È un rapporto «singolare» quello fra gli italiani e la Bibbia: intenso e distaccato, ma anche frequente e intermittente, competente e lacunoso. Nessun altro libro è in grado di marcare, nella stessa misura, l'identità personale e sociale degli italiani, e i suoi testi, che hanno ispirato nei secoli l'arte, la letteratura e il cinema, echeggiano un po' dovunque, dai luoghi di culto ai media, dalla famiglia a internet. Opera singolare e ambivalente, pervasiva e al tempo stesso specifica, la Bibbia è un testo «multimediale» che definisce uno scenario, entra nel linguaggio comune, attraversa il sentimento religioso e laico, il sacro e il profano, la destra e la sinistra. Per questo, spesso, sta sullo sfondo, nascosta, quasi invisibile. Al rapporto tra gli italiani e la Bibbia è dedicato il volume, frutto di un'indagine commissionata a Demos & Pi da EDB e dalla Fondazione Unipolis in occasione del quarantesimo anniversario della pubblicazione in Italia della Bibbia di Gerusalemme.
INTRODUZIONE
È un rapporto «singolare» quello fra gli italiani e la Bibbia. Intenso e distaccato, ma anche frequente e intermittente, competente e lacunoso, identificato e lontano, diviso e condiviso: al tempo stesso. Perché la Bibbia costituisce un elemento di comunione e, ancora, distinzione. Dal punto di vista religioso, ma al tempo stesso culturale e sociale. La ricerca condotta da Demos & Pi, per conto di EDB, su un campione ampio e rappresentativo della popolazione, sottolinea questo tratto singolare e, al contempo, ambivalente, della Bibbia. In un Paese dove si legge poco, dove il libro è, ancora, un «bene pregiato», sicuramente raro, è presente dovunque. In (quasi) tutte le famiglie. In (quasi) tutte le case. Oltre otto persone su dieci affermano di possedere in famiglia (almeno) una copia di questa «piccola biblioteca nata nel corso di un millennio» (per usare le parole di papa Benedetto XVI). Naturalmente, possedere una copia della Bibbia, non significa leggerla, né tantomeno conoscerla. Tuttavia, essa, in Italia, non è trattata come un semplice oggetto di arredamento. O come un soprammobile. Circa due italiani su tre dicono di averla letta. In misura quasi eguale: in passato ma anche più di recente. Circa sette persone su dieci, cioè, sostengono di averla consultata, letta o, almeno, di averne sentito recitare (oppure citare) una pagina o un verso nell'ultimo anno.
È, dunque, un'opera nota, approcciata di frequente. Come nessun altro libro. Sicuramente. Perché, di certo, sono molte le persone che hanno letto e magari riletto un testo con attenzione, magari maggiore. Ma non con la stessa continuità e assiduità, nel corso della vita. Nella storia personale e sociale degli italiani. Perché nessun altro libro, o meglio, nessun'altra «piccola biblioteca», è in grado di marcare, nella stessa misura, l'identità personale e sociale degli italiani — e non solo. La Bibbia, l'Antico e il Nuovo Testamento: costituisce un riferimento comune, «sacro», per gran parte dei cristiani. E non solo. Per gran parte dei cattolici. E non solo. È questa pluralità di significati che distingue la Bibbia da altri libri. Questa capacità di unire e dividere. La sua forza simbolica, oltre che pratica. Perché è, sicuramente, tra gli oggetti che accompagnano maggiormente la vita quotidiana. Non solo perché sta in quasi tutte le case. Ma perché i suoi scritti, le sue parole, i suoi testi echeggiano spesso, un po' dovunque.
Chi crede, i cattolici e i cristiani, l'hanno sentita — e continuano a sentirla — (re)citare nei luoghi di culto. Nelle cerimonie religiose. A messa, soprattutto. Ma non solo. Perché i versi e le parole della Bibbia risuonano, con frequenza, sui media. In televisione oppure alla radio. Oppure appaiono citati in qualche articolo, in qualche discorso sui giornali. In rubriche e spazi di contenuto religioso. E non solo. Per questo è un'opera singolare. Perché è pervasiva e, al tempo stesso, specifica. Perché sta sullo sfondo, ma è, comunque, un segno. È dovunque, echeggia dovunque. Ma caratterizza e definisce uno scenario. Il «mondo cattolico», secondo la larga maggioranza degli italiani. Anche se, lo sappiamo bene, la Bibbia non è patrimonio esclusivo dei cattolici, ma dei cristiani, in generale. E, per quel che riguarda l'Antico Testamento, anche degli ebrei. È, cioè, il Libro, la Biblioteca della civiltà ebraico-cristiana. In senso più ampio: della civiltà occidentale. Come tale, conosciuto e ri-conosciuto non solo dai credenti, non solo dai praticanti, ma da tutti. Non per caso, circa tre su quattro, fra i non credenti e i non praticanti, ne possiedono una copia. E, tra loro, oltre due su dieci l'hanno letta. La stessa misura di chi, fra i credenti e i praticanti, afferma di non averla letta. Allo stesso modo, l'orientamento politico conta in modo limitato, fra chi possiede e legge la Bibbia. Da destra a sinistra: non si rilevano grandi differenze. E, non per caso, una larga maggioranza degli italiani ritiene che la si debba studiare, comunque analizzare, anche nelle scuole.
In altri termini, la Bibbia è un'opera che attraversa il sentimento religioso e laico, il sacro e il profano. Destra e sinistra. Ed è entrata nel senso e nel linguaggio comune. Al di là dei testi e dei contesti che esprime.
Tanto che esiste una componente non irrilevante che confonde i confini del messaggio biblico con quelli della tradizione sociale. Al punto da considerare di provenienza biblica proverbi e detti di provenienza popolare. Come quello, notissimo e, certamente, non evangelico: «Mogli e buoi dei paesi tuoi». Oppure citazioni in parte corrette, ma deformate, come: «Beati gli ultimi se i primi son prudenti».
La Bibbia, è, dunque, percepita e utilizzata da gran parte degli italiani in modo, perlopiù, non letterale. Tanto meno «dogmatico».
D'altronde, il grado di competenza biblica che emerge dalla ricerca è ampio, ma non generalizzato. E riflette, in misura maggiore, il livello di istruzione, di attenzione ai temi della cultura e delle religioni, piuttosto che l'appartenenza ecclesiale. L'adesione «fedele» e la partecipazione all'associazionismo cattolico e cristiano. D'altra parte, secondo la maggioranza degli italiani, al di là della professione di fede, ma anche del livello d'istruzione, la Bibbia propone testi «difficili». Complessi. Che vanno interpretati. Mediati attraverso la lettura e l'esegesi di «specialisti» perlopiù i sacerdoti. Tuttavia, come si è detto, la Bibbia è, al tempo stesso, un testo multimediale, come sottolinea la molteplicità dei canali attraverso cui è comunicato. Dalla messa alla famiglia, dalla lettura ai mass media, fino a internet (mediante apposite app). D'altronde, i personaggi e le «storie» della Bibbia hanno ispirato la «storia>, dell'arte. La pittura, la scultura, la narrazione, la cinematografia: attraverso i secoli.
Per questo, ancora e — tanto più — oggi, è, sicuramente, in grado di essere trasmessa e riproposta attraverso linguaggi diversi. Per lo stile e per la «parola» che la caratterizzano. Come ha sottolineato, con particolare efficacia, il cardinale Gianfranco Ravasi: «Cristo per comunicare ha già usato la televisione e i rweet. Come? Con sceneggiature vere e proprie, tipo quella del figlio prodigo "che fugge, mangia coi porci, se la gode con le prostitute, poi torna". E con immagini folgoranti, capaci di entrare perfettamente nei canonici 140 caratteri».
Da ciò la «singolarità» e, al tempo stesso, la grande «accessibilità» della Bibbia. Che quasi tutti gli italiani possiedono e, in grande maggioranza, hanno incontrato, letto e, soprattutto, ascoltato, nel corso della loro vita e, perfino, nell'ultimo anno. Magari in modo occasionale, oltre il perimetro dei luoghi di culto e delle sedi religiose. Al di là della professione e della pratica di fede. È un testo, una somma e un insieme di testi, che si confondono con la realtà sociale e con la vita quotidiana. Ma che — questa è la loro singolarità — definiscono e «specificano» la nostra civiltà. Dove «non possiamo non dirci cristiani». Per riprendere le — ben note — parole di un laico, come Benedetto Croce, nel 1942. Così, la Bibbia diventa il marchio di un'appartenenza di fede definita e, al tempo stesso, di una cultura più ampia. A livello territoriale e sociale. Il segno di un'identità «divisa» ma anche «con-divisa». Per questo è dovunque. Per questo, spesso, sta sullo sfondo, nascosta, quasi invisibile. Ma, talora, appare e riappare. In modo evidente. Soprattutto in questi tempi, per reazione al confronto con altre religioni, «esibite», anche nel nostro mondo, da persone immigrate, sempre più numerose. Ma, anche per rispondere alla minaccia, forse più insidiosa, prodotta dalla «secolarizzazione», veicolata dal consumismo globale.
Anche per questa ragione, la dimensione comunicativa, aperta, plurale della «biblioteca biblica» ha largamente superato, oserei dire, assorbito quella religiosa. Il «distintivo cristiano», per citare una formula cara al filosofo Romano Guardini, è divenuto un distintivo «nazionale».
Anzi: europeo. Occidentale. Per marcare il proprio specifico culturale al tempo della «mondializzazione».
Da ciò il carattere universale della Bibbia, sottolineato da questa indagine. Che ne riflette la capacità di innovarsi e di riprodursi di continuo. Adattandosi ai cambiamenti della civiltà, dei linguaggi, dei costumi, degli stili di vita e di comunicazione. Da ciò, però, anche un rischio. Anzi, «il» rischio. Che tanta flessibilità, finisca per ridurne la capacità di generare riconoscimento. Che l'eccedenza plastica della Bibbia, che tutti possiedono, tutti frequentano e tutti incontrano, attraverso i media più diversi, al di là di ogni confine di fede e credenza, ne possa ridimensionare, se non neutralizzare, la forza distintiva. La capacità di essere un «distintivo». Che ci permetta di comunicare, ma anche di definirci. Di tracciare confini fra noi e gli altri. Di marcare la nostra «differenza», anche senza affondare nell'indifferenza. Ma la Bibbia, come abbiamo visto, è «geneticamente ibrida». Condivisa da religioni diverse. Evoluta nel corso del tempo. Così, può costituire un importante veicolo di «comunicazione». Perché viviamo tempi «ibridi», dove è utile, anzi, necessario, diventare «ibridi», per affrontare e governare i cambiamenti. A condizione, però, di riuscire a comprendere e a far comprendere chi siamo. Agli altri. E a noi stessi.
A condizione, dunque, che questa «Bibbia diffusa», fra gli italiani, non indichi — e riproduca — una religiosità invisibile. Prét-à-porter. Che crea il nostro «Dio personale». Ma non può promuovere un territorio comune e comunitario. Né valori universali. Al massimo, una rete di «individui individualisti» e, in fondo, soli.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
Il significato della parola
Il concilio Vaticano II segna un evento fondamentale per la diffusione e lo studio della Bibbia. Il suo valore scientifico si è esteso sia tra gli studiosi che tra i fedeli. Oggi è vista soprattutto come un'opera letteraria. È considerata il libro più importante che sia mai stato scritto: il più antico, il più tradotto e il più diffuso al mondo. Tuttavia «pochi» italiani conoscono il significato etimologico della parola Bibbia.
Biblìa, questa sconosciuta
Dalla ricerca emerge che solo il 19% degli intervistati attribuisce alla parola Bibbia l'esatto significato di «libri», che deriva dal greco biblìa (piccoli rotoli). Nel medioevo, il plurale greco si trasforma in femminile singolare: «la Bibbia», e così arriva fino ai nostri giorni. Un unico volume che comprende una raccolta di 73 libri differenti l'uno dall'altro, per epoca, stile di scrittura e contenuto.