EAN 9788830811874
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Educare alla vita buona del Vangelo nel tempo della postmodernità non è cosa facile. Il Tutto cede il posto al Frammento: non c’è più la ricerca della Verità e si fa strada soltanto la propria visione delle cose e del mondo. Le forme dell’amore liquido – immanenti e troppo instabili e mutevoli per essere autentiche e rispondere al problema dell’uomo e al senso della vita – sembrano prendere il sopravvento sulla fatica di amare come dono di sé per l’altro fino alla fine, per sempre. Nell’era globale e del dominio della tecnica e delle scienze, la proposta cristiana – che è l’amore di compassione e gratuito, finanche per i nemici, senza nulla a pretendere, privo di qualsiasi sorta di reciprocità (che resta comunque auspicabile nel confronto, nella missione, come nel dialogo, per creare comunione e relazioni a più livelli), appare quasi impossibile o, comunque, si presenta come una missione difficile.
La risposta può venire dalla categoria della “differenza” che costituisce la vita cristiana quale esistenza ricevuta in dono e da restituire liberamente al Signore per il bene dei fratelli e del mondo. Martin Heidegger direbbe che oramai soltanto un altro Dio – un Dio ultimo, e non il Dio dei cristiani – ci potrà salvare. Perché “pensare”, nell’era della tecnica, è diventato quasi impossibile: troppo grande è la grandezza di ciò che è da pensare e ormai ci si può solo aprire all’attesa, anche se non passivamente. Si tratta di preparare la disponibilità a tenersi aperti per la venuta o l’assenza del Dio ultimo. Il che vale a dire che occorre recuperare la natura più radicale del pensiero che è di trovarsi in dialogo con il destino del mondo, destino che è la tecnica planetaria. L’Altro a cui ci si deve preparare non è salto, fuga, rinnegamento delle proprie radici, ma ritorno a casa, e superamento (anche hegelianamente) del fatto che la tecnica ci sradica e strappa alla terra. Soprattutto nella terra del tramonto, l’Occidente, la speranza cristiana – il Figlio-Dio che muore e risorge – può costituire la risposta alla ricerca di senso e di pienezza di vita. La pasqua di Gesù, la sua risurrezione dai morti, ci permette di dire che nulla è più come prima e che tutto si trasforma alla luce del mistero del Dio incarnato, morto e risorto.
In questo denso saggio, l’amico e confratello Ugo Sartorio, frate minore conventuale e direttore del Messaggero di Sant’Antonio, sembra dirci, in molti e svariati modi, che l’efficacia dell’annuncio di quella vita buona che sgorga dal Vangelo di Gesù dipenderà sempre di più dalla capacità del pensiero e della testimonianza dei cristiani di farsi pazientemente e criticamente carichi di ciò che oggi possiamo e dobbiamo nominare la fatica postmoderna del credere. Il cristianesimo è ancora in grado di indicare la bellezza e la bontà dell’esistenza – dello stare nel mondo – nella misura in cui i discepoli di Gesù, fedeli alla logica del Regno, sanno impastare la propria identità con i grandi e piccoli eventi della vita e di cogliere nelle sfide di oggi una grande opportunità per ritornare alla fonte della rivelazione cristiana: il Cristo crocifisso e risorto che ha donato la sua vita per il bene di tutti. «Un cristianesimo generico, quasi un liofilizzato dei valori sulla bocca di tutti (bontà, solidarietà, accoglienza…) ma privo dello spigolo della radicalità evangelica, del di più che si sgancia e sbalza dal buonismo di maniera, non fa che contribuire alla diffusa cultura dell’indifferenza, amplificandola. La questione di fondo, in ogni caso, è come il cristianesimo intenda stare all’interno del mondo contemporaneo dopo che si è completamente realizzato l’esodo dalla cristianità» (pp. 13-14). Si tratta di riflettere sulla globalità della vicenda cristiana nel mondo contemporaneo e di attivare un «cristianesimo vivibile, comunicativo, credibile» (p. 39).
Abitare la terra in senso autentico (cristiano) è l’indicazione del destino del mondo che il Vangelo porta inscritto nella sua stessa proposta di vita. Il sistema politico da costruire, ispirato ai valori del Vangelo, non dovrà essere, dunque, lo stato tecnico o globale, che sarebbe l’aguzzino più servile e più cieco nei confronti della potenza della tecnica e dell’era digitale. L’umanità deve ripartire dall’accettazione dei propri limiti e imparare a non credersi padrona del mondo, anche se questo non vuol dire che deve sentirsi caduta in una sciagura inevitabile e senza scampo, perché il nostro compito oggi è far sì che l’uomo giunga almeno a un rapporto soddisfacente con l’essenza della tecnica e della globalizzazione. Può il cristiano dire qualcosa di immediatamente efficace? Sì, perché nessuna aspirazione meramente umana è in grado di produrre una trasformazione immediata dello stato attuale del mondo. Certamente, siamo in una condizione di provvisorietà e bisogna prenderne atto. Del resto, la provvisorietà del pensiero è dovuta al fatto che la strapotenza della tecnica mantiene nel segreto la propria vera essenza e sta appena iniziando ora a dispiegarsi appieno. È in questa condizione di provvisorietà e di fragilità estrema che la proposta cristiana si presenta come “la differenza”.
La prima parte di questo volume (Pensare la differenza) comprende tre capitoli ben articolati: Teologia, scienza che dà “da pensare” (43-62); Eclissi del “luogo” e crisi delle “radici della fede” (63-106); Figure di annuncio nella stagione del postmoderno (107-130). Se la testimonianza è mostrare il Vangelo attraverso il vissuto della comunità e di ogni credente, e l’inculturazione consiste essenzialmente nel riseminare il Vangelo in un mondo che è già cambiato e che è l’altro partner della chiesa – il destinatario della salvezza –, la decantata nuova evangelizzazione si esprime nell’andare al cuore del Vangelo e nel riportare Gesù Cristo al centro del messaggio e dell’annuncio della chiesa. È la storia di Gesù Cristo a fare la differenza, a donare pienezza di senso al nostro modo di stare nel mondo e a riempire di significato ciò che è bello, vero e buono. Un cristianesimo esclusivamente di carta – solido dottrinalmente – non ha più nulla da dire e da proporre all’uomo di oggi senza il vissuto della fede e il racconto personale dell’incontro con il Signore della vita. La storia di Gesù è carica di un “sovrasenso” – il “sovrappiù” del senso sul non senso – che è condensato nell’annuncio della sua morte e risurrezione. «La nuova evangelizzazione è chiaro invito a verificare sempre se il nostro annuncio evangelico è davvero “nostro” (fatto nostro) e davvero sgorga dal Vangelo (che ne garantisce la novità)» (p . 128).
La seconda parte di questo studio (Vivere la differenza) si articola in tre capitoli: Chierici e laici (131-152); Vita consacrata (153-169); Celibato per il Regno e matrimonio cristiano (169-216). La figura piena della vita cristiana è la persona stessa di Gesù Cristo: tutti devono adeguarsi a quest’unica forma. Dunque, nessuno è migliore dell’altro: ogni discepolo di Gesù è responsabile dell’unica missione della chiesa che è quella di annunciare al mondo la salvezza di Cristo. «È puntando a questo obiettivo, ognuno dentro il proprio stato di vita, che laici e preti (religiosi) realizzano se stessi, la chiesa e il regno di Dio. Non a caso, il Regno è l’orizzonte ampio e ultimo dentro il quale si colloca ogni strategia di impegno ecclesiale» (p. 132).
Alla luce della recezione del Concilio Vaticano II, l’autore rileva, nel rapporto chiesa-mondo, che l’una non può stare senza l’altro. Di fatti, la chiesa è nel mondo come il lievito nella massa ed esiste esclusivamente per riconciliare il mondo, per essere suo partner e non antagonista. La sua missione svela non solo la radice-origine trinitaria della sua provenienza – il suo venire dall’alto (oriens ex alto) – ma anche la sua destinazione (il mondo) e il suo servizio (diakonia) per il Regno. Dunque, la presenza della chiesa nel mondo è transitoria, non assoluta, relativa cioè all’avvento della signoria di Cristo, e rivela la forma povera e umiliata della Verità, di Dio nella storia. In tal senso, il popolo santo di Dio, posseduto dalla Verità, da un Amore più grande – il cuore trinitario di Dio –, vive ogni forma di potere come servizio. Dà molto a pensare la riflessione di Sartorio a proposito dei religiosi: belli e non solo bravi (cf. pp. 167-168). È la bellezza e non la bravura che ci fa innamorare, che ci rende testimoni, annunciatori della buona novella. D’altronde, che cos’è la bellezza? Secondo lo stile cristiano – la differenza posta nel cuore di Cristo – non è bello ciò che piace, né ciò che esprime l’armonia delle parti (la simmetria delle forme). È bello, invece, ciò che riconcilia, ciò che ci dona pace, quello che riempie di senso la nostra esistenza. Dunque, nello stile della differenza cristiana, solo il Crocifisso esprime la bellezza che salverà il mondo, che riconcilia, che seduce, che attira a sé, che libera. Interessante anche la riflessione che l’autore fa sul celibato come vocazione, cioè quale risposta al dono di Dio e alla pretesa di radicalità evangelica che tocca anche l’amore coniugale o sponsale (cf. pp. 191-194). Qui l’autore attinge a piene mani dalla posizione di Enzo Bianchi, pur riportando le tesi di Edward Schillebeeckx, di Karl Rahner, di Thaddée Matura, di Bruno Maggioni, di Carlo Rocchetta e di altri autori.
Un cristianesimo per la vita buona può fare la differenza nella misura in cui noi cristiani vinciamo due grandi tentazioni: l’intellettualismo (è il ritorno della gnosi come stato di pura dottrina, della salvezza quale conoscenza, che non prende sul serio e fino in fondo il realismo dell’incarnazione); il moralismo o giuridismo (che si esprime con l’agire morale legato alla logica del “lecito” e dell’“illecito” o anche della soddisfazione dei precetti e delle norme). È tempo di pensare e di vivere la differenza come processo di umanizzazione del mondo. La fatica quotidiana di credere e testimoniare il Vangelo in un mondo che è già cambiato non ammette risparmi né prevede scorciatoie. È una proposta ardua che vincola all’emarginazione, alla marginalità, al disincanto, all’andare contro corrente. Ciò che fa la differenza, dunque, è un cristianesimo di carne che sa fare del vissuto di fede e di amore uno stile di vita che non pretende risposte o attende consensi ma semplicemente di essere luce sul cammino dell’umanità e sale per il bene del mondo e della terra.
Il saggio di Ugo Sartorio, scritto con linguaggio semplice e immediato, dà molto a pensare circa la pretesa cristiana della verità e apre, dunque, a riflessioni e discussioni ancora più complesse. Il testo contiene la postfazione di Armando Matteo (La fatica postmoderna di credere) e la prefazione di Carmelo Dotolo (Il Vangelo, profezia di significato), ed è corredato di fonti e indici (dei nomi e generale).
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2011
(http://www.pftim.it)
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