Voci contro le barbarie. La battaglia per i diritti umani attraverso i suoi protagonisti
(Campi del sapere)EAN 9788807104428
E' tempo di bilanci, in materia di diritti umani: sono passati sessant’anni dall’adozione del documento che ha segnato una svolta nella comunità internazionale: la Dichiarazione universale dei diritti umani. Ma è difficile fare bilanci, perché questa è una materia complessa e ricchissima di implicazioni politiche, giuridiche e sociali. La rivoluzione dei diritti umani iniziò, a livello mondiale e non più su scala esclusivamente nazionale, con il famoso messaggio al Congresso di Franklin Delano Roosevelt (6 gennaio 1941), quando il grande presidente proclamò con forza che quattro libertà fondamentali (la libertà di coscienza, la libertà di religione, la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura) dovevano essere riconosciute non solo nei pochi stati democratici allora esistenti, ma in tutto il mondo. Non è un caso che i diritti umani siano stati proclamati da Roosevelt. Come acutamente notò Isaiah Berlin, Roosevelt «è stato il più grande leader della democrazia e il più grande campione del progresso sociale del secolo ventesimo». Negli anni Trenta, quando l’Europa era dilaniata dalla lotta tra fascismo e comunismo, «in un periodo di debolezza e crescente disperazione nel mondo democratico, Roosevelt radiava fiducia e forza».
Il pugnace sostenitore dell’eguaglianza economica e della giustizia sociale negli USA non poteva non auspicare, già nel corso della seconda guerra mondiale, che la nuova società internazionale che doveva nascere al termine del conflitto s’ispirasse al rispetto della libertà e dei diritti umani. Da allora la cultura dei diritti umani ha lentamente modificato istituzioni e rapporti internazionali e sollecitato una profonda trasformazione dei regimi politici e sociali, sradicando miti consolidati (quali quello del «dominio riservato» di ogni stato, in cui nessun altro potrebbe ingerirsi, un mito cui solo la Cina rimane abbarbicata). Oggi si è realizzata l’idea profetica di Kant: la violazione di un diritto in un paese è sentita come tale in ogni altra parte del mondo. La rivoluzione dei diritti umani ha posto al cuore della comunità internazionale due concetti fondamentali, strettamente e indissolubilmente legati l’uno all’altro. Il concetto che, dal punto di vista dei diritti che uno può invocare – ossia delle pretese e delle rivendicazioni che ognuno può avanzare –, non si può e non si deve più distinguere tra cittadino e straniero, tra uomo e donna, tra bianco e nero, tra cristiano ed ebreo, tra musulmano e non musulmano, tra credente e laico. In breve, il concetto di eguaglianza di tutti gli esseri umani, almeno dal punto di vista di ciò che si ha diritto di esigere dalla società e dagli altri. Anche qui, come in tanti altri campi, questo concetto non è stato che la traduzione in termini etico-politici di un grande principio religioso: come scrisse san Paolo nella straordinaria Epistola ai Galati, «non vi è né ebreo né greco, né schiavo né uomo libero, né maschio né femmina, perché siete tutti eguali in Gesù Cristo». Il secondo concetto è quello di dignità della persona umana.
È un concetto che Kant aveva indagato, da par suo, già nel 1785, nella Fondazione della metafisica dei costumi. In quell’opera così densa, il grande filosofo aveva notato: «Nel regno dei fini [contrapposti ai mezzi], tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcosa d’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti è ciò che ha una dignità. (...) Ciò che permette che qualche cosa sia fine a se stessa non ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore intrinseco, e cioè una dignità. (...) L’umanità [l’essere uomo] è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine. In ciò appunto consiste la sua dignità (personalità), ed è in tal modo che egli si eleva al di sopra di tutti gli esseri viventi che non sono uomini e possono servirgli da strumento». Nella Metafisica dei costumi, del 1797, Kant torna sull’argomento, sottolineando tra l’altro un principio importantissimo, e cioè che è contrario al concetto di dignità punire in modo disumano anche un «uomo malvagio »: «Non posso rifiutare neanche al malvagio il rispetto che gli devo in quanto uomo, perché il rispetto che gli è dovuto in quanto uomo non gli può essere tolto neanche se con i suoi atti se ne rende indegno. E perciò non vi possono essere pene infamanti, che disonorano tutta l’umanità (ad esempio, lo squartamento, il dare i criminali in pasto ai cani, il tagliar loro il naso e le orecchie).
Per l’uomo geloso del proprio onore (e che esige, come ognuno deve farlo, il rispetto degli altri) queste pene non solo sono più dolorose della perdita dei suoi beni e della vita, ma fanno anche arrossire di vergogna lo spettatore per il fatto di appartenere a una specie che si comporta in tal modo». Queste parole racchiudono un’altissima lezione d’umanità. Pensate a coloro che ogni giorno, in tante parti del mondo, torturano, seviziano o comunque maltrattano persone sospettate di terrorismo, sentendosi legittimati a umiliare e vessare gli uomini che hanno tra le mani solo perché hanno compiuto o potrebbero aver compiuto atti atroci di terrorismo. Kant ci dice che queste persecuzioni e torture sono contrarie non solo alla dignità della vittima ma anche a quella del carnefice. Orbene, questi concetti elaborati in modo ineguagliato dal filosofo di Königsberg hanno stentato a tradursi in norme giuridiche vincolanti a livello universale. La nostra Costituzione, all’art. 3, § 1, sancisce in modo efficacissimo il concetto, legandolo strettamente a quello di eguaglianza: «Tutti i cittadini [ora, dopo l’interpretazione evolutiva della Corte costituzionale, tutti gli esseri umani presenti sul territorio dello stato] hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Questo concetto di «pari dignità sociale» è bellissimo, come ha sottolineato di recente uno dei padri costituenti, Oscar Luigi Scalfaro (La mia Costituzione, Passigli Editori, 32005, 73). È bellissimo perché vuol dire che il ricco e il povero, il sano e il malato, l’uomo e la donna, il bianco e la persona di colore, l’handicappato e chi è privo di handicap, il vecchio e il giovane hanno tutti la stessa identica dignità: certo, sono diversi per gli accidenti della vita, ma ciascuno di loro ha pieno diritto al rispetto della propria umanità, da parte di tutte le altre persone del mondo. Ora, come ha detto il filosofo tedesco Odo Marquard, «tutti possiamo essere differenti senza paura». Un anno dopo l’approvazione di questa norma e di tutta la Costituzione italiana, a livello planetario venne adottata la Dichiarazione universale, che accoglie gli stessi principi, anche se li formula in maniera meno icastica: all’art. 1, la Dichiarazione statuisce che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Ma c’è voluto molto per specificare e tradurre questo principio generale in comandi giuridici concreti e operativi. È stato necessario adottare numerose convenzioni internazionali che, ratificate da comunità internazionale può infatti guardare con occhi nuovi a ciò che avviene e formulare giudizi – condanne, denunce, elogi – che prima operavano solo a livello nazionale. Prima del 1948 l’opinione pubblica di uno stato poteva protestare per le violazioni commesse dal governo di quello stato, o da uno stato straniero, e usava a tale scopo, come parametro di giudizio, i valori dell’Occidente e cioè, in pratica, le Costituzioni dell’Europa occidentale o degli Stati Uniti d’America. Si protestava, ad esempio, perché nell’Unione Sovietica i fondamentali diritti di libertà venivano gravemente conculcati, perché il regime fascista soffocava in Italia la libertà d’espressione e di associazione, perché in molti paesi gli ebrei venivano perseguitati, perché nelle colonie britanniche le popolazioni indigene erano sottoposte a uno sfruttamento disumano, perché negli Stati Uniti d’America i cittadini di colore venivano discriminati.
A partire dal molti stati, sono diventate imperativi giuridici all’interno di ciascuno di essi. Cosa ha comportato di nuovo, nella comunità internazionale, la cultura dei diritti umani, come si è affermata dal 1945 a oggi? A mio giudizio, non solo ha cercato di radicare nella società degli stati un nuovo ethos, un nuovo modo di vedere e concepire i rapporti tra esseri umani e tra essi e i vari stati in cui si articola la comunità internazionale. Essa ha segnato anche l’introduzione di un nuovo modo di qualificare i comportamenti degli uomini, di classificarli in base a nuovi criteri di valutazione. Quasi ogni giorno i quotidiani riportano resoconti di massacri, discriminazioni, torture, violenze contro donne e bambini. Gli abomini e la sopraffazione non sono certo fenomeni nuovi nella storia. Ora però abbiamo un nuovo parametro di giudizio: possiamo qualificarli come violazione di questo o di quel diritto umano fondamentale.
È un progresso indubbio: la 1948, dall’approvazione della Dichiarazione universale, in tutto il mondo disponiamo di un codice internazionale che non solo contiene una serie di precetti, e così serve a farci decidere come comportarci, ma ci consente anche di valutare i comportamenti delle autorità governative. Disponiamo ora di parametri che valgono sia per gli stati che per gli individui: i principi internazionali sui diritti umani impongono linee di comportamento, esigono dai governi azioni di un certo tipo e nello stesso tempo legittimano gli individui a levare alta la loro voce se quei diritti non vengono rispettati.
Tratto dalla rivista Il Regno n. 20/2008
(http://www.ilregno.it)
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