«Nell'estate del 2021 la mostra che il Museo Novecento ha dedicato ad Arturo Martini ha riportato a Firenze, tra le altre, una piccola scultura realizzata in terra refrattaria che raffigura uno dei personaggi femminili più noti della tragedia shakespeariana, Ofelia. La scultura era stata esposta a Palazzo Ferroni nel 1931. Entrata a far parte della collezione di Castelnuovo-Tedesco in occasione della mostra fiorentina, era rimasta in città alla partenza della famiglia a pochi mesi dall'entrata in vigore delle leggi razziali, per ricomparire nel Dopoguerra nella nuova casa dei Castelnuovo-Tedesco insieme con quei "mobili superstiti delle nostre case passate" evocati da Mario nella sua autobiografia. Era, quindi, con ogni probabilità sempre rimasta in città, nascosta, per poi partire verso gli Stati Uniti dopo la morte della moglie di Mario, Clara, avvenuta nel 1989. Seguendo Ofelia è un omaggio a quest'opera di grande forza evocativa e all'uomo che l'aveva custodita per tutta la vita, Mario Castelnuovo-Tedesco. L'attenzione su Ofelia ci ha portato infatti a ripensare alla formazione culturale del compositore fiorentino, nutrita anche di arti visive, e di osservarne da un punto di vista privilegiato la vita, in particolare quei primissimi anni Trenta in cui la sua casa fiorentina era aperta ad artisti, letterati e musicisti, e offriva le pareti alle tele degli amici pittori. Il nostro racconto si arricchisce, attraverso i ricordi dello stesso Castelnuovo-Tedesco, delle suggestioni iconografiche che sono state fonte di ispirazione per le sue composizioni, dando vita a un gioco di rimandi in cui anche le dediche a stampa negli spartiti ci riportano al ricchissimo panorama figurativo che animava la vita e l'opera del musicista ed insieme al fervido clima culturale fiorentino tra le due guerre. Ma la vicenda di Mario Castelnuovo-Tedesco e della sua Ofelia riporta alla mente anche un destino comune a tantissime opere d'arte durante gli anni delle leggi razziali, trafugate, sottratte, nei casi più fortunati nascoste con l'aiuto di amici o conoscenti e riportate alla luce dopo il conflitto. A noi evoca soprattutto la sorte della collezione di Leone Ambron, che a quella data già comprendeva il nucleo più cospicuo di quadri macchiaioli. Miracolosamente sfuggite alle requisizioni, donate proprio all'indomani della Liberazione e oggi esposte alla Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti, quelle tele ponevano le basi di un lascito che oggi arriva a contare quasi quattrocento opere. Un gesto di grande generosità, certo, ma che in quel momento storico acquistava anche il valore di straordinario senso di appartenenza a quel paese che pochi anni prima lo aveva privato di ogni diritto, compreso quello di possedere opere d'arte.» (Giovanna Lambroni e Dora Liscia Bemporad)