La metamorfosi della Città di Dio è un brillante excursus sulla "Città di Dio": da Agostino a Comte, passando attraverso Ruggero Bacone, Dante, Cusano, Campanella, l'abate di Saint-Pierre, Leibniz. Il filo rosso è la trasformazione del concetto agostiniano di civitas Dei nella Cristianità medievale, e, successivamente, nella società universale degli uomini, che sta al centro del pensiero moderno. La metamorfosi è il risultato della secolarizzazione dell'ideale orginario. L'ultima sua forma è l'Occidente europeo, la cui costruzione ideale, come si ricava da molti passi del volume, è, tra approvazione e riserve, il vero tema di questo saggio di Gilson.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
La Città di Dio e l’idea di Europa
Il “neutralismo” europeo e l’affaire Gilson
Nel 1952 Étienne Gilson pubblica Les métamorphoses de la cité de Dieu. Il lavoro è il risultato di dieci conferenze tenute a Lovanio, sempre nel 1952, per l’inaugurazione della nuova cattedra Cardinale Mercier. Nonostante il successo delle conferenze il libro, secondo il biografo Laurence Shook, fu «immeritatamente trascurato, forse a causa dell’affaire Gilson, o forse perché accenna di rado alla scolastica e a S. Tommaso». In realtà delle due motivazioni è probabilmente la prima, l’affaire Gilson, quella che spiega, almeno in parte, la disattenzione con cui il testo fu accolto nonostante l’interesse dell’argomento.
L’affaire Gilson era scoppiato il 15 dicembre 1950 allorché Waldemar Gurian, un fuoriuscito russo dalla Germania nazista, docente di filosofia politica alla Notre Dame (Indiana) ed editore della “Review of Politics”, pubblicò su “The Commenweal” una lettera aperta a Gilson su L’Europa e gli Stati Uniti. La lettera faceva riferimento ad alcune conversazioni private, avute da Gilson in occasione di un ciclo di conferenze tenute in America, alla Notre Dame, tra il 30 novembre e il 2 dicembre 1950. Gurian accusava il filosofo francese di diffondere il vangelo del disfattismo, di favorire una politica neutralista della Francia nello scontro tra Est ed Ovest, di essere un oggettivo alleato del comunismo internazionale. Il 27 gennaio la lettera di Gurian venne tradotta in francese ne “Le Figaro littéraire”, dopo di ché tutta la stampa di Parigi risuonò dell’“affaire Gilson”. L’eco fu notevole perché la lettera di Gurian richiamava, indirettamente, una serie di articoli, pubblicati da Gilson nel 1950 su “Le monde”, nei quali «egli riteneva che l’allineamento, sia con la Russia che con l’America, avrebbe portato direttamente alla guerra. La Francia sarebbe stata invasa e conquistata in una settimana e il suo popolo schiacciato come mai prima d’allora».
Accusato di “neutralismo” il grande medievista, accademico di Francia, divenne oggetto, nella prima metà del ’51, degli attacchi più disparati, dai seguaci della destra di Charles Maurras, a taluni settori del mondo cattolico, ai fautori di un’alleanza senza condizioni con gli Stati Uniti. Al contrario la rivista “Esprit”, fondata da Emmanuel Mounier, doveva accogliere le sue tesi, ospitando nel numero di aprile del ’51 la sua Apologia pro vita sua con un bel commento di Albert Beguin. Le critiche lasciarono comunque il segno e, per un certo arco di tempo, la fama di Gilson subì una significativa eclisse. È in questo contesto che esce Les métamorphoses de la cité de Dieu, un’opera che ripercorre lo sviluppo dell’idea di società universale, da Agostino a Comte, la quale ha chiaramente di mira l’attualità storica: quella della costruzione dell’Europa post-bellica. Il testo in alcuni passaggi, lungi dal dissipare i dubbi che erano all’origine delle accuse al “disfattismo” gilsoniano, pareva confermarli.
Tra i punti controversi v’era quello concernente la “cultura europea”. Gilson era «riluttante a definire i contorni della cultura europea. Per lui, la cultura in Europa risaliva a diverse fonti, molte delle quali orientali. Era anche proseguita in numerosissime maniere in altre parti del mondo, come l’America e la Russia, e apparteneva a qualunque luogo nel quale si fosse manifestata». In un dattiloscritto del 1950 scriveva che «la nozione di culture européenne è ingannevole. Un’Europa unita politicamente ed economicamente potrebbe diventare una realtà altrettanto definita di quella degli USA. In essa tutto sarebbe europeo tranne la cultura. L’unico compito dell’Europa in questo campo è di lavorare da parte sua per mantenere viva la cultura del mondo».
La diffidenza verso la possibilità di definire una “cultura europea” torna ne Les métamorphoses al punto da costituire, come vedremo, l’assunto di fondo dell’opera. In una nota del volume Gilson distingueva due significati di Europa: uno concreto, geografico-politico, ed uno astratto, teso a rinvenire uno “spirito” ed una “essenza”. Questo secondo significato non era, però, solo “europeo”. Gli apporti della cultura araba alla scienza erano rilevanti. D’altra parte le analogie tra Europa ed America rendevano labili i confini culturali. «Si tratti del Canadà, degli Stati Uniti, del Messico, o delle repubbliche sud-americane, come situarli in Europa? E d’altra parte, come attribuir loro, che molto spesso presentano sfumature locali meno accentuate di quelle che si notano nella stessa Europa, uno spirito che non sia l’europeo?».
Le esitazioni di Gilson non infirmavano la fiducia che egli riponeva nel processo di “federazione” degli Stati europei. Quel processo non poteva però trovare la sua legittimazione nella enucleazione di uno “spirito” europeo, in una tipologia culturale. Esso doveva cercare altrove le sue condizioni di possibilità. Questo era l’intento, più o meno dichiarato, che stava dietro Les métamorphoses de la cité de Dieu. L’affaire Gilson, sotto questo profilo, rischiava di confondere e di rendere equivoco il punto di vista del filosofo oltre ogni limite. In realtà i sentimenti filo-europei di Gilson non erano in discussione, né il suo neutralismo significava il ripiegamento in un nazionalismo egoistico. Ne è riprova la sua attiva partecipazione nel dopoguerra, quale rappresentante del Ministero degli esteri francese, alla costituzione dei principali organismi internazionali. Gilson fa parte della delegazione francese alla conferenza di San Francisco, nel 1945, da cui doveva sorgere la Carta delle Nazioni Unite. Partecipa, sempre in veste di delegato, alla conferenza di Londra, dell’ottobre ’45, da cui sarebbe nata la costituzione dell’UNESCO.
È nella discussione e nella riflessione richiesta dalla partecipazione a tali organismi che matura in lui la concezione europeista, una prospettiva che coincide, in parte, con il suo impegno politico nel Mouvement Républicain Populaire (MRP) e con l’incarico di consigliere della Repubblica che riveste dal 28 marzo del ’47 agli inizi del ’49. Se l’interesse politico cederà ben presto il posto al disincanto non sarà così, invece, per quello europeo, sorto sull’onda della seconda guerra mondiale. Ancor prima dello scoppio del conflitto, nel maggio del ’39, Gilson si era identificato con Erasmo, con l’intellettuale umanista «che odiava la guerra, che giudicava anticristiana, inumana, vile, stupida». Nel novembre-dicembre del ’39 aveva tenuto, in Canada, conferenze sulla Société universelle e su L’Europe et la paix. Nello stesso arco di tempo, confidando nell’umanesimo come antidoto alla guerra, aveva svolto un ciclo di lezioni su La cultura classica romana da Cicerone ad Erasmo. Nel dopoguerra il suo europeismo non cessa con la Carta dell’UNESCO. Nel 1955 lo ritroviamo ai convegni di Firenze, organizzati da Giorgio La Pira, con una relazione su L’universalisme et la paix. Nel settembre 1958, al convegno della cultura europea, che si tiene a Bolzano, parla de L’unificazione europea. La realtà e i problemi. La vocazione europea di Gilson era indiscussa. Ciò che invece era problematico era la sua fede nell’idea di Europa. Il vecchio continente si avviava, nel corso degli anni ’50, ad una integrazione economica senza essere in grado di suggerire la sua forma ideale. «Quante volte, nel corso di riunioni in cui tanti grandi spiriti scrutavano con speranza l’avvenire dell’Europa unita, quante volte abbiamo inteso dire: Signori v’è chi cerca di dare un corpo all’Europa, ma di che cosa vivrà questo corpo se non gli diamo un’anima? Giusto, ma quale anima? E ciascuno proponeva allora la propria, ma era sempre l’anima di qualche cosa che non era l’Europa: di qualche cosa che essa non è e non sarà mai. Qualcuno osa farlo osservare? È subito accusato di non credere all’Europa, di non aver fede nell’Europa, insomma, di ritardare una nascita cui dovrebbe contribuire. Le sue intenzioni possono invece essere diverse. Egli pensa forse, più semplicemente, che se anche fosse in nostro potere creare anime, sarebbe saggia precauzione, prima di mettersi al lavoro, assicurarsi in vista di quale corpo si fa ciò».
L’annotazione, contenuta ne Les métamorphoses, indica il punto di vista di Gilson: non si tratta di negare un’“anima” all’Europa ma di comprendere quale e dove possa essere situata. Allo scopo le definizioni “filosofiche”, miranti a delineare un’essenza europea, distinta da quella americana, asiatica, africana, islamica ecc., erano fuorvianti. Una civitas universale, come presume di essere la civiltà europea, non si regge sulle proprie gambe, è usufruttuaria di altro. Questa è la tesi che Gilson espone nelle sue lezioni lovaniensi raccolte nel volume Le metamorfosi della città di Dio.
Dalla Città di Dio alla “Cristianità”
Il volume, che esce nel 1952, svolge una tesi analoga a quella propugnata da Karl Löwith nel suo Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History, edito a Chicago nel 1949. Nel suo studio Löwith mostrava la secolarizzazione della teologia della storia nel processo ideale che va da Agostino al XIX secolo. Analogamente Gilson mostrava la secolarizzazione di un’idea, quella di Città di Dio, nel passaggio da Agostino all’era moderna, sino ad Auguste Comte. Per Löwith la secolarizzazione moderna nasceva dal fatto «che il pensiero escatologico fu indirizzato verso le penultime cose, per cui si rafforzò l’impulso secolare in direzione di una soluzione definitiva dei problemi che non possono venire risolti sul loro proprio piano e coi loro propri mezzi». Questo processo viene condotto, nell’era moderna, «da un clero filosofico, che interpretò il processo di secolarizzazione come una realizzazione “spirituale” del regno di Dio sulla terra. Come tentativo di realizzare il pensiero progressivo di Lessing, Fichte, Schelling ed Hegel poté trasformarsi in quello positivo e materialistico di Comte e di Marx». Si trattava di una lettura affine a quella portata avanti, senza che si possa parlare di dipendenza alcuna, da Gilson. Anche per il filosofo francese l’idea agostiniana di Città di Dio, fondata sulla fede e sulla grazia, subisce una modifica, nel Medioevo, e, successivamente, una trasposizione sul terreno secolare che la snatura e la priva di ogni possibilità di autentica realizzazione18. Gilson critica questa trasposizione – la cui forma ultima è l’idea di Europa come società “universale” –; non critica però la modifica medievale del modello agostiniano che si ha con la nozione di “Cristianità” in Ruggero Bacone.
Da antico estimatore di Leone XIII il suo interesse è volto verso l’ideale della “cristianità”, senza che ciò comporti l’ideale del ritorno al Medioevo. Come è detto nella prefazione: «La Respublica fidelium, di cui ha così ben parlato Ruggero Bacone, e che noi siamo soliti chiamare Cristianità, nasce forse da una illusione prospettica, cui sarebbero particolarmente esposti i laici per il fatto stesso che, impegnati nel temporale, ne esagerano l’importanza? O, al contrario, siamo giunti al momento in cui la realtà della Cristianità dev’essere riconosciuta, descritta, definita e inserita al suo posto nella nozione di Chiesa?». Il quesito è fondamentale. Ciò che Gilson si ripromette nel suo lavoro è infatti di mostrare, previo l’accertamento di alcuni limiti, l’attualità del progetto baconiano. Una attualità che prende corpo a fronte della inattualità del progetto secolare della “Città di Dio”.
Lo scacco della secolarizzazione, con la sua idea di una città universale degli uomini derivata storicamente dall’idea di Chiesa, apre le porte ad una nuova rivisitazione della Cristianità, come alveo in cui costruire l’idea di Europa. Se questo è il progetto comprendiamo come Gilson partendo, nel suo excursus, da Agostino, possa riattualizzarne la prospettiva solo modificandola. In Agostino non compare infatti la nozione di “cristianità”, propria dell’orizzonte medievale nel quale la respublica diviene anche formalmente cristiana. Per il teologo di Ippona le città sono due, Città di Dio e città terrena. Sono città mistiche, distinte e al contempo perplexae. La mescolanza dei componenti non elimina il dualismo fondamentale: la civitas terrena rimane tale fino alla fine del mondo, non può divenire una civitas per essenza cristiana. «Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fatto cristiano. La sua civitas Dei non è bensì una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo strutturato cristianamente, bensì è un’entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo avvenire». Nondimeno, ed è la tesi di Gilson, in Agostino, nonostante la chiarezza dell’impostazione del De civitate Dei, permane un’ambiguità di fondo che resiste ad ogni tentativo di soluzione. Da un lato «Agostino non ha mai dunque concepito l’idea di una unica società universale, ma di due, che sono universali almeno nel senso che ogni uomo, chiunque sia, è necessariamente cittadino dell’una o dell’altra». Dall’altro «resta da chiedersi se la sua dottrina implicasse la nozione precisa di un’unica società temporale. No, ma l’ha suggerita».
Attraverso Cesare, divenuto cristiano, la città temporale può essere riformata e divenire immagine della Città di Dio. «Così nel momento stesso in cui poneva la fede come confine di ogni società universale, la dottrina di Agostino suggeriva uno sforzo incessante per respingere questo stesso confine ai limiti della terra». Il Cesare “cristiano” temporalizza, per quanto è possibile, la civitas Dei. Toglie, in tal modo, il dualismo delle città ed apre le porte ad un dualismo interno ad un’unica cristianità: quello medievale tra Chiesa e Impero. È in questa prospettiva che prende forma la respublica fidelium del francescano inglese Ruggero Bacone.