Costruire dialogando
-Mt 21-27 e Zc 9-14 tra intertestualità e pragmatica
(Analecta Biblica)EAN 9788876536960
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Il volume costituisce la revisione della tesi di dottorato in teologia biblica difesa dall’autore nell’ottobre 2015 presso la Pontificia Università Gregoriana, sotto la direzione del prof. Massimo Grilli. Lo studio si inserisce nel solco di numerosi altri che, negli ultimi decenni, hanno rivolto la loro attenzione all’intertestualità in campo biblico, a partire soprattutto dal saggio di R. Hays, Echoes of Scripture in the Letters of Paul (1989), ormai divenuto un testo di riferimento per la ricerca in questo ambito. La novità metodologica proposta dallo studio di Montaguti risiede nella considerazione dell’intertestualità non come semplice dato da riscontrare nell’esegesi, ma come strumento a servizio della pragmatica: il dialogo intertestuale fra due testi, infatti, fa appello al lettore, suscitando in lui domande e/o attese e sottendendo esortazioni a lui rivolte. In tal senso l’autore si propone di delineare un’intertestualità lettore-centrata (23), dove per lettore si intende un lettore ideale, capace di comprendere gli elementi intertestuali. Montaguti si propone di applicare tale modello pragmatico di intertestualità alle tre citazioni del Deutero-Zaccaria (Zc 9-14) contenute nella sezione di Mt 21–27: Zc 9,9 in Mt 21,5; Zc 13,7 in Mt 26,31; Zc 11,13 in Mt 27,9-10. Le citazioni e le allusioni a Zaccaria presenti nel vangelo di Matteo sono state oggetto di diversi articoli e monografie, ma, a differenza di questi studi, attenti soprattutto all’analisi delle forme testuali e all’intenzionalità di questi riferimenti, la ricerca di Montaguti ha come scopo quello di mostrare i significati comunicati al lettore dal dialogo che si viene a creare tra l’intertesto zaccariano e la narrazione matteana.
Nell’introduzione l’autore definisce il suo ambito di studio, delinea un breve status quaestionis e chiarisce scopo e metodologia della ricerca. La parte centrale del saggio si suddivide in tre capitoli, ognuno dei quali dedicato a ciascuno dei suddetti passi di Zc riportati da Matteo. Le tre citazioni sono studiate con un metodo d’analisi che Montaguti mantiene costante. Sebbene l’autore si soffermi troppo a spiegare questa metodologia in ogni capitolo, cadendo talora in ripetizioni che appesantiscono la lettura, la meticolosità dell’analisi costituisce un punto di forza dello studio di Montaguti. Come primo momento, ogni capitolo considera la pericope o la sezione in cui è inserita la citazione che sarà studiata e di questo segmento testuale vengono indicati gli elementi drammatici e sintattici che conferiscono unità e coesione al passo in questione (Mt 21,1-7; 26,20-56; 27,3-10). Nella fase successiva l’autore si sofferma a evidenziare la posizione strategica che le citazioni zaccariane occupano nel testo matteano e a constatarne i temi e i significati che essa richiama alla luce dell’intera narrazione (o co-testo) matteana. L’autore pone in seguito a confronto il testo citato da Matteo con il testo ebraico e il testo greco (LXX) delle citazioni di Zc non tanto col proposito di chiarire la forma testuale scelta dall’evangelista, quanto per individuare eventuali cambiamenti di significato avvenuti nella tradizione del testo zaccariano che avrebbero potuto influenzare Matteo; a nostro avviso, un breve paragrafo sull’interpretazione dei suddetti passi di Zc all’interno della tradizione intertestamentaria e giudaica (ben conosciuta da Matteo) avrebbe garantito maggiore completezza allo studio. In seguito Montaguti passa a considerare l’intertesto di Zc nel suo contesto originario, mediante l’analisi del testo ebraico. Dopo aver così preparato il terreno, l’autore giunge al proprium della sua ricerca, mostrando il rapporto dialogico che intercorre tra il testo zaccariano e quello matteano: da una parte, il racconto evangelico permette di disambiguare personaggi o elementi che nel testo profetico restavano di difficile interpretazione (per esempio, è evidente che nel testo matteano l’oscuro pastore più volte richiamato dagli oracoli di Zaccaria è Gesù stesso); dall’altra, il contesto veterotestamentario dei passi di Zc illumina il testo matteano, attribuendogli una profonda ricchezza di significati. In questa interazione dialogica fra i due testi, va riconosciuto un grande merito all’analisi di Montaguti, che nella sua globalità ci appare puntuale e attenta. Infine, fedele al criterio della ricorrenza richiamato dallo studio metodologico di Hays, Montaguti chiude la trattazione di ogni capitolo cercando di evidenziare altre eventuali allusioni al libro di Zaccaria presenti nel testo matteano considerato e di mostrare i significati che tali allusioni aggiungono al dialogo intertestuale tra il testo profetico e quello evangelico.
Chiarita la metodologia seguita nello studio, presentiamo brevemente i risultati di questo fecondo dialogo intertestuale che l’autore mostra. Nel primo capitolo, l’autore focalizza la relazione tra l’oracolo di salvezza di Zc 9,9, di chiaro tenore escatologico, e l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme (Mt 21,1-17), nel cuore del quale viene citato esplicitamente il passo di Zaccaria (Mt 21,5). Il dialogo intertestuale delineato dall’autore sottolinea alcuni elementi comuni ai due testi. In entrambi i passi si parla di un re inviato da Dio a operare la salvezza in favore del proprio popolo. Inoltre, sia Matteo che Zaccaria presentano questo sovrano non con tratti violenti o bellicosi, ma con quelli dell’umiltà e della mansuetudine. Infine, sia il testo di Zc che quello di Mt sottolineano il carattere messianico del sovrano che entra a Gerusalemme. A livello pragmatico, Montaguti conclude che l’evangelista vuole comunicare al lettore un messaggio ben preciso: Gesù è certamente il re messianico inviato a operare la salvezza escatologica; come re umile che si prende cura dei poveri del suo popolo, egli è diverso dai sovrani di questo mondo, che impongono il loro potere con la forza. A proposito di questo primo capitolo avanziamo una sola osservazione all’ottima analisi che l’autore conduce. Montaguti rileva una reazione parimenti positiva (sebbene fragile), sia dei discepoli che della folla, nei confronti di Gesù che entra in città (cf.173). Tuttavia, riteniamo che le due reazioni non possano essere totalmente assimilate, soprattutto a motivo dell’affermazione della folla che definisce Gesù come profeta (v. 11). Il lettore di Mt, infatti, sa che, quando l’evangelista utilizza il termine «profeta», in diversi casi si riferisce al destino di sofferenza e persecuzione degli antichi profeti (cf.Mt 5,12; 13,57; 23,29-31.34.37). Lungi dall’essere così positivo, il riconoscimento profetico di Gesù da parte della folla la rende un personaggio ambiguo, diverso dai discepoli, e preannuncia sia la sua progressiva presa di distanza da Gesù (che culminerà in Mt 27,25) sia la passione che attenderà il Messia nella Città Santa, dove egli sta facendo il suo ingresso.
Nel secondo capitolo si prende in esame il misterioso oracolo del profeta colpito (Zc 13,7), citato da Gesù nel contesto del racconto della passione, poco prima del suo arresto. A conclusione del percorso di questo secondo capitolo, Montaguti identifica l’oscuro pastore colpito dalla spada per volontà di Dio, di cui parla Zaccaria, con Gesù stesso, oggetto delle azioni malvagie dei suoi avversari, che Dio fa rientrare nel suo piano salvifico. Sia Zaccaria che Matteo presentano la sorte del pastore in stretta connessione con quella del gregge, che viene disperso: mediante l’intertesto zaccariano, che alludeva alla dispersione del gregge (= popolo), Matteo richiama la disgregazione del gruppo dei discepoli che, avviatasi fin dall’inizio del racconto della passione, andrà compiendosi nel corso di esso. In questa disgregazione del gruppo dei discepoli Montaguti vede riflessa la condizione dell’intero popolo d’Israele, gregge che non ha pastore. Tuttavia questo status non sarà l’ultima parola. Sia nel testo zaccariano che in quello matteano l’autore vede la presenza di uno schema tripartito, scandito da sofferenza-purificazione-comunione ristabilita: nell’oracolo di Zaccaria si parlava della purificazione di un resto che sarebbe diventato popolo Dio; nel vangelo la promessa di precederli in Galilea, che Gesù rivolge ai discepoli, esprime la volontà di ristabilire una comunione con essi e, tramite essi, con tutti i popoli della terra (cf.Mt 28,16-20), Israele compreso. Mediante la propria sofferenza mortale, il pastore Gesù opera la definitiva comunione escatologica tra Dio e il suo popolo, che assume ora il carattere dell’universalità.
Il terzo capitolo considera la citazione di Zc 11,13 in Mt 27,9-10, che l’evangelista attribuisce a Geremia per motivi che Montaguti mette bene in evidenza. Nell’analisi del nostro autore appare ardita l’identificazione tra la voce profetica della citazione e il personaggio di Giuda, con la conseguente interpretazione del verbo ?λαβον (Mt 27,9) come un verbo di prima persona singolare. Al pari del profeta, secondo l’autore, Giuda avrebbe compiuto un gesto spiacevole, che denuncia la colpevolezza dei leader del popolo e rientra nella volontà di Dio. Tale identificazione, fondata sull’espressione finale della citazione («come mi aveva ordinato il Signore»), mostra una riconsiderazione della persona di Gesù da parte di Giuda: egli, infatti, riconoscerebbe l’innocenza di Gesù e la riconsegna delle monete sarebbe un gesto che ne esprime la conversione. Ci sembra che questa identificazione vada incontro a grandi difficoltà. Anzitutto, pochi versetti prima (Mt 27,6), lo stesso verbo (λαμβ?νω) è utilizzato per le autorità giudaiche, che prendono il denaro lasciato da Giuda e lo destinano all’acquisto del campo. Questa ci sembra una prova testuale evidente del fatto che siano i sacerdoti i referenti di ?λαβον (da interpretarsi come terza persona plurale) nella citazione di Mt 27,9. Il tentativo di Montaguti di giustificare la propria posizione riferendo implicitamente a Giuda il verbo λαμβ?νω in passi in cui tale verbo è assente (Mt 26,14-15; 27,3) ci appare piuttosto debole (cf.341). Inoltre, se Matteo avesse voluto identificare Giuda come soggetto delle parole profetiche, avrebbe potuto farlo in modo meno enigmatico citando il verbo ?ν?βαλον, che nell’intertesto di Zc 11,13 esprime il gesto del gettare via le monete e che avrebbe richiamato meglio l’azione del traditore. Inoltre, differenziare i soggetti di ?λαβον e ?δωκαν in Mt 27,9-10 determina un passaggio logico brusco («e io presi trenta monete… ed essi le diedero»), in cui non si comprende come il denaro sia passato dall’io locutore a «essi». Infine, la figura del profeta e quella di Giuda sono radicalmente differenti per caratterizzazione: se il profeta in Zc è senza dubbio un personaggio positivo, non così per Giuda, nonostante il suo pentimento finale. L’assimilazione della voce profetica al traditore ci appare difficilmente sostenibile. Meglio fondata ci sembra l’interpretazione, adottata dalla maggior parte delle traduzioni e dei commentari, di ?λαβον in Mt 27,9 come una terza persona plurale, in riferimento alle autorità giudaiche; l’espressione finale della citazione («come mi aveva ordinato il Signore») esprimerebbe un semplice richiamo alla voce del profeta. Al di là di questa osservazione, anche in quest’ultimo capitolo l’analisi di Montaguti è accurata. Mediante la citazione di Zc 11,13 Matteo vuole sottolineare che i leader giudaici, al pari dei capi del tempo di Zaccaria, sono cattivi pastori del loro gregge, in contrapposizione a Gesù, presentato in precedenza come pastore buono. Stimando l’inviato divino trenta monete d’argento, i capi si sono chiusi alla rivelazione divina portata da Gesù, come già avvenuto per il profeta nel testo di Zc. Mediante l’intertesto zaccariano, tuttavia, il lettore è invitato a rivolgere la propria speranza nel Messia Gesù, vero pastore del suo popolo, di cui entreranno a far parte tutte le genti.
Nelle conclusioni Montaguti traccia alcune brevi riflessioni alla luce del percorso svolto. In base al dialogo intertestuale tra Mt e Zc che egli ha ricostruito, l’autore propone una ridefinizione dell’idea di compimento, fondamentale per la relazione tra AT e NT, secondo un modello dialogico: non è solo l’AT a illuminare il NT, ma anche il NT rivela significati profondi celati nell’AT. Circa il dialogo intertestuale tra Zc e Mt, esso ha la funzione di rovesciare le tradizionali attese messianiche mostrando come il messianismo di Gesù, caratterizzato dall’umiltà e dalla sofferenza, è pienamente conforme alle promesse divine. Inoltre, lo sfondo zaccariano permette di rileggere gli eventi conclusivi del ministero di Gesù in chiave escatologica, sebbene il compimento messianico definitivo avverrà unicamente con la parusia del Figlio dell’uomo. Alla luce di questa rilettura delle attese messianiche viene ridefinita l’identità della comunità messianica: essa corrisponderà a un Israele purificato interiormente e allargato anche alle genti.
Lo studio di Montaguti costituisce indubbiamente un valido contributo alla ricerca e l’arricchimento da esso apportato tende in due direzioni: da una parte, propone una nuova strada per gli studi intertestuali, proponendo il ricorso all’intertestualità come strumento pragmatico; dall’altra, focalizzando unicamente le citazioni di Zc, contribuisce a una migliore comprensione della fitta trama di citazioni, allusioni ed echi che soggiace alla sezione conclusiva del “più giudaico” di tutti i vangeli.
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2017
(http://www.pul.it)