In persona Christi capitis. Il ministro ordinato come rappresentante di Cristo capo della Chiesa nella discussione teologica da Pio XII fino ad oggi
EAN 9788882725310
L’autore di questa poderosa tesi è un sacerdote brasiliano della “nuova comunità” Shalom, attualmente impegnato pastoralmente a Toulon. Come dice il card. Cordes nella prefazione, lo studio proposto offre un «notevole contributo alla discussione contemporanea» in merito al tema del presbitero come rappresentante di Cristo capo della Chiesa. Si tratta di una tesi, diretta dal prof. M. Haucke, difesa nel 2009 alla Fac. Teol. di Lugano. Essa consta di otto sezioni: 1.
L’immagine biblica del “capo” e la sua ricezione in s. Agostino (13-48); 2. Il legame tra la formula in persona Christi e la capitalità di Cristo nella teologia fino all’enciclica Mystici corporis (49-88); 3. La relazione tra Cristo e la Chiesa nell’azione del sacerdote nelle encicliche Mystici corporis (1943) e Mediator Dei (1947) (89-132); 4. L’ecclesiologia di S. Tromp (+ 1975) come supporto teologico dottrinale dell’insegnamento magisteriale (133-161); 5. Il concilio Vaticano II e l’espressione in persona Christi (161-210); 6. L’espressione in persona Christi nei documenti magisteriali post-conciliari (211-310); 7.
La discussione teologica recente (445-512); 8. Panoramica sistematica della questione (445-512). Il volume si chiude con una conclusione e una abbondante e assai mirata bibliografia internazionale (più di 600 titoli). Il merito maggiore è quello di acclarare alcuni dati di teologia “positiva”. L’espressione in questione è tipica del Vaticano II e si trova esplicitamente in PO 2 e implicitamente in PO 12 e 13 e in LG 10 e 28. Essa è però del tutto “tradizionale” perché corrisponde ai contenuti dottrinali del depositum fidei, il quale ha colto il mistero della repraesentatio da parte di vescovi e presbiteri di Cristo in quanto capo, ossia autorità e principio vitale per la Chiesa. Il postconcilio ha canonizzato questa formula (vedi soprattutto CIC 1008, PDV 15, CCC 1581).
Non possiamo riassumere i diffusi percorsi di Dantas attraverso la storia della teologia, cosa che egli fa con ottime guide (specie Antòn e Congar) e riportando con dovizia testi e citazioni. Talvolta, in vero, – e la mole del libro ne risente – l’analisi è forse addirittura troppo dispendiosa. Un’attenzione particolare merita il cap. 8 che espone la proposta sistematica dell’autore. Tutto muove dalla metafora paolina del Cristo come kephalê. Tale “primato” è stato letto da Tommaso e dalla scolastica come preminenza e governo, ma anche perfezione e influsso vitale e capacità di conformazione. Tale prospettiva si prolunga (con una sottolineatura “nuziale”) da Bellarmino a Pio XII, passando per l’Ecole française e Leone XIII. Il Vaticano II la fa sua e la connette al sacramento dell’ordine mediante la dottrina dell’impressione del carattere (PO 2).
Dilatando la prospettiva della Mediator Dei, questo brano conciliare non riferisce la dicitura “in persona di Cristo capo” «soltanto al munus sanctificandi… ma include anche il munus regendi e il munus docendi » (482; pure 514). La specificità del ministero ordinato è quindi di essere “ripresentazione sacramentale” di Cristo come capo. L’aggettivo “sacramentale” si riferisce certo all’origine del ministero, ma anche alla valenza della rappresentatività del sacerdote il quale diventa “segno sacramentale” di Gesù Cristo, ne prolunga la presenza (cf. PDV 14-15) come sua “icona vivente” (cf. Ratio fundamentalis, 11).
La capitalità di Cristo è rappresentata dai sacerdoti della nuova alleanza sotto le tre dimensioni di autorità (PDV 16; 21), influsso vitale/mediazione (MC nn. 198ss) e sponsalità (Inter insigniores v; PDV 22). Va comunque notato che tale primato del sacerdote è tutto funzionale alla comunione e va vissuto nell’ambito agapico dell’unico corpo. La conclusione (513ss) richiama l’ascendenza scritturistica della formula, l’influsso decisivo di Pio XII e i principali acquisti soprattutto alla luce della dottrina del carattere e della rappresentazione sacramentale. Si ricordano pure le ricadute della dimensione sponsale per quel che concerne l’inamissibilità delle donne al sacerdozio (Ordinatio sacerdotalis) e per il celibato clericale (Sacerdotalis caelibatus).
L’informazione è abbondante, lo spirito autenticamente cattolico e del tutto fedele al magistero; le riflessioni suggerite pertinenti. Il libro, pur non contenendo novità flagranti, si raccomanda soprattutto per l’apporto documentaristico e la completezza del materiale; esso illustra splendidamente come la formula in persona Christi capitis, pur essendo materialmente una “novità” dell’ultimo Concilio, non è che una innovatio nella traditio. Essa si rivela un passo in avanti (a parer nostro necessario) nella dottrina perché distingue il proprium della rappresentanza di Cristo dei ministri ordinati rispetto ai fratelli nella fede, che sono pure loro “altri Cristi”. In questa linea, va sottolineato che, probabilmente, il riferire la generica dicitura “in persona di Cristo” – impostasi con Pietro Lombardo dal XII sec. in poi – esclusivamente ai sacerdoti abbia contribuito ad un tendenziale clericalismo. Al riguardo facciamo questa ultima nota a mò di provocazione: se si può e si deve dire ormai che il ministro ordinato agisce, nell’esercizio dei munera ricevuti nell’ordinazione, in persona di Cristo capo; non si potrebbe e dovrebbe dire che quando un fedele cristiano (laico) agisce conforme ai munera ricevuti nel battesimo/cresima (preghiera, annuncio, testimonianza), egli agisce in persona di Cristo tout court? Siamo grati all’autore per questo suo sforzo che gioverà a teologi, ma anche a liturgisti e canonisti.
Tratto dalla rivista Lateranum n.1/2012
(http://www.pul.it)