PREFAZIONE
ANIMA E CORPO
L’EVOLUZIONE DELLA RELIGIOSITÀ POPOLARE
L’interesse per la religiosità popolare, basata da sempre su dati antropologici profondi, conosce in questi anni una rinnovata attenzione da parte soprattutto delle scienze cognitive e degli studi sulle emozioni legate alla corporeità, che stanno scoprendo quell’originario. Su questo sfondo fino a un recente passato sembrava curiosa – per esempio ai sociologi, per lo più incuranti dell’antropologico –, la relativa impermeabilità della religione popolare al fenomeno della progressiva secolarizzazione in Occidente. Oggi ci si deve ricredere: si fa strada l’idea più pertinente che la religiosità popolare, forte del suo patrimonio, abbia vinto non solo sulla secolarizzazione e sulla riduzione razionalistica della fede, ma soprattutto nei confronti della religione ufficiale. A fronte di percentuali ridotte al minimo di praticanti con forte appartenenza ecclesiale, si assiste a un numero progressivo di credenti con una loro religiosità «estemporanea», non regolata dall’istituzione. La teologia è piuttosto refrattaria a riflettere su questa evoluzione del senso religioso perché è sensibile soprattutto al conflitto con le sette e con le religioni orientali e islamiche, che sembrano guadagnare terreno anche in Europa mentre non si avvede che è in crisi il suo modello razionalistico di offerta del sacro.
Il merito di Tagliaferri è quello di non lasciare cadere questa sfida culturale dato che nelle società occidentali sembra in atto non più l’erosione del religioso a opera della scienza, ma il progressivo distacco delle masse verso l’istituzione ecclesiale per abbracciare un religioso «da bricolage» con forti accenti personalistici ed emotivi. È come se il sentimento religioso non fosse più raccolto dalla tradizione ecclesiale e trovasse migliore espressione in circuiti alternativi poco istituzionalizzati.
Ogni discorso sulla religiosità popolare avrebbe bisogno anzitutto di identificare il suo oggetto e dunque di descrivere attentamente il fenomeno che intende studiare distinguendolo adeguatamente da altri fenomeni come la religione in genere e la pratica della vita cristiana. Ora però questo compito oggi appare difficile se non impossibile, dato che ogni pratica cristiana è diversificata, plurima e perciò non suscettibile di un discorso unitario e significativo. Ogni discorso infatti può venire frainteso, può configurarsi come religiosità popolare, ma può anche distanziarsi da essa senza che se ne possano stabilire i criteri.
Soprattutto ai nostri giorni c’è un pluralismo chiaro all’interno della stessa cristianità per cui le credenze dei cattolici rispecchiano sempre più il carattere relativo, ambientale, contestuale delle proprie convinzioni. Ad esempio la devozione a Padre Pio è religiosità popolare? I pellegrinaggi a Medjugorje costituiscono un tratto del cosiddetto «mondo della religiosità popolare»? Con la stessa espressione di religiosità popolare si intendono cose troppe diverse e oggi il «popolo» diventa un contenitore senza fondo.
Si potrebbe forse osservare che la dizione «religiosità popolare» aveva un suo nome e una sua collocazione negli anni ’60 e ’70 e in particolare dopo il Vaticano II. Infatti era entrata come un capitolo importante dello studio della teologia. Ma in quel tempo ciò che chiamiamo religiosità popolare si poteva fregiare di una sua storia particolare e specifica per contrapposizione alla teologia o alla liturgia «ufficiale». Ma oggi è ancora possibile distinguere una religiosità popolare nel contesto di un cattolicesimo molto più differenziato, è possibile distinguere ciò che è «ufficiale» da ciò che è «privato», «subalterno», «periferico» in un contesto pluralista dove il sistema di credenze è un processo continuo di adattamento?
Oggi non esistono più neanche all’interno della cristianità un «centro» e una «periferia» e non ci sono delle verità riguardanti il depositum fidei più in evidenza di altre forme di religiosità. Il termine «popolo» non si fa più carico di quelle «risonanze affettive» che possedeva negli anni ’70. Oggi si può piuttosto osservare che una piccola borghesia domina incontrastata ogni aspetto sociale e religioso della vita. Dunque, anche dal punto di vista sociologico, manca ogni appiglio a una riproposta in grande stile della dizione di religiosità popolare. Eppure c’è qualcosa che resiste e che permette ancora un discorso importante, anche se l’argomento oggi appare assai nebuloso. Come infatti descrivere le forme di pietà popolare, per esempio i Rosari davanti ai capitelli nel mese di Maggio, le sagre popolari e le processioni con le statue dei santi, i vari pellegrinaggi, le viae crucis, i presepi e le varie drammatizzazioni spontanee della vita di Gesù nella settimana santa? Per non parlare delle piccole forme di superstizione, della devozione per le immaginette dei santi, dell’attaccamento ai luoghi di culto, ai capitelli, ecc. C’è una religiosità popolare che non fa soltanto da cornice al mondo cristiano, ma fa da sfondo e dà un senso originario e immemorabile alla pietà religiosa e cristiana di tutti i tempi.
1. COME CARATTERIZZARE LA RELIGIOSITÀ POPOLARE OGGI
La difficoltà di parlare di religiosità popolare non ci impedisce di cercare oggi dei criteri particolari e specifici di questa realtà così sfuggente e difficile da collocare, da specificare e da isolare. Ora, poiché le solite distinzioni non tengono più (non si può più parlare di «classe dominante» e «classe subalterna») direi che occorre cercare altri criteri e altre connotazioni di quella che vogliamo ancora denominare religiosità popolare.
Arrivati a questo punto, vorrei osservare che gli attuali studi delle scienze cognitive applicate alla religione sono molto proficui in questo senso e ci offrono dei criteri nuovi e importanti. Queste nuove teorie infatti sanno sfruttare al meglio essenzialmente le ambiguità lasciate in eredità da Max Weber sulla questione esistente tra varie forme di razionalità nel contesto delle credenze.
Su questo sfondo, la distinzione principale che appare essere in grado di dare conto della religiosità popolare oggi è una distinzione che prendiamo a prestito dai cognitivisti nella suddivisione che essi propongono tra idee immediate e idee riflessive nell’ambito religioso. E infatti, poiché non è più possibile distinguere i fenomeni socio-culturali che fanno capo alla religiosità popolare, ci si può chiedere perché non partire da una distinzione più interna e da criteri profondi per cui si possono considerare alcune credenze come «spontanee», «naturali», e riconoscere invece altre credenze come credenze a sfondo «riflessivo» per le quali si esige un pensiero più elaborato e articolato.
2. RELIGIOSITÀ POPOLARE COME «UN SISTEMA COGNITIVO RELIGIOSO SPONTANEO»
Si potrebbe dire in una parola che la distinzione si basa sulla maggiore o minore immediatezza dell’esperienza religiosa che si fa presente nella religiosità, in cui per certe idee religiose semplici non occorre una esplicita istruzione, non servono questioni distintive o sillogistiche. Si tratta soltanto di aver presente quello che i cognitivisti chiamano «un sistema cognitivo naturale». In base a questo nuovo criterio si può operare con una pura distinzione epistemologica e ritenere che quanto più una credenza è legata alla sua «spontaneità», alla sua «immediatezza», per cui si fa presente nella nostra mente in forma naturale, tanto più ci troviamo in presenza di un fenomeno che ci è permesso di chiamare parte della religiosità popolare. E non è un caso che la ricerca contemporanea legata alle scienze cognitive abbia sottolineato in modo particolare il fatto che le credenze religiose sono legate all’intuizione e alle emozioni.