In questo scritto inedito, risalente forse agli anni ottanta o novanta, Kolakowski espone una filosofia della storia che indica provocatoriamente una perdita, o una sconfitta crescente del nostro tipo di civiltà: lo svanire del fondamento religioso renderà la vita impossibile, presto o tardi, alle nostre società. Secondo Kolakowski, infatti, il senso dei valori, ovvero la distinzione fra il bene e il male, ha radici nella tradizione cristiana; sarebbe però inutile un riferimento al diritto naturale, poiché anch'esso, non essendo osservabile sperimentalmente, non può esistere senza un riferimento a una fondazione trascendente. E, poiché la tradizione cristiana conosce, nei nostri paesi democratici, una profondissima crisi, la distinzione tra il bene e il male diventa totalmente arbitraria, affidata alla decisione di poteri o maggioranze in continua trasformazione, e questo significa, in prospettiva, il crollo della civiltà occidentale. Dunque, se i valori non vengono trasmessi dalla religione, ovvero dai residui di essa nelle società moderne (diritto naturale), nulla ci potrà salvare dal crollo definitivo, cioè dall'"abisso" anticipato da Nietzsche con la sua affermazione della "morte di Dio": la quale significa appunto la fine dell'ordine, dell'armonia, di un sistema di valori solidamente stabilito. La trasmissione dei valori è culturale; non è possibile alcun riferimento alla "coscienza" come fonte autonoma, né a ciò che Rousseau chiamava compassione (la "pietà naturale"), come un movimento istintivo, prerazionale, di identificazione con l'altro uomo, con la natura, con il mondo. Se i valori non ci arrivano dalla storia, cioè dal nostro passato, siamo già pronti per la guerra. In breve, quello che emerge con chiarezza da questo saggio di Kolakowski è la critica dell'illuminismo. L'ultimo Kolakowski non ha nessun rapporto con Rousseau; si tiene, invece, molto vicino a Dostoevskij. È l'illuminismo che ha aperto una crepa, una falla che continua ad allargarsi, fino alla rovina della civiltà occidentale.