto il profilo teoretico, connettendosi con la reviviscenza della filosofia tomista e con la costruzione della dottrina sociale della Chiesa (p. 199). Con l’enciclica Aeterni Patris, ott. 1879 Leone XIII promosse un’azione culturale organica «in cui i diversi ambiti storico, filosofico, giuridico e teologico» risultano tra loro legati nella visione unitaria data «dalla concezione tomista della realtà» (p. 200). Nella Immortale Dei del 1 nov. 1885 precisa che il novum ius «è frutto del funesto e deplorevole spirito di novità» del Cinquecento e delle «eccessive libertà moderne» proclamate dall’Illuminismo: che sono in opposizione «non solamente alla legge cristiana, ma anche al diritto naturale». E dunque tomisticamente l’accento è posto sul diritto naturale: il diritto umano è valido solo se deriva per via razionale dal diritto naturale. Ma con qualche differenza rispetto a Tommaso, seguendo invece Suarez che fonda il diritto canonico sul ius divinum positivo (estrinsecazione diretta della lex aeterna Dei): per cui «il diritto civile umano trova la sua fonte nel diritto divino naturale, mentre il diritto canonico è derivato dal diritto divino positivo». Suarez distingue dunque un ius divinum sive naturale sive positivum e un ius humanum (bidistinzione e non più tridistinzione: con l’effetto che solo il diritto civile e delle genti dovrebbe commisurarsi alle norme di diritto naturale per validarsi, mentre il diritto canonico non ne avrebbe bisogno essendo esso già validato dal suo rapporto organico con il diritto divino positivo). Tale pensiero del Suarez fu usato dalla Chiesa sia nel Syllabus sia nelle encicliche sociali: e «rappresenta il concetto soggiacente a tutto il sistema giuridico del Codex iuris canonici del 1917» (p. 206). Si trattò di una svolta equivoca, a mio parere, al cui dibattito occorrerebbe far convenire i canonisti perché in essa è un vizio di fondo concettuale, tale da distanziare il diritto canonico dal diritto civile in modo da far dubitare della legittimità della sua qualificazione come «diritto», dal momento che in essa il diritto canonico, sottraendosi alla categoria del «diritto umano positivo» si sottrae anche alla possibilità di essere inteso dai giuristi. La sua pretesa a configurarsi come un genus diverso dal diritto umano indebolisce infatti la sua forza e la sua dignità. E qui sarebbe da aprire un lungo discorso (e non è questo lo spazio per farlo) non solo sull’inaccettabile abuso compiuto dai canonisti che annoverano il diritto canonico nel campo delle scienze ‘teologiche’ anziché in quelle giuridiche, ma altresì sul rapporto che i canonisti hanno instaurato tra diritto canonico e diritto naturale. Basti ricordare che tale rapporto è del tutto sfalzato rispetto all’impostazione di Tommaso: mentre questi – con la distinzione tra lex aeterna, lex naturalis e lex humana – colloca il diritto canonico nell’ambito del ius humanum positivo (e come potrebbe essere altrimenti?), i canonisti abusivamente lo intrecciano con il ius divinum, in modo da dare al diritto canonico la stessa forza del diritto naturale (sì che per il Deville, ad esempio, le contraddizioni tra diritto canonico e diritto naturale «sono più apparenti che reali»). Il recupero metafisico del diritto naturale iniziò a opera di Luigi Taparelli d’Azeglio e Matteo Liberatore, ancor prima che fosse questa la linea-guida del papato. Il Saggio teoretico di dritto naturale di Taparelli D’Azeglio è del 1840-43: si fondava sul ‘fatto’ (l’analisi della natura e della coscienza umana) «per dare evidenza metafisica e saldezza sistematica al diritto naturale cristiano» e criticare il giusnaturalismo moderno e «ricondurre il diritto e le dottrine sociali ad un fondamento morale»; ma lo faceva «accogliendo i risultati delle indagini recenti di Haller e di Romagnosi, servendosi solo indirettamente del pensiero di Tommaso d’Aquino, della Seconda Scolastica e di Wolff» (p. 212), mentre per il Liberatore si rileva «l’abbandono della fase eclettica e l’avvicinamento al tomismo dal 1855 in avanti» (p. 212). Già il Syllabus di Pio IX nella tesi 39 condanna la pretesa positivista di attribuire allo Stato potestà illimitata e capacità esclusiva di produzione del diritto e nella tesi 56 nega riconoscimento alle leggi che contraddicono il diritto naturale (p. 212); ma «l’innesto organico della teoria del diritto naturale nella filosofia tomista» fu dato dalla Aeterni Patris (1879) di Leone XIII, preceduto dalla valorizzazione di opere di precursori della rinascita tomista in Italia (Roselli, Sanseverino, Signorello, Ferretti, Schiaffini, Giuseppe Pecci, Talamo, Prisco)» (p. 213) e poi le personalità di Tarquini e di Cavagnis (pp. 216-232; e in Francia l’abate Deville: ma si è già rilevato l’equivoco di tale «tomismo contro Tommaso»).
7. – «Utrumque ius» e «instauratio christiana». L’A. si sofferma sulla «dialettica tra il diritto naturale e la teologia tomista» (p. 252) e sulla «forte saldatura tra il programma di instauratio christiana, nei suoi diversi aspetti ideologici e pragmatici, e l’opera di reformatio iuris di Leone XIII». Questi pone stretti legami tra filosofia tomista e diritto naturale e ordinamento canonico: il tomismo considerato necessaria premessa per la riproposizione della dottrina del diritto naturale in senso antirazionalistico e antiriformistico, nella rispondenza profonda di tutta la tradizione scolastica con il diritto naturale. E l’adesione al tomismo ebbe anche la funzione di «provvedere a regolamentare le relazioni tra la legge naturale e l’ordinamento canonico» (p. 253), il quale doveva corrispondere alle premesse della philosophia perennis. E pur se vi sono «alcune varianti introdotte dal movimento neoscolastico» (p. 253), come l’introduzione nel suo sistema di «un elemento volontaristico ad essa estraneo e fuorviante» (p. 253), comunque i diritti naturali «formano la chiave di volta di tutta la costruzione leoniana» (p. 254). I diritti naturali, né acquisibili né alienabili, riferiti sia in relazione all’individuo sia alle formazioni sociali (famiglia, società civile e politica) «forniscono la base di appoggio a tutti i sistemi giuridici, sociali ed economici» (p. 254) e «generano una propria gerarchia interna e segnano un limite invalicabile per le differenti forme di aggregazione e per lo Stato medesimo» (p. 254), inseriti «in una visione dell’individuo non destoricizzata e della società non livellata ma ordinata, la quale disegna una scala armonica di diritti a valore e a contenuto eminentemente finalistico » (p. 254). E lo Stato viene a porsi come «organo strumentale di coordinazione per favorire il conseguimento dei fini propri degli inividui e di ciascun livello di formazione sociale» (p. 254). L’A. riconosce in questo «una risposta cattolica ai sistemi concettuali del positivismo giuridico, della Giurisprudenza dei concetti e dello Storicismo tanto nella versione della Scuola storica quanto in quella idealistica » (p. 255). Il valore della legge positiva va ricercato nella conformità al diritto naturale e non può essere ricondotto allo Stato quanto al suo fondamento. E sarà specialmente nell’ultima fase del sec. XIX – con il consolidamento degli studi nelle facoltà pontificie e l’affermarsi delle riviste di settore in Europa – che la canonistica si confronta con i problemi metodologici e sistematici. E vediamo dunque il modello della Scuola storica del diritto, in cui la Germania «fa da battistrada» (pp. 264 ss.): derivarono l’esigenza sistematica da Christian Wolff ma additarono «un metodo storico-filologico, che rifiutava le premesse metafisiche del giusnaturalismo settecentesco, le rovesciava nel continuo riferirsi al diritto romano e alle sue rielaborazioni successive (influsso romantico)». E, all’interno di essa, la Scuola storica cattolica fondata dal Phillips, che ebbe la sua acme in Aichner (1816-1911). E v’è la manualistica (bipartita tra ius publicum e ius privatum) in cui emergono Hugo Laemmer (con le Institutiones) e de Philipp Hergenroether (con il Lehrbuch); e la tendenza al richiamo alla tradizione, con Marie Dominique Bouix (1808-1870) e i suoi Tractatus, spec. de principiis 1852 e Eugène Grandclaude, che punta sul nesso strutturale tra diritto canonico, autorità ecclesiastica e tradizione. E la scuola della Gregoriana e poi l’Oeconomia iuris di Pietro Baldi (1883), che punta su tre principi cardine: l’intreccio e corrispondenza nelle fonti tra ordo cronologico e ordo systematicus; e il parallelismo analogo tra fonti canoniche e fonti romane; il rinvio di tale parallelo a un ordo socialis analogo complementare tra Impero romano e Respublica cristiana. E v’è il systema iuris di Sanguineti e di Ojetti. E quello di Franz Xavier Wernz (su cui soprattutto l’A. si sofferma: pp. 303-316). Infine la Scuola dell’Apollinare (pp. 317-331). Ed ecco l’A. dare grande rilievo alla fondazione leoniana della «Accademia di Conferenze storico-giuridiche» (pp. 232-252), base della Pontificia Università Lateranense. Alle origini il provvedimento di Pio IX sui docenti papalini delle facoltà legale, medico-chirurgica e filosofico-matematica che rifiutarono il giuramento allo Stato italiano e vennero perciò espulsi dall’Ateneo romano (dopo che la Sapienza si era trasformata in università italiana): nel nov. 1871 essi vennero invitati dal card. Capaldi, prefetto della Congregazione degli studi, a proseguire in forma privata l’insegnamento (su cui spiccò subito quello di Giurisprudenza). E se il Questore di Roma ne ordinò la chiusura per mancata autorizzazione statale (febbraio 1873) e il governo decretò la chiusura dell’«Università così detta Vaticana o Pontificia, od anche Istituto scientifico al Palazzo Altemps in Roma» e costrinse i docenti a tener scuola in forma privata nelle loro case (12 marzo 1876), si riuscì però a ottenere nell’autunno 1878 dal ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis l’autorizzazione a un istituto libero di scienze giuridiche. Dello tesso anno 1878 è il Manifesto redatto dall’Alibrandi che esaltava il ruolo del diritto romano anche nella preparazione del diritto canonico. Fu una novità, perché i romanisti laici avevano negato l’influenza del cristianesimo sul diritto romano, e dal canto suo la storiografia cattolica aveva criticato il diritto romano negandone ogni possibile abbinamento con il diritto canonico. E l’A. dà rilievo all’Alibrandi (pp. 238-245): «Il richiamo alla vocazione universalistica del diritto romano assume un peculiare significato ideale» (p. 241); e, in contrasto preciso con la dominante cultura giuridica tedesca in Italia tra ’80 e ’90, l’Accademia «critica i presupposti filosofici della Pandettistica e rifiuta la concezione del diritto come costruzione giuridica» optando per «una metodologia rigorosamente storica e comparativa nello studio del diritto romano» (p. 241); e l’A. rileva come tale scelta «risulta per molti aspetti vicina a quella di cui si faceva portavoce, nel 1888, presso l’Ateneo della Sapienza, il giovane Vittorio Scialoja con la pubblicazione del «Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano» (p. 241). E rispetto al risveglio della romanistica italiana – che reinterpretava l’eredità del diritto romano in un triplice modo: facendone l’insostituibile propedeutica all’elaborazione civilistica (linea di Filippo Serafini e della rivista «Archivio giuridico») e la base concettuale delle codificazioni moderne (Filomusi Guelfi, Perozzi, Brugi, Fadda e Bensa) e il modello esemplare su cui operare una stretta comparazione con i codici moderni, soprattutto con quello civile germanico (Polacco, Ferrini, Segré) – l’Accademia di Conferenze romanistiche segue più vasti obiettivi: «una piena attualizzazione giuridico-politica mediante un programma di rinnovamento culturale che trova il centro ideale nell’idea gloriosa di Roma» (p. 243). Storia e diritto: l’abbinamento fra queste due scienze costituisce il fulcro delle attività di questo Centro: con tre strumenti scientifici strettamente coordinati: un «Gabinetto di Lettura» fornito dei principali periodici giuridici, storici, archeologici italiani e stranieri; la rivista «Studi e documenti di storia e di diritto» aperta ai massimi giuristi e storici; la collana editoriale «Biblioteca». È «una risposta cattolica di alto profilo scientifico al progetto di attualizzazione in senso nazionale del diritto romano e di esaltazione dell’idea ‘laica’ di Roma promosso dal governo italiano in quello stesso periodo» (p. 245). Pur se l’Accademia ebbe a patire dalla concorrenza con il Pontificio Seminario romano dell’Apollinare – fino a essere accorpata nel 1904 alle due facoltà giuridiche di questo interrompendo la rivista «Studi e documenti» (p. 249) – tuttavia essa, sorta e mantenuta per volontà papale, servì da «laboratorio culturale del pontefice nelle materie giuridico-economico-sociali» (p. 250: ed ebbe il ruolo di «allevare una generazione di canonisti e orientarli verso lo studio comparato del diritto» (ciò venne esaltato e non diminuito dall’accorpamento con l’Apollinare: p. 250). E «il recupero della dottrina romanistica e civilistica» da essa perseguito «ha lasciato tracce indelebili nella sistematica, nel metodo, nella terminologia, nella prassi giudiziaria e in molti istituti del Codex iuris canonici» (p. 252). Ed ecco l’idea dell’utrumque ius, «l’espressione più alta e più audace, sul terreno giuridico, del grado di articolazione raggiunto dall’applicazione dell’ilemorfismo all’interno del movimento neoscolastico. Come questo principio-guida determina le relazioni tra anima e corpo nell’individuo, tra spirituale e temporale nella società, tra Chiesa e Stato nella storia, così esso si pone quale criterio regolativo del rapporto tra diritto canonico e diritto civile» (p. 257). «Diritto civile e diritto canonico rappresentano rispettivamente la materia da trasformare e lo spirito plasmatore in un rapporto di necessaria sussidiarietà e complementarietà fondato sul principio che ciascuno dei due elementi resta imperfetto ove sia considerato isolatamente» (p. 257). Quindi l’idea susseguente di creare un Institutum utriusque iuris. Per Leone XIII questi gli scopi: superamento del positivismo giuridico; ripristino di una base giuridica comune nelle relazioni con la società e con gli Stati; dare un saldo fondamento ad una ‘politica cattolica’ (p. 259). E l’affermazione che «il diritto della Chiesa postula una qualificazione giusnaturalistica anziché positivistica» (p. 260).
8. – La decisione e le sue premesse concettuali. Di fronte alla svolta definitiva e senza ritorno della codificazione, sorge spontanea la domanda: fu davvero Pio X a volere tale passaggio, oppure furono i suoi consiglieri a prendere una decisione così gravida di conseguenze? Donde l’apertura dell’A. a una vastissima indagine sulle premesse ottocentesche a tale svolta. È il denso e ricco di insegnamenti cap. III. Il confronto tra i systèmata iuris canonici (1822-1903), pp. 263-331: un vero libro di storia delle concezioni giuridiche, che sarebbe valido anche al di fuori di questa trattazione. Vi si esaminano le opere canonistiche destinate all’insegna mento, nella suddivisione sistematica della materia entro i tre generi letterari, dell’ordine dei titoli delle Decretales (ordo legalis), del sistema delle Istituzioni, e di coloro che seguono un sistema proprio. Vi si leggono nei singoli paesi e scuole influssi vecchi e nuovi: l’antica tradizione decretalistica, aggiornata dal Pirhing; l’impostazione bipartita ius publicum/ius privatum introdotta dalla Scuola di Würzburg; le nuove architetture giuridiche create dal diritto ecclesiastico protestante nel mutato clima culturale della Restaurazione. Segue una magistrale Biografia del Codificatore Pietro Gasparri (333-519): la più vasta biografia su questa grande figura, con la consapevolezza che – come affermò don Giuseppe De Luca (citato in epigrafe a p. 333) – «una storia del cardinal Gasparri sarebbe una storia della Chiesa di Roma nel primo trentennio del nostro secolo: ad aggiungervi uno studio di ciò che egli attrasse dai tempi anteriori, nella sua formazione e di ciò che egli ha preparato negli anni venturi con la sua azione, si avrebbe la storia di più che un trentennio, ma di un cinquantennio, e forse di tutto un secolo: 1850-1950». È la Parte II del volume: L’esperienza del «codificatore» Pietro Gasparri (pp. 333-522): dopo una Premessa: Tra Roma e Parigi: lo «spirito romano» di Gasparri (pp. 335-346), una biografia in tre capitoli: IV. La formazione e il tirocinio a Roma, 1870-1879 (pp. 347-378); V. La prima fase del magistero parigino, 1880-1890 (pp. 379-416); VI. Dal Commentarius ai Tractatus, 1891-1898 (pp. 417-522). Il poderoso «libro nel libro» sulla storia scientifica del card. Gasparri si continua nel secondo volume, dedicato alla Codificazione. Tale secondo volume (dal titolo Il Codex Iuris Canonici, 1917) ruota attorno a due poli: la preparazione immediata e il suo significato storico sia nelle dinamiche interne della vita della Chiesa sia nel confronto con le codificazioni degli Stati. L’esame verte sulla valutazione del contributo scientifico delle varie Scuole nell’intenso dibattito di fine ’800. È la parte III (L’impostazione della codificazione canonica, pp. 525-804) in tre capitoli (VII-IX) ove l’A. esamina le premesse essenziali della codificazione canonica sia sul versante giuridico sia su quello del consolidamento istituzionale, religioso, culturale necessariamente presupposto in tale opera. Nel cap. VII, Dal concilio Vaticano I al dibattito dottrinale (1869-1904), pp. 543-637, si esaminano le richieste degli episcopati; il problema del riassetto delle fonti canoniche e della loro consolidazione, in collezioni e repertori, dopo il concilio tridentino; e le collezioni di canoni dei concili particolari, e – unica fonte di diritto universale – gli atti generali dei papi in una serie di bullarii. E le raccolte private come gli Acta Sanctae Sedis del periodo 1865-1908, cioè prima della raccolta ufficiale Acta Apostolicae Sedis dal 1909; e il prezioso contributo della manualistica e della trattatistica, cioè «il contributo dei Dottori alla preparazione del Codice» p. 563 ss., un mare magnum che l’A. domina con perizia. E si verifica l’estensione del ius commune mediante l’attività sinodale, con l’interessante esame dei concili provinciali e delle conferenze dei vescovi (conventus episcoporum, che realizzano un’azione centralizzatrice rispetto a quella particolaristica che esaltava la collegialità episcopale) e studia l’adattamento tecnico legislativo della Curia romana (pp. 591 ss). Esamina poi il movimento per la codificazione (Progetti privati e scritti programmatici pp. 599- 633) e valuta i presupposti favorevoli per un codice (pp. 634 ss). In un denso capitolo si passa a lumeggiare il contributo del papa Sarto (cap. VIII. La scelta della codificazione e il contributo di Pio X, 1904-1914, pp. 639-689) in uno splendido ritratto del papa legislatore all’interno della sua visione della Chiesa: l’«instaurare omnia in Christo» (il suo motto di Patriarca di Venezia) diviene il punto di partenza per fare della sua opera un tutto organico e che si contempla nel suo interno come dotata di mirabile coerenza nella sua capacità di avvolgere ogni aspetto della Chiesa, dal canto sacro alla teologia alla amministrazione dei sacramenti, alla sua ‘teologia politica’ come venne chiamata, che mira a fare dell’elemento soprannaturale l’unica via di lettura del mondo da parte cristiana. E l’A. mette in luce le apparenti contraddizioni del suo pontificato, qualificandolo come intransigente e insieme duttile ad accogliere strumenti e procedure moderne per utilizzarle anche in modo spregiudicato ai fini della difesa esterna della Chiesa e della sua ricomposizione interna.
9. – Realizzazione dell’opera codificatoria. Segue il grande evento della attuazione dell’opera codificatoria: il passaggio dal tentativo di «nuova compilazione» (come fino allora veniva pudicamente detto) a quello vero e proprio di ‘codificazione’. Qui è la svolta definitiva e senza ritorno. Il cap. IX L’ordine dei lavori del codice (1904-1917): pp. 691-804, tratta del piano dei lavori, della composizione delle commissioni nel ‘triplice ceto’ (cardinali, consultori urbani e extraurbani, collaboratori esterni e revisori), sottolineando la collaborazione dell’episcopato e delle università cattoliche, fa tesoro dei due capitoli dedicati a questi due grandi. Nella IV parte (Chiesa romana e progetto codificatorio [in tre capitoli: X-XII, pp. 805-1062]) si mette in luce l’intento di Pio X di una reformatio iuris in confronto con le idee dominanti nel secolo (cap. X: Le componenti ideologico-culturali del Codice: pp. 807-921): un esame serrato delle tradizioni filosofiche, teologiche e giuridiche, dalla Seconda Scolastica alla Neoscolastica, e dei modelli ecclesiologici (pp. 807- 845). Esamina lo statuto del diritto canonico e delle sue scuole dottrinali (pp. 845- 884), sia di quelle ufficiali della Santa Sede sia di quelle degli ordini religiosi, valutando ampiamente la cultura di questi ultimi. E le correnti ideologiche (pp. 884- 897) da quella dell’utramontanesimo a quella modernizzante a quella integrista. E si sofferma poi sui fattori di coesione culturale che emergono da quella molteplicità (pp. 897-906: ne enumera distintamente 9). E sul ruolo del Gasparri (pp. 906-917); per concludere sullo spirito universalistico della Chiesa di Roma e del suo rapporto con il Codice (pp. 917-921: ove rileva che l’universalismo giuridico della codificazione canonica trova una premessa nell’universalismo della cultura cattolica). E viene confrontato il contributo dell’opera del papa con quella del Gasparri (cap. XI: Due disegni in parallelo: Pio X e Gasparri, pp. 923-986). E, necessaria premessa alla comprensione della svolta decisa dal papa, l’esame degli schemi teorici e dei presupposti ideali che hanno condotto il diritto degli Stati tra il Code Napoléon e il Codice civile svizzero (cap. XII: Due modelli a confronto: Codificazione canonica e codificazioni civili, pp. 989-1062). Bene ha fatto l’A. a sbarazzarsi dei problemi di dettaglio della mera composizione del Codice negli anni 1904-1916 (che tuttavia non sono pretermessi): una fastidiosa analisi di ogni piega di essi ci avrebbe distratto dall’oggetto essenziale della indagine, che affronta la struttura del Codice, la discussione sulla sistematica e le ragioni della opzione sistematica, il metodo di lavoro delle Commissioni. Mirabile è poi la vasta Appendice (pp. 1161-1247) dedicata a Gli uomini del Codex. Elementi prosopografici e statistici, accurata e dettagliata (distinta in: A) Cardinali, pp. 1170-1179; B) Consultori urbani e extraurbani, pp. 1180-1216; C) Collaboratori esterni, pp. 1217-1234; D) Revisori, pp. 1235-1239), con rilievo sintetico di ogni singola figura (di ciascuno un profilo, accompagnato dalle fonti e dalla bibliografia specifica): un prontuario importante di consultazione e una vera acquisizione scientifica allo studio storico giuridico.
10. – Valutazioni finali. Innovazioni nel contenuto e nella forma. Nel grande Epilogo (Il Codex Iuris Canonici fra tradizione e modernizzazione, pp. 1065-1160) le considerazioni della Chiesa con le forme della modernità statuale. Così come negli Stati un codice ha il triplice effetto di statalizzare, accentrare e unificare il diritto, altrettanto nel diritto delle Chiesa la codificazione ha avuto effetti raggruppabili nel trinomio «accentramento giuridificazione romanizzazione»: un forte Accentramento delle strutture della Chiesa e esaltazione del ruolo della gerarchia (pp. 1068-1075); un processo di Giuridificazione (pp. 1075-1082) nel rafforzamento della «concezione societaria» e della «funzione del diritto» nel governo e nella vita sociale della Chiesa; e una certa Romanizzazione (pp. 1082-1085) da intendersi non già in riferimento al diritto romano bensì alla Chiesa romana latina, una ‘latinizzazione’ da porsi in connessione con quanto fece la Chiesa ottocentesca nel processo di latinizzazione, e in una con il livellamento romanocentrico «della liturgia, della catechesi e della pastorale». Ma accanto a tali innovazioni, che potrebbero definirsi quasi scontate (poiché riconducibili all’intento codificatorio parallelo a quello degli Stati), ve ne sono altre importanti che toccano sia i contenuti stessi del diritto sia la forma. Per quelle di carattere contenutistico si ha una ‘Unificazione’ nelle norme, con il superamento del disordine normativo e delle lacune e delle incertezze e contraddizioni dovute a mancanza di organicità nelle fonti di cognizione, nonché di produzione del diritto (nella varietà di legislazioni locali e di decisioni giurisprudenziali di tribunali locali di curia e delle congregazioni nelle migliaia di decisioni conciliari e di singoli dicasteri, ecc.): il Codex mira a obiettivi di «stabilità, certezza, uniformità» (p. 1087). E ne consegue anche un Aggiornamento (pp. 1089-1091): soppressione di norme desuete o di impossibile attuazione, temperamento di talune e inasprimento di altre, adeguamento alle trasformazioni sociali intervenute, con particolare riguardo ai paesi nuovi. I codificatori hanno inteso adeguare le norme alle mutate esigenze della società e degli Stati, nell’intento di concordia (pp. 1091-4) tra diritto secolare e diritto canonico. E il Codex canonico venne lodato nella modernità e semplicità anche rispetto ai codici civili per aver «evitato gli eccessi di ordine teoretico di qualcuno dei codici civili» (E. Carusi, in SDHI. 1 [1935] 461). Le innovazioni nella forma (pp. 1094-1109) – nell’intento di razionalizzare le manifestazioni del diritto e di applicare un dato schema dispositivo – sono una ‘Semplificazione’ secondo il «principio di economia» (il minor numero possibile di enunciati: come già nel Liber Sextus Bonifacio VIII aveva additato): e i codificatori procedettero a un’opera di «compendiarizzazione delle norme». Per cui il codice risulta avere questi caratteri: un aspetto «largamente definitorio» (definizioni e classificazioni) e «ampiamente dottrinale» e «eminentemente pratico» (indirizzato a pastori e studenti); e un «metodo codificatorio» fortemente innovativo: estrazione dalle norme di enunciati generali del diritto vigente per formularli in articoli brevi: con distinzione tra una parte generale contenente metaregole sul rapporto tra ius novum (del Codex) e ius vetus, e una «Sistematica tripartita» secondo l’ordine delle Istituzioni.
11. – Mutamenti nella natura. Più importanti sono i veri e propri mutamenti nella natura del diritto canonico, sui quali viene fatta una riflessione di fondo (pp. 1109- 1129). Due quelle essenziali: da una parte l’«autonomia dalla teologia» e l’assimilazione del paradigma metodologico al diritto statuale, con la «secolarizzazione del diritto»; dall’altra la «spiritualizzazione della sua indole» con accentuazione della funzione pastorale. a) Autonomia e Giuridificazione/Secolarizzazione. L’autonomia dalla teologia porta con sé il fenomeno della convergenza con il diritto secolare, rivendicata dai Consultori nel Regolamento: con la totale assenza di citazioni scritturistiche e patristiche e l’avversione a mettere la professione di fede trinitaria al primo titolo del Codice (p. 1110). Ma tale autonomia produce nei decenni successivi «un fenomeno opposto», la «giuridificazione» di vari aspetti della vita della Chiesa, dalla liturgia alla morale, ai diversi ambiti della vita ecclesiastica; e (con una inopinata confusione tra teologia e diritto) una invasione giuridica nei campi della teologia morale. La liturgia soprattutto venne inchiodata dalle norme canoniche. Nonché il fenomeno della «secolarizzazione del diritto», la tendenza a concepire la legge canonica secondo la concezione positivistica o normativistica e a rappresentare la Chiesa sul modello societario degli Stati; e a trascurare, nella sistematica, i nessi tra concetti giuridici e fondamenti teologicosacramentali. Con conseguenze devastanti: il sistema delle fonti ha privilegiato il diritto scritto su quello consuetudinario (sacrificando tradizione, consuetudine e osservanza di usi, regole non scritte, ecc.) e trascurando l’immenso patrimonio del diritto romano: «I codificatori ritennero che tali elementi non avessero più valore e, oltre a non rinviare più al diritto romano, decisero di concepire il Codice come fonte esclusiva del diritto canonico» (p. 1114). Si spostò tutto il diritto dalla centralità del ius alla centralità della lex (p. 1114) mancando programmaticamente di apertura verso la lex non recepta. Di più!, «l’influenza dei postulati giusnaturalistici moderni ha intaccato la stessa concezione della Chiesa, i cui caratteri giuridicamente qualificanti erano stati ricalcati ... sui parametri istituzionali e giuridici dell’organismo statale moderno» (p. 1115). Mancava ai redattori «un’ecclesiologia vincolante» (p. 1116): e allora il metodo usato è ‘positivistico’, «ordina il materiale giuridico senza ricondurlo a principio o motivare esplicitamente la sua legittimazione teologica» (p. 1117). Il paradosso maggiore è che non ostante il contenuto prevalente del Codice sia costituito dai Sacramenti, tutto il diritto che vi è costruito «non risulta essere, in ultima analisi, un diritto sacramentale»: i sacramenti sono esclusi dal processo di costituzione degli atti e stati giuridici (p. 1118). E la gerarchia è presentata come «un’autorità estrinseca rispetto alla vita dei laici» (p. 1118). Le conseguenze secolarizzanti dell’ecclesiologia sottesa al Codice pio-benedettino erano già state denunciate nel 1911 «con grande acume» da uno dei collaboratori, il gesuita Vermeersch (p. 1119), il quale affermò che i teologi e i canonisti avrebbero dovuto maggiormente insistere sulla differenza tre le due società, che essi amano comparare l’una all’anima e l’altra al corpo, anziché insistere sulla analogia tra la Chiesa e lo Stato. Egli aveva colto il problema. Occorreva mettere a confronto la diversità tra Stato e Chiesa: la diversa origine (pur entrambe voluti da Dio), il diverso ambito di competenze, le differenti modalità del rapporto mezzi/fini, il diverso ordine di rapporti (interiore/esteriore) per cui mentre lo Stato ha un diritto alla costrizione, la Chiesa non può mai costringere alla salvezza; e per la differente ragion d’essere (per lo Stato la felicità temporale, la santificazione soprannaturale per la Chiesa): Stato e Chiesa sono accomunati nel perseguire il bene delle persone, ma con differenza di oggetti, di missione e di termine finale. Lo spostamento dei Codificatori verso una assimilazione tra diritto civile e diritto canonico, con l’esplicito richiamo a imitare i codici delle nazioni civili, era la conclusione di un ecclesiologia che nell’età moderna «aveva dialetticamente accentuato l’aspetto societario e la sua modellizzazione in senso analogico con la società statuale» (p. 1121). b) Spiritualizzazione. A contrario (in realtà a complemento) vi fu una «spiritualizzazione delle norme», categoria coniata da Ulrich Stutz: con la fine dello Stato temporale il diritto canonico «avrebbe perduto la pretesa di affermarsi nella sfera te
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