Una Chiesa di popolo
-La parrocchia nel Vaticano II
(Biblioteca di teologia dell'evangelizzazione)EAN 9788810450079
A cinquant’anni dall’indizione del Concilio la parrocchia appare ancora un soggetto debole, segnato da un deficit di riflessione teologica non compensato dalla recente attenzione pratica, dovuta alla ristrutturazione della presenza ecclesiale sul territorio. Ma questa identità debole potrebbe oggi costituire uno dei suoi punti di forza, a patto che la logica amministrativa sia abbandonata a favore dello spazio di esercizio della comunione. Concepite per coloro che si riconoscevano dentro la Chiesa, ora le parrocchie sono chiamate a ripensarsi missionariamente e a ritrovare la capacità di trasmettere la fede anche a chi si trova nelle regioni del dubbio e della lontananza.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 6
(http://www.ilregno.it)
I vescovi italiani, parlando dell’importanza della parrocchia nella vita ecclesiale e dedicando una nota pastorale dal titolo Il volto missionario delle parrocchie (2004) dentro il piano decennale su Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, hanno riservato un’attenzione particolare a questo tema, riservando a esso anche due assemblee. In esse hanno voluto fornire indicazioni sulla figura della parrocchia, sui tempi che cambiano e, sollecitati da nuove sfide, ne hanno rilanciato la forza e la valenza pastorale.
Nella nota pastorale si legge che la parrocchia «è nata come forma della comunità cristiana in grado di comunicare e far crescere la fede nella storia e di realizzare il carattere comunitario della chiesa, e ha cercato di dare forma al Vangelo nel cuore dell’esistenza umana […]. Con la sua struttura flessibile, la parrocchia è stata in grado, sia pure a volte con fatica, di rispondere alle trasformazioni sociali e alle diverse sensibilità religiose» (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 4).
Su queste tematiche e su questo sfondo ecclesiale si apre la ricerca di Giampietro Ziviani, che si chiede se la parrocchia «presa dentro le grandi coordinate del mutamento sociale ed ecclesiale, definita scelta storica e scelta pastorale, riveste o meno allora un interesse teologico specifico? Si tratta solo di una struttura di mediazione, regolata da norme amministrative eventualmente da aggiornare o da adattare per renderle efficaci e adeguate ai tempi?». L’autore subito precisa che il suo studio «si propone di mostrare che vi è un nucleo fondante della parrocchia, un filo rosso che parte dal Concilio e non si è mai interrotto, attorno al quale si modulano tutte le altre caratteristiche: appunto, il fatto che essa sia la forma storica privilegiata della localizzazione della chiesa particolare» (pp. 30-31).
Pur restando la parrocchia un interesse laterale del Concilio, grazie all’impulso di questo essa è venuta trasformandosi da istituzione amministrativa a figura pastorale, soggetto missionario attivo, non con un formale ripensamento della sua presenza e della sua azione, ma piuttosto mediante la ridefinizione dei suoi elementi vitali e della fisionomia dei suoi protagonisti.
Il saggio si articola in quattro capitoli: il primo, dal titolo Fare teologia sul Vaticano II. Le questioni delle fonti storiche, introduce la questione metodologica dell’ermeneutica del Concilio; il secondo, dal titolo La parrocchia alla vigilia del Concilio. I vota dell’antepreparatoria, propone uno spaccato delle attese dell’episcopato all’inizio dell’evento conciliare; il terzo, La parrocchia durante il Concilio. Gesti e testi conciliari, persegue la ricerca dell’argomento della parrocchia lungo il maturarsi graduale ma deciso della coscienza conciliare dei padri; si chiude con il capitolo quarto, Una chiesa in forma di popolo, dove si affronta il problema controverso dell’obsolescenza della categoria di popolo di Dio e la sua sostituzione con quella di comunione.
La ricerca fa emergere il ruolo del Concilio Vaticano II non solo come un corpo di documenti magisteriali, ma anche come un processo storico di attenzione alla parrocchia, che inizia con i voti dei padri conciliari della fase antepreparatoria e si conclude con la recezione dell’ecclesiologia conciliare. Anche in assenza di una volontà di trattazione organica, le indicazioni che l’autore fa emergere non sono affatto secondarie e offrono interessanti e importanti elementi per una esplicita coscienza che il Vaticano II attribuisce al soggetto-parrocchia, ai suoi protagonisti e alle azioni che la determinano.
Il tema della parrocchia come figura emblematica della chiesa locale consente di seguire il travaglio ecclesiologico attraverso cui è passato il Concilio. La ricerca di Ziviani si presenta pastoralmente feconda: da suddivisione amministrativa, la parrocchia è divenuta figura pastorale della chiesa, nel bene e nel male.
A cinquant’anni dall’indizione del Concilio la parrocchia appare ancora un soggetto debole, segnato da un deficit di riflessione teologica non compensato dalla recente attenzione pratica, dovuta alla ristrutturazione della presenza ecclesiale sul territorio.
Ma quest’identità debole potrebbe costituire uno dei suoi punti di forza, a patto che la logica amministrativa sia abbandonata a favore dello spazio di esercizio della comunione. Concepite per coloro che si riconoscevano dentro la chiesa, ora le parrocchie sono chiamate a ripensarsi missionariamente e a ritrovare la capacità di trasmettere la fede anche a chi si trova nelle regioni del dubbio e della lontananza.
L’elaborazione del Vaticano II porta al riscatto del senso teologale della parrocchia, la sottrae alla comprensione amministrativa e funzionale del periodo preconciliare, con l’enfasi sul territorio (in senso prevalentemente geografico) e sancisce la posizione strategica della parrocchia nella cura animarum. Anche se l’autore non attribuisce al Vaticano II una “teologia della parrocchia”, certamente a partire dall’immagine della chiesa locale appare chiaro e legittimo il procedimento di tracciare le linee portanti con cui quest’immagine si realizza quodammodo nella cellula base della chiesa.
«La chiesa locale e la parrocchia (aliter et aliter) non sono una parte del tutto, ma sono la parte nel e per il tutto: l’incontro e l’unità degli uomini con il mistero di Cristo. Questa immagine teologale della parrocchia in controluce è il frutto più bello della ricerca» (dalla Prefazione di monsignor Brambilla, p. 12).
Lo studio termina con una ripresa del tema nel periodo postconciliare, seguendo il problema più controverso dell’ecclesiologia successiva, e cioè l’obsolescenza della categoria di popolo di Dio e la sua sostituzione con quella di comunione quale chiave di volta della comprensione della chiesa. L’autore sostiene la pertinenza della categoria di popolo di Dio per dire l’unità di mistero e soggetto storico della chiesa rispetto alla categoria di comunione. L’uso “sostitutivo” della categoria di comunione rispetto a quella di popolo di Dio corre il rischio di far perdere la dimensione storica della chiesa, omologando l’esperienza ecclesiale alle forme della religiosità postmoderna, con appartenenze deboli e spiritualismi esangui.
«Di fatto l’oblio della riflessione sul popolo di Dio è coinciso con quello che ha riguardato la parrocchia, entrambi divenuti soggetti sempre più impliciti e scontati. L’intento è quello di rilanciare questa categoria, che nell’attuale contesto può trovare una nuova e migliore realizzazione, giovando alla ripresa dell’ecclesiologia conciliare, corrispondendo alle caratteristiche delineate per la parrocchia e offrendo possibili piste per il suo rinnovamento» (dalla Prefazione, p. 33). La ricerca, quindi, approda alla considerazione che la parrocchia rimane un soggetto debole nella riflessione e nel dibattito conciliare. Sarà un’attenzione riflessa che poi influenzerà non poco l’analisi teorica e pratica, condizionando il cammino successivo della fase postconciliare.
Si può dire sicuramente che il passaggio della parrocchia da istituzione amministrativa a soggetto attivo delle vita pastorale e ecclesiale, si è avuto non attraverso una riflessione sistematica, che ripensava la sua azione e la sua opera, bensì attraverso la ridefinizione dei suoi elementi vitali e della fisionomia dei protagonisti. Dallo studio storico di elementi e discussioni conciliari, l’autore può affermare che «la soggettività comunitaria è emersa come primo dato evidente, di enorme portata, che abbraccia le grandi dimensioni della vita ecclesiale (liturgia, annuncio, carità) e domanda una presa in carico teologica e pratica insieme» (p. 269).
Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che tutti i cambiamenti passano e iniziano dall’avere sogni comuni, eventi ideali e reali che motivino tutti e offrano, poi, indicazioni alte rispetto alle emergenze e ai problemi contingenti. Per questo la riflessione sulla parrocchia non è solo questione di metodo, ma è elemento fondante che interpella il cristianesimo che vogliamo costrui re, a partire dalle sue sorgenti nell’unica prospettiva di vivere significativamente il vangelo oggi.
La parrocchia sempre più è il luogo dove le persone sono aiutate nel loro cammino di umanizzazione dalla fraternità cristiana e dalla proposta di fede. Per questo l’autore può affermare e delineare in maniera chiara un orizzonte su cui concentrare il profilo della parrocchia nei nostri contesti, cioè il tenere insieme dimensione umana e divina: «questo livello di base contiene una certa elementarità, poiché deve essere accessibile a tutti, capace di instaurarsi dovunque e costituito dalle azioni fondamentali, che sono la capacità di far incontrare l’amore di Dio e la vita degli uomini» (p. 274).
Dalla ricerca emergono, infine, elementi che vale la pena sottolineare e rimarcare per dare binari e contenuti teologici e pastorali su riflessioni successive, ma che trovano già fondamenti stabili nel Concilio. Sono acquisizioni irrinunciabili e posizioni da mantenere, anzi da rinforzare. Esse sono: la teologia della chiesa locale, una delle grandi scoperte del Concilio, che forse, non ha prodotto le conseguenze dovute; il secondo elemento è quello del territorio, inteso come luogo antropologico, ricchezza e sfida per la parrocchia; inoltre la natura missionaria della chiesa e, infine, il tema della sinodalità.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2011
(http://www.pftim.it)
“La parrocchia resta la comunità normale del cristiano”, scriveva nel 1953 J. Hamer, un periodo in cui il tramonto della cristianità non l’aveva ancora veramente intaccata. Da allora è passato molto tempo, sono cambiati il mondo e il modo di concepire la pastorale, c’è stata la crescita di altre forme di convivenza ecclesiale, e si sono organizzati studi e convegni, dove la parrocchia, a volte un po’ ingenerosamente, è stata bersaglio di critiche, considerata vecchia, superata, tridentina, inadatta ad affrontare le sfide della modernità. Le sue reazioni sono state di rinchiudersi in se stessa, limitandosi a conservare l’esistente, o di riorganizzarsi in forme più dinamiche. In ogni caso, nel bene e nel male, essa è ancora lì dove la situavano le parole di Hamer: la parrocchia rimane la via normale con cui il cristiano normale entra in contatto con la Chiesa; quella di cui tutti i battezzati fanno parte e tramite la quale sono incorporati alla Chiesa, locale e universale. Questa sua stessa resistenza è perlomeno singolare.
Ma dal 1953 a oggi c’è stato soprattutto il Concilio Vaticano II. Libri che si ispirano al progetto conciliare e che dicono cosa debba fare la parrocchia per aggiornarsi e stare al passo con i tempi, non mancano. Tuttavia se ci si chiede, più concretamente, come la parrocchia ha attraversato il Concilio e che cosa esso ha veramente detto o non detto su di essa, non sempre le risposte sono così immediate. Questo vuoto è ora ricoperto dallo studio di G. Ziviani che, con piglio quasi sistematico, da storico e non solo da teologo, narra la vicenda-parrocchia nel periodo immediatamente pre, in e post-conciliare, permettendo un colpo d’occhio su tre fasi strettamente intrecciate tra loro. L’obiettivo, oltre a far emergere un proprio modo di vedere le cose, è di favorire la ricezione conciliare in un settore ancora strategico della vita ecclesiale. Più che raccogliersi intorno al capezzale di un ammalato grave, si tratta di contribuire a superare la transizione, nella convinzione di trovarsi in “un passaggio epocale” che impone nuove scelte.
Il saggio non esplora il tema in modo scolastico, ma dà spazio alle sue molteplici implicazioni, offrendo materiale per riflettere su: strutture, ambienti, problemi giuridici e disciplinari, territorio, missione, vita dei soggetti, dai parroci ai viceparroci e ai laici. Si notano però diverse “uscite dal seminato”, alcune delle quali si adattano all’oggetto della ricerca, come il coinvolgimento delle parrocchie nella preparazione del Concilio; la citazione per esteso degli interventi di due parroci “invitati” al Concilio, che meritano di essere letti (168-172; 193-197); il racconto di alcune figure simboliche di parroco della Chiesa italiana (Mazzolari, Milani, Bevilacqua). Altre danno invece l’impressione di leggere due libri in uno: il primo che tratta questioni storiche ed ermeneutiche che animano il dibattito odierno sul Concilio, il secondo dedicato alla parrocchia. La lettura di queste parti sarà comunque utile allo studioso che si occupa di contenuti perché, in ogni caso, quando si vuole fare un’indagine sui testi, occorre avere gli strumenti giusti per farlo.
L’autore non lo dichiara, ma ciò può essere pure una prova indiretta del fatto che, in fondo, il tema “parrocchia” nel Vaticano II non era in grado di dare corpo a una ricerca quantitativa, e forse qualitativa, sufficiente per un saggio monografico. Sul Concilio si dà un primo ragguaglio nella meditata introduzione, scrivendo: «Dire sbrigativamente che il concilio non ha parlato della parrocchia o risolvere la questione applicando a questo soggetto l’ecclesiologia di comunione è la via più comunemente seguita e che contiene degli aspetti di verità, ma si può percorrere anche un’altra strada: verificare meglio il primo asserto e, se confermato, capire le motivazioni di questo apparente disinteresse» (28). La seconda strada è ovviamente quella che l’autore intende intraprendere, riconoscendo al Vaticano II un progetto più implicito che dichiarato della parrocchia, ma non per questo meno espressivo per il cambio culturale ed ecclesiale in atto. Un angolo particolare è riservato alla parrocchia italiana.
Il secondo capitolo entra nel vivo con l’interessante risoluzione di dare uno sguardo al prima dei vota della fase antepreparatoria. L’interesse deriva dal fatto che di solito si dà poco spazio a questa documentazione, mentre la sua analisi potrebbe dare un notevole contributo alla comprensione dello stesso Concilio. Ziviani analizza una notevole quantità di testi, confermando quella che è l’impressione immediata di chi accosta anche solo marginalmente questi desiderata, e cioè che essi non lasciano per niente immaginare quelli che in realtà sarebbero stati i temi portanti dell’impresa conciliare. Come ciò sia avvenuto, e cosa abbia prodotto un tale cambiamento o “conversione” degli stessi protagonisti che poi hanno costruito il Concilio, sono interrogativi ai quali gli storici non hanno ancora dato sufficiente risposta. Nell’insieme emerge uno spaccato di Chiesa o, come dice meglio il titolo del capitolo, il volto della “parrocchia alla vigilia del concilio”.
Nell’elenco di questi vota troviamo temi che oggi farebbero sorridere, come le petizioni universali di abrogare l’inamovibilità dei parroci e l’esenzione dei religiosi; ma anche quelle di concedere maggiore autorità ai parroci sui viceparroci o, al contrario, di difendere i viceparroci dallo strapotere dei parroci. Non mancano postulati più dinamici, come l’idea di proporre la vita comune al clero impegnato in parrocchia, di provvedere meglio all’assistenza dei sacerdoti anziani, di distribuire le risorse, umane e territoriali; più innovativi, come la domanda di ripristinare il diaconato permanente; e più pastorali, come l’apertura ai laici. L’autore distribuisce il materiale per zone geografiche, permettendo di “tastare il polso” delle varie situazioni e di dare corso al modo in cui ogni episcopato andava ponendosi di fronte alla novità conciliare. Del gruppo polacco si riporta la proposta dell’allora giovane K. Wojtyla, favorevole a un maggior avvicinamento dei laici, da non considerarsi «un oggetto nella cura delle anime, ma piuttosto un soggetto cooperante» (91).
La massiccia presenza di richieste giuridiche e amministrative è un indice efficace dell’ecclesiologia di allora e della pastorale intesa come azione esclusiva del parroco, con i suoi diritti e doveri. Tuttavia, leggendo tra le righe, si nota che qualcosa stava incrinandosi nel modello classico. L’apertura a nuove proposte, come il progetto della Mission de France, l’idea della pastorale d’ensemble e un’attenzione maggiore ai problemi delle persone, indicano che stava facendosi strada il disegno di una parrocchia meno statuaria e più mobile, centro di vita ecclesiale e non solo di servizi cultuali. In ogni caso ne esce un panorama solido e tutto sommato positivo della sua organizzazione perché, a meno di credere a un totale distacco dei vescovi dalla situazione reale, se non se ne parla molto in termini diretti è perché la parrocchia, come riconosce lo stesso Ziviani, «sostanzialmente funziona, adempie gli scopi per cui è nata, pur nella diversità delle singole situazioni» (123).
È una legge psicologica, non si cercano rimedi per qualcosa che si dà per scontata e che si pensa andare bene. Ciò può spiegare perché il Concilio parla così poco della parrocchia? In realtà lo ha fatto anche dei preti e non si può dire che questa compagine allora non stesse già annunciando l’inizio di una crisi profonda. Per rispondere adeguatamente a queste e altre domande è necessario entrare nella dinamica del dibattito conciliare e, per ciò che riguarda questa recensione, leggere il capitolo terzo del saggio, che è il più voluminoso e quello che accompagna il lettore durante il cammino conciliare sulla parrocchia, dalla fase preparatoria alla sua conclusione. Il materiale è diviso in ordine storico seguendo i quattro periodi conciliari. È una scelta versatile che permette di seguire contemporaneamente gli interventi dei padri e i contenuti dei documenti che vanno via via pubblicandosi, unitamente alle singole attese e alla presa di coscienza collettiva dell’argomento.
Nel primo periodo si osserva già il dislivello del linguaggio e dello spessore teologico dei discorsi rispetto ai vota, dove “stupisce” la pronta recezione della svolta pastorale imposta da papa Giovanni all’apertura del concilio, Gaudet mater Ecclesia. Nel secondo periodo sale di livello anche la considerazione della parrocchia, che il saggio si appresta a considerare nell’esplicito e nell’implicito di temi collaterali non distanti dal suo modo di essere o di dover essere. Così la Sacrosanctum concilium consente di commentare riferimenti diretti come il n. 42, che dà la prima definizione descrittiva della parrocchia, unendola al ministero del vescovo e dicendo che essa «rappresenta in certo modo (quodammodo) la Chiesa visibile su tutta la terra» e, al tempo stesso, di affrontare il tema della partecipazione liturgica, che promuove il protagonismo di tutti i fedeli modificando il quadro relazionale di una parrocchia. Il quodammodo diventa una sorta di avverbio chiave del lessico parrocchiale, che apparirà anche in altri contesti.
Se la prima Costituzione accosta il tema per via liturgica, nella Lumen gentium è invece «l’intera ecclesiologia, nei suoi elementi di novità come in quelli di continuità, a contribuire al delinearsi del volto nuovo della parrocchia» (177). La Costituzione non ha nel suo vocabolario il termine “parrocchia” e l’autore deve procedere per “analogia”, focalizzando il locus theolo gicus della Chiesa locale diocesana, comunque indizio di una precisa scelta. Il testo più esplicito è il n. 28, dove risuonano le due denominazioni di «singole comunità di fedeli» e di «porzione di gregge», ritenute significative perché consentono una riflessione sulla possibile esistenza di forme diverse di comunità, e del territorio “come una caratteristica che apre, piuttosto che chiudere”. La costante preoccupazione di collegare la parte al tutto, conduce i padri conciliari a percorrere una duplice relazionalità: della parrocchia alla diocesi e del prete al vescovo, riconoscendo però a questi ultimi di formare un unum presbyterium, in modo da condividere la sollecitudine pastorale.
È la volta del quarto periodo, quello dell’approvazione di vari decreti che l’autore giudica “applicativi” rispetto alla natura e alla missione della Chiesa disegnate nelle grandi costituzioni. Qui pure si colgono pochi riferimenti che tuttavia, a parere di chi scrive, risultano più vivaci e incisivi dei precedenti. Da notare l’informazione storica su alcune scomparse della parrocchia nel testo della Christus Dominus, a conferma del fatto che il concilio intendeva rafforzare il ruolo della diocesi. Tuttavia questo decreto ha anche tre articoli espliciti sui parroci (n. 30) e sulla parrocchia (nn. 31-32). A essi si dedica un paragrafo a parte, con il richiamo ad alcuni concetti “nuovi” che potrebbero aprire un vasto campo alla ricerca, come quello del parroco pastor proprius, o della communitas paroecialis, che fa diventare il parroco «soprattutto il coordinatore della pastorale locale piuttosto che il protagonista unico di essa, perché la preoccupazione primaria non è di conservare e ottimizzare l’esistente, ma di aprirsi alla dimensione missionaria» (201).
L’attenzione ai soggetti si precisa con l’esame della funzione dei presbiteri nella Presbyterorum ordinis e dei laici nell’Apostolicam Actuositatem, dove al n. 10 troviamo la non celebre dichiarazione che «la parrocchia offre un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si trovano e inserendole nell’universalità della Chiesa», e la sua più celebre definizione di «cellula della diocesi (velut cellula)», di mazzolariana memoria. Segue la considerazione dell’Ad gentes che, pur avendo un solo riferimento esplicito alla parrocchia (se ne potrebbero riconoscere altre due), consente di riflettere sulla sua dimensione ecclesiale e missionaria. Il n. 37 del decreto scrive: «Poiché il popolo di Dio vive nelle comunità, specialmente diocesane e parrocchiali, e in esse in qualche modo appare in forma visibile, tocca anche a queste comunità testimoniare Cristo di fronte alle genti».
Alle pagine 229-232, Ziviani tira le somme della sua ricerca. Riconferma che la parrocchia non può essere valutata come uno degli obiettivi primari del Vaticano II, che la sua terminologia piuttosto oscillante risponde all’intento di aprirsi a forme nuove, ma che è comunque possibile cogliere un dato originale unitario: «La parrocchia non è una struttura di servizio per la cura delle anime, bensì una comunità-soggetto, che contiene la forza e gli elementi della propria esistenza, collegandosi con il tutto della Chiesa locale» (230). Ciò spiega il titolo del volume e il senso dell’ultimo capitolo, dove l’autore si concede un’ampia divagazione giudicando severamente l’abbandono della categoria conciliare di “popolo di Dio” a vantaggio di quella di “comunione”. È un fuori onda finalizzato a dimostrare che lo spostamento ha «nuociuto anche alla valorizzazione e alla crescita della parrocchia» e che «la questione non è solo una querelle dell’ermeneutica conciliare, ma riguarda anche la riflessione pratica, in cerca sempre delle vie più adeguate attraverso le quali la Chiesa possa agire e realizzarsi» (275).
Il rapporto causa-effetto non appare, però, così evidente, nonostante il paragrafo conclusivo dedicato al dopo Concilio, che vuole fornirne la prova, parlando della “lunga dimenticanza” della parrocchia nel magistero postconciliare. È proprio così? Il calore con cui l’autore difende la sua tesi, ritenendola pregiudicante per il futuro e la crescita della parrocchia merita attenzione e successivi dibattiti. Si possono senz’altro sottoscrivere alcuni punti, soprattutto il distacco storico, rilevando, comunque, che la nozione di popolo di Dio, come quella di comunione, non compariva nel periodo preconciliare, mentre la parrocchia sembrava funzionare. Questo significa che non è solo una questione di categorie. Inoltre, anche la Chiesa comunione non è estranea alle idee sostenute, come quella delle comunità-soggetto, e bene fa l’autore a porre l’accento sulla complementarietà più che sull’alternativa. Se invece con questa tesi si vuole denunciare l’azione fagocitante dell’ecclesiologia di comunione rispetto alle altre denominazioni ecclesiologiche, non si può che essere completamente d’accordo.
Si deve riconoscere a G. Ziviani di aver scritto un libro intelligente, che non è il solito ricettario corredato di citazioni conciliari, ma un cammino guidato nei testi ufficiali e meno ufficiali, nella cronaca, nei gesti e nei dibattiti del Concilio. Essi hanno permesso di disegnare una coscienza conciliare della parrocchia e di conoscere il Vaticano II più da vicino. Ciò ha comportato la registrazione di luci e ombre, ma è servito soprattutto a riscoprirne la soggettività comunitaria della parrocchia, contribuendo a far comprendere che la fedeltà al Concilio si gioca anche in questo suo modo di vedere le cose. Il valore ecclesiologico è indiscutibile, ma si è anche dimostrato che la parrocchia non è giunta al capolinea e che è l’ecclesiologia ad aver bisogno di essa e non solo il contrario. Il reciproco scambio fa che la parrocchia porti in sé la realtà complessa della Chiesa e viceversa, e che essa lancia ancora molte altre sfide alla pastorale odierna. Viverla come “la comunità normale del cristiano” può essere una di queste.
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2013
(http://www.pul.it)
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