EDITORIALE
Il rapporto del cristiano con il “mondo” si caratterizza, in maniera quasi
costitutiva, per la sua dimensione fortemente dialettica: da un lato, infatti,
il mondo pone di continuo interrogativi all’uomo che, professando la propria
fede in Cristo – rivelatore del volto del Padre – attesta e vive la prossimità
di Dio alla storia e a ogni vicenda umana, anche quando queste appaiono
visibilmente segnate dal dolore e dalla sofferenza, oltre che da un’apparente
fatalità che le rende ex parte hominis assolutamente inintelligibili;
dall’altro, ogni discepolo di Cristo, chiamato ad abitare il mondo senza tuttavia
farne proprie le logiche egolatriche, mentre è per il mondo luce e sale
(cf. Mt 5,13-14), diviene talvolta oggetto di incomprensione e di odio da
parte di quanti preferiscono le tenebre alla luce (cf. Gv 3,19; 15,19). Al credente,
dunque, è chiesto di intrattenere con il mondo un rapporto che sia di
dialogo, ma non di assimilazione, al fine di rendere sempre più umano – in
senso cristico – il mondo stesso e tutto ciò che lo abita. Il tempo della pandemia
ha, per certi versi, accentuato il carattere dialettico di questo dialogo,
nella misura in cui ha rivelato le molteplici criticità (se vogliamo, “fragilità”
e “incongruenze”) che connotano le strutture sociali, politiche ed economiche,
sollevando diverse questioni di ordine etico per le quali, sovente, la stessa
comunità cristiana non ha soluzioni chiare e univoche.
Di grande attualità si rivela, a tal proposito, il saggio di CARLO BORASI,
il quale, alla luce di alcune istanze della tradizione filosofico-teologica francescana,
affronta talune questioni che il tempo post-coronavirus pone alla
scienza e all’economia. Per quanto, infatti, non sia stato ancora varcato il
crinale della pandemia da Covid-19, è quanto mai opportuno interrogarsi
sul “dopo”, per evitare di incorrere nei problemi del “prima”, in particolar
modo quelli legati alle disuguaglianze sociali che affondano le loro radici
nei principi fondamentali da cui dipendono i modelli socio-economici attuali.
Sia in ambito scientifico sia in ambito economico occorre ragionare in
termini “sistemici”, assumendo la complessità dei sistemi “naturali” e “artificiali”
(come quelli sociali e politici), ma anche la loro interconnessione. In
quest’orizzonte va collocata e compresa la proposta di un modello circolare
di economia, che tenga in giusta considerazione il valore delle risorse materiali
e la possibilità di un loro utilizzo non indiscriminato, al fine della costruzione
di un ambiente adeguato alla crescita della comunità umana.
In questa stessa linea si pongono lo studio di BERNADETTE CIMMINO e
la nota di EDOARDO CIBELLI. Cimmino offre una lettura di natura giuridica
ed ecclesiale della questione della dignità della persona malata in fase terminale,
mettendo in evidenza la profonda e sostanziale diversità dei principi
che sono alla base della regolamentazione normativa dei diritti di fine vita
nell’ordinamento italiano e di quelli ai quali si ispira, invece, il magistero della
Chiesa romana. Mentre, infatti, il legislatore riconosce e tutela come bene
giuridico il diritto di libertà di autodeterminazione terapeutica (garantendo,
conseguentemente il diritto soggettivo al rifiuto e alla rinuncia di
trattamenti sanitari, la facoltà soggettiva di chiedere aiuto al suicidio e il diritto
soggettivo a non soffrire), la riflessione magisteriale – muovendosi in
una prospettiva teo-antropologica – insiste sulla dignità della persona, riconducendola
alla relazione filiale che lega l’uomo a Dio, e, in forza dell’inalienabile
diritto alla cura e del principio di proporzionalità delle cure, esclude
ogni forma di eutanasia, attiva o omissiva.
Cibelli si occupa della questione quanto mai attuale del potenziamento
umano, affrontando il problema dell’applicabilità delle tecniche volte al miglioramento
del potenziale del corpo e della mente umani. A essere messo in
questione non è il valore del potenziamento, ma un suo utilizzo non autenticamente
umano, in quanto non adeguatamente rispettoso della dignità dell’uomo
e della sua finitudine. In mancanza di un documento della Chiesa dedicato
esclusivamente a tale questione, la teologia, traendo spunti da altri
documenti e rinunciando a fornire risposte universalmente valide, è comunque
chiamata a tenere vigile l’attenzione su ciò che può risultare “nocivo”
per l’uomo: la nota apre così, implicitamente, all’ulteriore domanda circa la
possibilità che si dia un paradigma antropologico condiviso anche al di fuori
di un contesto strettamente confessionale.
Se a salvare il mondo sarà la bellezza – come preconizzava il principe
Myškin ne L’idiota di Fëdor Dostoevskij –, restituendo all’uomo la grazia primigenia
nella quale egli è stato creato come «cosa molto buona» (Gen 1,31),
la bellezza, come suggerisce il contributo di PIERFRANCESCO DE FEO a partire
dall’indagine dell’opera di Ruperto di Deutz, è quella del Verbo, da sempre
substantia pulchritudinis: nell’incarnazione tale bellezza si è manifestata
come “svelamento” del senso delle Scritture, dal quale l’uomo è, a sua volta,
“decorato”, completando nella propria carne ciò che manca alla bellezza ferita
del corpo di Cristo. Il paradigma antropologico che emerge dalle pagine
di De Feo è di chiara matrice cristologica: il Verbo e l’uomo si incontrano
nella mediazione della Sacra Scrittura che è, per l’uomo e per l’altro, “luogo”
di svelamento, sia pure secondo differenti prospettive. Dal punto di vista
antropologico, l’amore per la bellezza, che la superbia ha pervertito in lussuria
di potere, può essere recuperato solo mediante l’esercizio di virtù quali
l’umiltà e la castità, il cui nesso caratterizza l’intera storia della salvezza,
come risulta esemplarmente dalla figura del Cristo, ma anche da quella di
Maria.
Della tensione etico-spirituale indispensabile all’intelligenza delle Scritture
e della bellezza che a essa consegue è possibile cogliere un’efficace icona
anche in Giuseppe, il padre di Gesù, al quale è riservata la nota di PASQUALE
GIUSTINIANI. L’autore, partendo dalla lettera apostolica Patris corde di papa
Francesco, assunta come un “ordito concettuale suscettibile di approfondimenti”,
indaga la figura di Giuseppe così come Tommaso d’Aquino la lascia
emergere soprattutto nella parte terza della Summa theologiae. Siamo convinti,
come afferma Giustiniani, che la promulgazione di questo speciale anno
dedicato a san Giuseppe (8 dicembre 2020/2021) possa riportare all’attenzione
della devozione del popolo e della riflessione filosofico-teologica
questa grande figura della Bibbia, della teologia e della pietà popolare.
Tra gli aspetti che l’incontro del credente con il “fuori” comporta vi è
quello dell’“inculturazione”, alla quale la riflessione cristiana si è mostrata
sempre particolarmente sensibile: è in questa linea di indagine che si colloca
lo studio di EZIO ALBRILE. Egli, mediante un’analisi dei culti riservati al
dio Ain (il Tempo Eterno), a Maria (la Vergine, madre di Gesù) e a san
Gennaro (patrono di Napoli), individua diverse tracce di penetrazione del
simbolismo isiaco e mithriaco all’interno della tradizione cristiana. Se un
tale processo di assimilazione di elementi propri di mitologie e di culti pagani
(tanto ellenistici quanto iranici) da parte del mondo cristiano fu reso
possibile da talune affinità tra queste tradizioni, esso fu anche favorito dall’accessibilità
di certi simboli, che risultavano facilmente comprensibili dai
fedeli. Un tale studio si rivela, pertanto, di grande attualità.
Segnaliamo anche, nella sezione Rassegne&Figure, il dettagliato resoconto
di GIUSEPPE FALANGA sulla Giornata di Studio che lo scorso 24 febbraio
si è tenuta presso la Pontificia Università della Santa Croce, su iniziativa
dell’Istituto di Liturgia, intorno al tema Il mysterium dell’assemblea. Alle
radici di un problema attuale, per riflettere ancora, nel solco tracciato dal
Concilio Vaticano II, sulla costruzione di un’immagine di Chiesa nella quale
i fedeli non siano ridotti a semplici “parti” di un tutto, ma ne siano piuttosto
l’“essere” stesso. Dagli interventi dei relatori riportati da Falanga emerge,
da un lato, l’esigenza di comprendere la nozione di “assemblea” secondo
la triplice direttrice della “convocazione”, della “partecipazione” e della “missione”,
dall’altro l’istanza di non smarrire la dimensione escatologica dell’assemblea
liturgica, che trova la sua massima espressione nell’Eucaristia e
che può esercitare, in maniera profetica, un “potenziale critico e creativo” nei
confronti di ogni realtà mondana.
Il 2021 si apre, dunque, per Asprenas con un fascicolo che, nella variegata
diversità dei testi di cui si compone, è estremamente ricco dal punto di
vista dei contenuti, oltre che degli approcci proposti: obiettivo comune è,
ancora una volta, quello di offrire un contributo alla ricerca teologica e al
dialogo con altri saperi e ci auguriamo che quest’istanza possa risultare sempre
chiaramente percepibile tra le righe della nostra Rivista.
Non possiamo, però, chiudere quest’Editoriale senza ricordare con gratitudine
padre Gianfranco Grieco, frate minore conventuale che, per diversi
anni, è stato membro del Comitato scientifico di Asprenas, oltre che equilibrato
e apprezzato vaticanista de L’Osservatore Romano. La nostra Redazione
e l’intera comunità accademica della Sezione S. Tommaso d’Aquino
della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale perdono un amico,
ma sappiamo di averlo in Dio, accanto all’amato san Giovanni Paolo II, al
quale fu particolarmente legato in qualità di inviato speciale nel corso dei
suoi molteplici viaggi pastorali. L’esempio di padre Gianfranco, soprattutto
la serietà e il rigore che hanno contraddistinto il suo impegno professionale,
oltre che la grande passione con la quale ha saputo vivere i diversi ministeri
pastorali che gli venivano affidati, saranno ancor più di stimolo per il nostro
servizio alla Chiesa.
GIANPIERO TAVOLARO