EAN 9788825029338
In una situazione in cui i cristiani sono chiamati a dare il proprio contributo a una ristrutturazione della vita e della convivenza umana orientata ai valori l’iniziativa di studiare e proporre, accanto ad altri principi – principio-speranza, principio-responsabilità, principio-precauzione, ecc. – un nuovo principio, cosiddetto sabbatico, implica una duplice consapevolezza: il fatto che il dominio tecnico e scientifico non basta da solo a garantire un futuro umanamente degno e la previsione che se gli uomini non si ispireranno a una concezione di vita piú ricca di valori, sia in campo individuale che sociale, la storia finirà per precipitarli in una specie di caos antropologico ed etico che potrebbe segnare, se non la fine della civiltà, certo la fine di questa civiltà, la civiltà europea e occidentale.
L’autore, docente di etica sociale alla Facoltà teologica del Triveneto e all’Istituto superiore di scienze religiose di Padova, mostra di essere consapevole di questo rischio, come anche di trovarsi di fronte a un tema, il principio sabbatico, che è tuttora oggetto di complesse interpretazioni e discussioni, in particolare per quanto riguarda la sua origine e la sua interpretazione. È d’altra parte convinto che il principio sabbatico continui ad avere un’enorme rilevanza non solo per la tradizione ebraica e cristiana, ma piú in generale per la civiltà europea e occidentale. «Nessuna istituzione – egli annota – ha ricevuto uno sviluppo e un interesse cosí ampio e approfondito come il precetto del settimo giorno e dell’anno sabbatico» (p. 8). Il volume presenta una struttura semplice e lineare, direi classica.
È suddiviso in due parti: positiva e analitica la prima, Il riposo sabbatico nella Sacra Scrittura (pp. 15-106); piú sistematica e sintetica la seconda, Il principio sabbatico (pp. 107-264). Difficile sintetizzare, e per me anche valutare, i suoi contenuti, in particolare l’abbondante materiale raccolto nella prima parte, frutto di un’attenta e pressoché esaustiva ricognizione esegetica dei testi biblici riguardanti il riposo sabbatico, a partire dal Pentateuco e dai libri storici e profetici del primo testamento e giú giú fino al nuovo testamento, i sinottici, il quarto vangelo, la lettera agli ebrei.
Molto piú facile, e per i lettori interessante, potrebbe essere la scelta di estrapolare alcuni testi piú noti, da sempre considerati fondamentali per la spiegazione e fondazione del terzo (ma per ebrei, ortodossi e riformati, quarto) comandamento del decalogo: «Ricordati di santificare le feste». Si tratta di tre testi, due del primo testamento (Es 20, 8-1; Dt 5,12-15) e uno del secondo (Mc 2, 23- 27), che riportano motivazioni sorprendentemente diverse del comandamento, ma convergono nel rilevarne la portata sociale. Il primo testo, Es 20, 8-11, rimanda ai racconti della creazione e ricorda che ogni uomo è stato creato a immagine di Dio: egli deve riposare perché anche Dio, suo Creatore, riposò nel settimo giorno. Il secondo testo, Dt 5,12-15, insiste maggiormente sul fatto che Dio ha liberato il popolo d’Israele dall’Egitto: gli israeliti devono riposare per non dimenticare di essere uomini liberi.
L’intenzione profonda del comandamento che si intravede nei testi citati è che ogni settimo giorno il popolo di Israele, ma piú in generale tutti gli uomini, devono riposare per prendere coscienza della loro dignità e libertà. Sono stati liberati dal caos originario e dalla schiavitú, devono quindi vivere e rinnovarsi nella loro qualità di esseri liberi. Non solo, ma non devono ridurre in schiavitú – ecco l’aspetto sociale – altri uomini. Semmai il dono della libertà li impegna a liberarli dalla condizione di schiavitú, di privazione della libertà. Non a caso «il credente ebreo – ricorda opportunamente Bozza concludendo l’analisi della pericope del Deuteronomio – doveva assumersi la responsabilità di liberare, almeno per un giorno alla settimana, coloro che erano oppressi dal lavoro, perché egli stesso era stato liberato da Dio in terra di Egitto» (p. 50). E cosí – osserva ancora Bozza – il riposo sabbatico non si dissolve nella dimenticanza.
Tanto meno si trasforma nella celebrazione di una libertà vissuta solo interiormente, intimisticamente. La motivazione teologica diventa pratica, umanitaria, avvia un processo di liberazione storica. E un comandamento, che pure presupponeva l’esistenza di schiavi, acquista una dimensione nuova, dinamica, si appresta a scalzare la base di una società schiavista rifiutando di riservare, d’ora in avanti, lavoro e riposo a gruppi diversi di uomini. Il cammino verso il superamento della schiavitú e il riconoscimento della pari dignità giuridica e morale di ogni uomo e donna durerà, certo, piú lungo. E il processo di liberazione incontrerà ostacoli e contraddizioni a non finire. Anche perché un comandamento nato per far rivivere un’esperienza di libertà finirà ben presto per essere utilizzato per comprimerla. Si pensi alla realtà del sabato ebraico. Al tempo di Gesú era regolato da un’infinità di prescrizioni talmente minuziose e complesse da far pensare che il tempo donato a Dio fosse per cosí dire sottratto all’uomo.
Era uno stravolgimento del significato originario del comandamento. Gesú si ribella e viola ostentatamente il sabato. «Il sabato – dichiara – è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,23-27). Dichiarazione, questa, che dovrà pagare a caro prezzo, ma che restituiva al sabato e al riposo sabbatico il suo il significato originario umanamente liberante. Che per altro il giudaismo conosceva bene, ma non praticava. O se lo praticava, si trattava piú che altro di pratica formale, esteriore, soggetta a un’infinità di interpretazioni piú o meno legalistiche e oppressive che finiranno, purtroppo, per ricomparire anche nel cristianesimo, facendo della domenica cristiana, nel frattempo subentrata al sabato ebraico, non piú il giorno della libertà, della comunità, della festa, della gioia, ma un giorno regolamentato piú degli altri da un’infinità di prescrizioni, leggi e precetti. Già l’espressione «precetto festivo» per indicare l’obbligo del culto domenicale è significativa al riguardo. Sia ben chiaro: la partecipazione dei cristiani al culto domenicale è certo irrinunciabile.
Ma dove il rapporto di amore con Dio viene ridotto al dovere della frequenza alla messa si cade facilmente, se non fatalmente, in una situazione simile a quella di due coniugi le cui relazioni si riducano alla rivendicazione dei «doveri coniugali». Bene ha fatto pertanto l’autore, nella seconda parte del suo lavoro, a riprendere e reinterpretare il principio sabbatico ridonandogli il significato perduto, ma soprattutto risignificandolo non solo come esperienza di libertà, di comunità, di festa, di gioia, ma anche come presidio e salvaguardia del tempo, del creato, della società, dello stesso uomo, chiamato a ritrovare o, forse meglio, a ridare al riposo della domenica significati esistenziali e comunitari nuovi, non solo normativi, ma di compimento. A noi occidentali, sopraffatti dalla frenesia dell’attività, dell’interesse, dell’efficienza, del risultato, tutto questo non può che riuscire particolarmente difficile da comprendere e soprattutto da vivere.
E in effetti per comprenderlo e praticarlo in modo significativo occorre ripensare la stretta connessione che c’è tra attività e passività. Laddove non si vede o non si vive tale connessione, lo «stato di riposo» diventa un’esperienza di vuoto, di assenza, di inutilità. È forse qui che ha origine la famosa «sindrome della domenica» di cui parla V. Frankl, e cioè quel particolare tipo di nevrosi per cui nei giorni di festa le persone diventano tristi, malinconiche, annoiate. Non sanno cosa fare, dove andare, s’inventano viaggi, hobby, attività varie, in attesa che arrivi il lunedí e tutto ricominci a girare a dovere, a funzionare, e la vita riprenda il suo ritmo, il suo senso. A fronte di questa specie di paranoia collettiva è presumibile che il lavoro di Bozza non abbia risonanza, effetto alcuno. O tutt’al piú l’effetto di un pugno sull’acqua: qualche spruzzo e tutto torna come prima. Sarebbe invece auspicabile che avesse l’effetto di un pugno allo stomaco della civiltà del fare, del produrre, del movimento senza sosta, spesso senza orientamento. E la reazione non fosse, come si può facilmente prevedere, di insensibilità e indifferenza, ma determinasse atteggiamenti e comportamenti nuovi, se non all’interno della società, cosa abbastanza improbabile, almeno all’interno della chiesa, delle comunità cristiane.
Da tempo non si parlava in modo cosí diretto, esplicito, quasi provocatorio, di «santificazione» della domenica, liberandola da uno svuotamento di significato che oggi piú di ieri la minaccia fino a trasformarla in un giorno uguale agli altri, seriale, piatto, senza qualità. «Santificare» la domenica significa tirarla fuori dall’ambito della serialità e imparare a viverla in modo altro, diverso, piú gioioso e creativo. Viene da chiedersi se la radice del nostro disagio nei confronti del cosiddetto tempo libero, in realtà un tempo sempre piú occupato da un vago senso di malessere, di vuoto, non vada ricercata nel fatto che non siamo piú in grado di «santificare» o quanto meno di «valorizzare» in modo debito la domenica.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2012
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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