Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità
-[volume 2]
(Nuovi saggi teologici)EAN 9788810405895
L’opera, organizzata in 2 voll., è il punto più avanzato del pensiero del grande teologo. Egli propone una definizione e un ruolo del cristianesimo, nonché una discussione sul senso del fare teologia all’interno della modernità. Finora Chiesa e teologia hanno pensato la fede come un contenuto da trasmettere: modello che ha funzionato positivamente nelle società tradizionali. La modernità e la postmodernità hanno tuttavia introdotto delle trasformazioni interne all’identità cristiana che non riguardano più qualche punto della sua dottrina ma, più radicalmente, la sua stessa forma. Theobald manifesta un approccio alla tradizione cristiana in cui la categoria dello stile esprime al contempo il contenuto e la forma della fede in quanto principio regolatore della presenza del cristiano nel mondo. Le sue pagine vivono del fascino e della difficoltà di coniugare assieme il concetto di stile e l’identità cristiana, nella consapevolezza che definire il cristianesimo come stile comporta sia una riflessione epistemologica sul modo di fare teologia, sia una diagnosi teologica del momento attuale.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 18
(http://www.ilregno.it)
Il noto teologo e gesuita tedesco, docente al Centre Sèvres di Parigi, propone in questo 2o vol. (per il 1° cf. Regno-att. 18,2009,615) il completamento del percorso sullo «stile» con la parte dedicata a «Leggere le Scritture da teologo», sul tema del cristianesimo come religione dell’interpretazione e quella dedicata al «Cristianesimo come stile », suddivisa in «Credere in Dio...», «...nellla Chiesa...», «...situata nell’apertura messianica della creazione...».
Tratto dalla rivista Il Regno n. 22 del 2009
(http://www.ilregno.it)
Un’opera davvero ampia ed articolata – talvolta persino disorientante nella sua ricca complessità – nella quale trova espressione la riflessione di uno dei teologi più originali di questi anni. C. Theobald, gesuita (un elemento di notevole rilevanza anche per il profilo del suo pensiero), docente di teologia fondamentale e dogmatica al centro Sevres di Parigi, capace di attraversare una varietà di saperi per una riflessione dalla nitida caratura teologica. Un testo che intende porsi come riflessione in primo luogo metodologica, per porre al centro la rilevanza dello stile di vita dei cristiani in ordine alla riflessione teologica su ciò di cui essi vivono; per focalizzare il rapporto imprescindibile tra il contenuto dell’annuncio e la forma dell’essere di chi lo presenta. Non si tratta, però, semplicemente di una corretta – ma in fondo anche scontata – perorazione per la coerenza della prassi rispetto alla fede. Ciò che interessa qui è piuttosto la percezione - nella forma di vita di Gesù e di coloro che si pongono alla sua sequela – di alcuni elementi qualificanti che orientano il pensiero della fede (oltreché, naturalmente la stessa prassi).
È quanto si può cogliere in modo particolarmente incisivo in quell’ampia sezione dell’”Ouverture” che è dedicata all’esame della “concordanza tra il contenuto e la forma” nella persona di Gesù di Nazaret (p.46) – uno snodo qualificante per la riflessione di Theobald, sulla quale ci soffermiamo in qualche dettaglio. Un’esperienza che ci giunge attraverso scritti (essi stessi bisognosi di un’ermeneutica attenta al rispettivo stile), in cui trova espressione soprattutto il “tipo di relazione che egli intrattiene con coloro che incrociano il suo cammino” (p. 48), quell’evento di conversione/svelamento che la sua presenza produce in essi e che gli stessi scritti mirano a rendere accessibile aldilà della sua presenza storica. L’attenzione si concentra, dunque, sulla relazionalità di Gesù, in cui scopre una “santità ospitale”che apre uno spazio accogliente per l’altro, che gli consente di “scoprire la propria identità più vera” e “accedervi a partire da ciò che già [lo] abita in profondità” (p. 52) tramite ciò che diciamo fede. Si manifesta qui uno “splendore che non abbaglia ma si rende discreto al punto da ritrarsi” per suscitare e rivelare in ognuno “lo stesso elementare di vita chiamato fede” (p.60), guarendo la cecità di chi lo incontra. In tale dinamica Gesù appare, dunque, caratterizzato da uno stile di apprendimento e di ascolto, radicalmente distante dalla concentrazione autocentrica.
Eppure paradossalmente è proprio tale stile di decentramento che ha potuto suscitare la confessione messianica nei suoi confronti, come scoperta di una presenza la cui accoglienza radicale consente ad ognuno conseguire quella stessa “assoluta concordanza tra pensieri parole e azioni, tra la «forma di vita» (..,) e il suo «contenuto»” (p.63). Quella stessa ospitale “santità nel quotidiano” che Egli stesso ha praticato si rivela, cioè, come possibilità aperta “a ciascuno in modo unico, qui ed ora” (p.63). È la possibilità di un’inversione di prospettiva, di una reciprocità, di un “mettersi al posto dell’altro senza abbandonare il proprio”, in cui il soggetto si trova rifondato proprio mentre accoglie in modo ospitale l’alterità. Un ruolo chiave gioca in tale dinamica la formulazione evangelica della regola d’oro, come parola attraverso la quale tale identificazione reciprocante con l’altro può divenire modalità d’accesso alla santità ospitale di Gesù anche in uno spazio transculturale, anche aldilà di quelle aree che si lasciano esplicitamente interpretare dalle Scritture. Non a caso Theobald accentua il valore delle sezioni prepasquali della tradizione sinottica, con i segni che vi sono presenti, ma anche con la dimensione sapienziale che la caratterizza: è l’invito ad entrare nel “senza misura” di Dio che la presenza del Nazareno dischiude al cuore dell’esistenza di ognuno.
Lo stile di Gesù si caratterizza quindi per una “discrezione ospitale”, che invita gli interlocutori a scoprire ciò che già abita in loro” (p.71), a disegnare la prospettiva “smisurata” di un mondo di “innumerevoli esseri unici in relazione di ospitalità” tra di loro (p.70) – ponendosi così come “stile di stili” (p. 78). In tale prospettiva, infatti, percepiamo Dio sorgere “dal cuore stesso della storia e del mondo, nella manifestazione ultima di una sapienza multiforme” (p.72), che permette ad ognuno di superare il caos e la violenza grazie a risorse che egli riconosce presenti in se stesso come nell’altro da sé. La stessa morte - ultimo nemico, da cui nasce ogni violenza – viene così disarmata nel farla oggetto di un buon annuncio in cui trova fondamento l’unicità della vita di ognuno. Nella percezione di Theobald, insomma, la rivelazione di colui che è l’unico è nulla senza il suo comunicarsi in altri di tale unicità: Gesù è “l’iniziatore della fede che la porta a compimento” (p. 582) e la relazione non gerarchica tra lui e i suoi discepoli, il “condiscepolato” (p. 598), è essenziale per comprendere l’apertura al futuro della storia umana che in lui si disegna.
Apprendimento, valorizzazione dello stile cristiano nella pluralità di stili in cui esso si esprime, radicamento evangelico di una teologia attenta a mettere in tensione “la forma normativa o dogmatica che la tradizione cristiana ha assunto e dall’altro il canone stilistico veicolato dalle Scritture” (p. 110): sono queste solo alcune delle parole della riflessione di Theobald che possono suscitare stimolanti prospettive per una lettura ecumenica. Il genere letterario della recensione non consente certo di continuare a seguire allo stesso livello di dettaglio una riflessione che sa utilizzare il registro della storia della teologia, cogliendola in alcuni suoi momenti chiave, ma anche proporre un acuto ripensamento sistematico di alcuni grandi temi di tale riflessione. Ci limitiamo a segnalare alcuni snodi che ci sono apparsi qualificanti: la diagnosi del tempo presente, che colloca la prospettiva stilistica al termine di una modernità colta nel suo distacco da epoche esemplari del passato, che la pone nella necessità di attingere da se stessa le fonti della normatività.
Una modernità vissuta spesso faticosamente da una chiesa cattolica tentata spesso di usare nei suoi confronti piuttosto il registro apocalittico che quello sapienziale; piuttosto la condanna globale che l’assunzione di una postura di apprendimento; la proposta di una teologia declinata come discernimento della vita autentica (degli stili e delle forme in cui essa si esprime), valorizzando la prospettiva ignaziana, a tenere assieme lo spirituale e il dogmatico; un’attenzione non ingenua per la dimensione narrativa, che riprende e ripensa in modo articolato i guadagni della ricerca novecentesca; un approccio coscientemente ermeneutico alla Scrittura, tematizzato nel confronto con alcune figure chiave della storia della teologia (da Origene a Tommaso, a Troeltsch, ma anche il Tridentino e i due concilii Vaticani) fino alle letture puramente culturali dei testi biblici e della loro Wirkungsgeschichte (Gauchet). Un approccio che viene focalizzato nell’interpretazione di alcuni testi o temi biblici (la sapienza e l’apocalittica, la lettera agli Ebrei con la sua meditazione della fede), ma anche pensato teologicamente con una forte accentuazione pneumatologica.
Tale articolato percorso apre lo spazio per una ripresa “sistematica”, tesa a ridire la fede trinitaria e cristologica in un puntuale confronto con chi ha cercato di pensare la tarda modernità, sia sul versante filosofico che su quello sociologico, senza neppure eludere l’orizzonte della pluralità religiosa. Una ripresa attenta alla dimensione ecclesiologica, esplicitamente collocata all’interno di una considerazione delle dinamiche della globalizzazione, nell’interrogativo sulla possibilità di pensare teologicamente il legame sociale – ma non in forme puramente apologetiche, ma capaci di confrontarsi in modo significativo con l’agnosticismo con cui esso viene caratterizzato dalla tarda modernità. Un’attenzione che si volge anche al tema della creazione – in un ampio dialogo con le scienze della natura e della vita, ma anche con il tema del male e della resistenza ad esso. Non si tratta qui tanto di costruire una nuova sistematica, ma piuttosto di articolare la feconda abitabilità della fede cristiana, nella prospettiva stilistica disegnata da Theobald, anche all’interno del difficile quadro della postmodernità.
È anche un modo di declinare il legame costitutivo tra il segno escatologico di un ethos cristiano capace di misurarsi nella storia e nel mondo sulla santità di Dio, e la possibilità di accesso all’intimità divina. La nostra presentazione non può certo rendere ragione ad una riflessione che si snoda per quasi un migliaio di pagine, ma speriamo di averne almeno indicato il fascino e la ricchezza. Assieme a tali dimensioni dobbiamo però anche segnalarne la complessità, espressa tra l’altro dalla ricchezza rimandi e di ritorni su tematiche specifiche. Viene, anzi, persino da chiedersi se non sarebbe stato opportuno un maggior lavoro di ritessitura per testi e materiali che (almeno in alcuni casi) sembrano mostrare le tracce di una precedente esistenza autonoma. Alcuni temi vengono affrontati, infatti, in modo analitico in alcune sezioni, per essere poi ripresi in forma di citazione veloce in numerose altre; quella ripetizione che talvolta giova alla sottolineatura della rilevanza di un motivo diviene invece talaltra un po’ fastidiosa. Viceversa alcune sezioni restano come isolate e la comprensione del loro rapporto col corpo del testo emerge solo al termine di una rilettura.
Chi scrive non è forse abbastanza postmoderno per preferire una tale forma di pensiero alla linearità di un discorso articolato su un forte asse centrale, attorno al quale far ruotare anche rimandi e detours. Sono interrogativi che non possono, però, in alcun modo ridurre il valore di un testo che esige certo tempo e disponibilità per entrare nel mondo dispiegato dall’autore, ma che ripaga con uno sguardo penetrante sul nostro tempo, che aiuta a coglierlo in modo nuovo, come spazio in cui può risuonare la parola dell’Evangelo. Uno spazio in cui “Dio” può prendere ancora forma, “dentro e grazie alla storia, all’incrocio della prova del silenzio divino, della presenza della santità nel nostro mondo e di un inestirpabile desiderio di felicità per ognuno di noi e comune a tutti” (p. 622).
Tratto dalla rivista "Studi Ecumenici" n. 1/2011
(http://www.isevenezia.it)
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