L'italiano Cardinale Giacomo Biffi con questa nuova edizione delle sue memorie e digressioni rompe eccezionalmente il silenzio che sta accompagnando il suo ''ultimo tratto di vita terrena''. Troppo urgenti le questioni che in questi ultimi anni hanno segnato la vita ecclesiale, politica e culturale del nostro paese, per non accogliere l'invito giunto da piu' parti ad offrire una parola, un giudizio, un'opinione su temi specifici di importanza cruciale.
L'autore affida alla sua penna pungente, amabilmente chiara, provocatoriamente irriverente, il suo giudizio sul post-concilio, sul celibato, sull'omosessualità, sul ruolo delle donne nella Chiesa cattolica e nella società, sugli scandali che hanno colpito la Chiesa e su molto altro ancora. Un intelligente testimone della nostra epoca, la cui libertà è stata forgiata nella fede, che senza sosta oppone alla vanità di oggi la sua incessante ricerca della Verità.
INTRODUZIONE
Le memorie
Ricordare bisogna. Il principio è assoluto. Vale per ogni stagione della vita: chi non ricorda non può nemmeno pensare, l’aveva già notato sant’Agostino; ma diventa addirittura imperioso per chi, come me, ha ormai iniziato il tratto conclusivo del suo pellegrinaggio. Di tutti i campi dell’esistenza che abbiamo tentato di conquistare o almeno di percorrere e “segnare” in qualche modo, la memoria è il solo “dominio” che ci è rimasto (ed è anch’esso in pericolo, perciò va tenuto in esercizio fin che si può).
Ma è proprio necessario anche mettere per iscritto ciò che viene alla mente? Sì, perché le reminiscenze degli anziani sono, per così dire, volatili ed evanescenti: svaporano col passare non dico dei giorni, ma persino delle ore e dei minuti, sicché a un certo punto non c’è in noi molta differenza, a proposito di un dato argomento, tra il ricordare e il non ricordare.
Si devono poi pubblicare le pagine che bene o male si sono scritte? Sì, se si ha la fortuna di trovare un editore dotato al tempo stesso di misericordia e di coraggio: senza la prospettiva e il traguardo (almeno intenzionale e sperato) di un’eventuale pubblicazione, è fatale che dopo aver cincischiato un po’ sulle sudate carte, ci si arrenda alla pigrizia; e che alla fine «sull’eterne pagine cada la stanca man».
I dubbi
Ci sarà poi qualcuno che presterà un po’ di attenzione a queste memorie? Molti dubbi mi assalgono a questo riguardo. Non ho niente di straordinario o almeno d’insolito da raccontare; non ho avuto una vita avventurosa come Giacomo Casanova, non sono stato in prigione come Silvio Pellico, non posso descrivere il tormento interiore ed esteriore di una difficile conversione dopo una stagione eretica e scioperata come sant’Agostino: tutto nel mio cammino è “piccolo”, tutto è normale, tutto è scontato. A chi può interessare una vicenda umana come questa, senza sbalzi, senza emozioni, senza avvenimenti particolarmente drammatici?
Se uscirà questo ipotetico libro, è fuori discussione che lo leggerò io, e con molto coinvolgimento e piacere: da qualche tempo sono tra i pochi autori che mi avviene di accostare senza interiori dissidenze. Ma gli altri?
Noi siamo la somma di quello che siamo stati: perciò dopo questa lettura è probabile che abbia a conoscermi un po’ meglio. “Conosci te stesso”: l’ammonimento stava sul frontone del tempio di Delfi, e già nell’antichità era tenuto in grande onore. Anche gli altri, se ce la faranno a percorrere queste pagine, avranno forse di me un’idea meno schematica e approssimativa. Ma perché mai gli altri dovrebbero ambire di conoscermi?
La risoluzione
Insomma, li scrivo o non li scrivo questi benedetti ricordi? Non sapevo proprio risolvermi, fino a che mi sono imbattuto, non so più dove, in un convincimento apodittico: “Il mondo – sentenziava un autore che mi è avvenuto di leggere – è pieno d’imbecilli che pubblicano le loro memorie”.
Ma allora – mi sono detto – uno in più che sopraggiungesse non potrebbe recare gran danno all’umanità. E così mi sono deciso; tanto sono imprevedibili e strani i percorsi che portano un uomo a determinarsi e misteriose le ragioni effettive dei nostri comportamenti.
Le digressioni
Cercherò quindi di scegliere dal guazzabuglio dei giorni trascorsi (e di registrare con sobrietà) quelle parole e quei fatti che, a diverso titolo, mi sembreranno meritevoli di essere salvati dalla dimenticanza. E sarà la cura primaria.
Non mi propongo però di essere semplicemente un cronista: l’intendimento dichiarato di queste mie scorribande nel passato è di ricavarne anche qualche luce per il mio residuo presente.
Si spiega così come mai s’intrufoleranno qua e là nel discorso delle “digressioni” – cioè delle libere divagazioni – di solito però con qualche attinenza prossima o remota all’argomento di cui si sta trattando.
Un italiano cardinale
“Un italiano cardinale”: perché preferire questa alla locuzione più consueta “un cardinale italiano”? Per mettere in chiaro qualche idea semplice e dissipare qualche piccolo preconcetto.
È opportuno che non si perda di vista la successione delle qualifiche: la mia identità nazionale ha preceduto di molti anni il mio ingresso nel Sacro Collegio. È banale notarlo, ma forse non è inutile: qualcuno pare inconsciamente supporre – quanto meno è l’impressione suscitata dai suoi discorsi –, che gli uomini di Chiesa nascano in abiti clericali e perfino già adorni dei sacri paramenti. Posso assicurare che non è così: nascono, crescono e almeno nella prima parte dell’esistenza vestono come tutti.
La mia connotazione di credente e addirittura di vescovo non àltera in nessun modo e non sminuisce affatto la mia italianità. L’ecclesiasticità non è una prerogativa che, sotto il profilo dell’italianità, giustifichi una collocazione a parte entro la popolazione della penisola.
Mi preme anche sottolineare a questo proposito che io sono italiano non per i meriti del conte di Cavour o del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), né in grazia della Costituzione repubblicana. Io sono italiano perché sono italiano; e nessuno può farci niente, nemmeno io. L’italianità è qualcosa di antecedente e di eccedente: è più grande degli ultimi due secoli della storia d’Italia, che pure sono meritevoli di rispetto e di giusta attenzione.
In quanto italiano ho, come tutti, la prerogativa di dire quello che voglio. Me ne dà concreta e tranquilla garanzia la “laicità” del nostro Stato, perché uno stato laico (se è davvero tale) accorda la facoltà di parola a tutti, persino agli uomini di Chiesa; e si preoccupa solo che tutti possano liberamente parlare e a tutti sia dato di scegliere se ascoltare o non ascoltare, se accogliere o non accogliere, quello che è stato offerto alla pubblica attenzione. In uno stato laico, un cittadino che si permetta di opporsi al desiderio di chicchessia a esprimersi come gli pare, e su qualsivoglia argomento, pecca proprio contro l’indole essenziale della laicità. Certo gli rimane il privilegio inalienabile di discutere e di contestare ogni parere e ogni detto di cui gli sia giunta qualche notizia, ma solo nel merito non quanto al diritto dell’altro di parlare.
Un’ultima annotazione: un successore degli Apostoli – un vescovo – sa (anche se gli altri non sono obbligati a crederlo) che egli ha qualcosa in più, e gli viene da un’autorità diversa e più alta. Un successore degli Apostoli non solo ha come tutti il diritto di parlare, se gli garba; ha addirittura il dovere e il compito di parlare in virtù di una missione ricevuta. Il Signore dell’universo, degli uomini e della storia glielo ha conferito senza restrizioni geografiche o sociali o culturali o politiche: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19).
A me personalmente poi risuona con insistenza nell’animo quanto dice sant’Ambrogio, mio padre e maestro: «Per un vescovo non c’è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero» (Ep. 74, 2). Mi auguro di non dimenticarmene nel compilare queste Memorie e digressioni di un italiano cardinale.
Tre parti
La mia vita è divisa in tre parti. La prima parte va dalla nascita e dal battesimo all’ordinazione presbiterale (1928-1950). La seconda è interamente contrassegnata dal mio ministero nella Chiesa di Milano (1950-1984). La terza coincide con la mia “avventura bolognese” (dal 1984). Saranno perciò tre le parti di questo libro.
“Riveduta e ampliata”
La presente ristampa, a differenza delle precedenti, a giusto titolo può essere qualificata “edizione riveduta e ampliata”. Ho avuto infatti l’agio, in questi anni, di riesaminare il testo in ogni sua pagina, di inserirvi talvolta qualche breve riflessione chiarificatrice e diverse nuove digressioni, di integrarlo con i rari interventi pubblici che eccezionalmente hanno interrotto il silenzio di questo mio ultimo tratto di cammino terreno.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
LE “PICCOLE PATRIE”
1. L’ambiente
Una piccola umanità
Negli anni Trenta via Paolo Frisi era un bel campionario di piccola umanità. Nei suoi caseggiati, caratterizzati il più delle volte dalle tipiche ringhiere ottocentesche, si addensavano le famiglie degli operai, dei tranvieri, dei piccoli artigiani: calzolai, tappezzieri, fabbri, elettricisti. In via Paolo Frisi era difficile incontrare i dirigenti della Montecatini o gli azionisti della Pirelli o gli alti funzionari dello Stato. Anche le duchesse si facevano vedere poco, ma non se ne avvertiva la mancanza.
Era un popolo con una sua dignità e una sua fierezza; la dignità del proprio lavoro, la fierezza di riuscire a sbarcare il lunario senza debiti, con la doverosa attenzione a difendersi dai piccoli prepotenti e dagli scrocconi (insomma da quella genìa, immancabile nella commedia umana, che pretende di vivere a spese altrui evitando di faticare).
Qui l’antica civiltà milanese stava trascorrendo ignara la sua estrema stagione.
Le botteghe
È incredibile il numero di botteghe che si affacciavano su una strada che forse non arrivava a centocinquanta metri: a ogni passo (quasi alla lettera) ce n’era una. Tutti i generi di negozi erano rappresentati, anche con molti doppioni. Si potevano leggere le insegne più consuete, come quella del fornaio (prestinée), del droghiere (fondeghée), del salumiere (cervellée), del carbonaio (sciostrée); ma anche alcune abbastanza rare nelle altre parti d’Italia, quali el polentatt (il venditore di polenta), che offriva anche il merluzzo già cucinato e i deliziosi pessìtt (pesciolini), nonché el busecchée (il venditore di trippa).
C’era perfino – ed era un segno indubbio di attenzione alla modernità – una “Casa del conducente” (bella versione purista del termine effettivamente da noi usato che era sciaffeur), dove l’autista e il camionista potevano acquistare tutto ciò che serviva alla loro professione.
Vitalità femminile
A una cert’ora del mattino, via Paolo Frisi brulicava di vitalità femminile. A frotte le donne – dopo aver riassettato i pochi locali, e aver spedito i mariti al lavoro e i ragazzi a scuola – uscivano a provéd (cioè a fare la spesa). Nei negozi erano piuttosto sollecite, secondo l’indole milanese. Ma per la strada, provenendo da diverse “porte” (così chiamano là i caseggiati), avevano modo di salutarsi con agio, di aggiornarsi reciprocamente sulle novità più recenti, di scambiarsi i pareri sull’aumento dei prezzi e sul comportamento delle vicine. Alla sera poi gli uomini venivano informati di tutto. E così la semplice coesistenza dei residenti si avvantaggiava di un minimo di socialità e di una certa dimensione comunitaria.
Qui, entro questa “piccola umanità”, è cominciata la mia storia.
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Don Francesco Marinoni il 7 settembre 2018 alle 11:27 ha scritto:
Bel libro, autobiografico.
A. Di cola il 4 febbraio 2022 alle 22:29 ha scritto:
La figura del cardinal Biffi è, a mio avviso, sottostimata e andrebbe riproposta non solo ad un pubblico avvezzo all'alta spiritualità ma anche in ambienti laici. Il libro in questione trabocca di sense of humor e profondità straordinaria, in uno stile coinvolgente e sempre divertente, come solo il card. Biffi poteva essere. Non perdetevi questa lettura!