La letteratura e l'inquietudine dell'assoluto
(Il castello di Atlante)EAN 9788881032419
La nostra rivista «CredereOggi» già nel lontano 1994 ha voluto dedicare al rapporto teologia e letteratura un intero fascicolo (n. 83), peraltro non tralasciando di prestarne attenzione anche in molteplici altre tematiche che ne sollecitassero l'interesse. Non solo. Anche la nostra casa editrice, Edizioni Messaggero Padova (EMP), propone un'intera collana dedicata al disvelamento delle tracce del sacro nella cultura contemporanea con l'intento di districare il groviglio dell'esperienza «religiosa» tematizzata nell'opera di autori delle varie forme del sapere (Dostoevskij, Giuliotti, Leopardi, Gozzano, Pavese, Musil, Bernanos, Montale, Sartre, Buzzati, Carter, Pi-randello, Michelstaedter, Stein, Zambrano, Solove'v, Hillesum, Rilke, Schopenhauer, Papini...).
È un piccolo contributo concreto nella direzione della costituzione di un dialogo tra fede e cultura, più propriamente tra teologia e cultura. Su questo versante il nostro autore è uno dei ricercatori pionieri nell'ambito europeo. Studioso domenicano di famiglia ebraica, Jossua ha partecipato al concilio e alle riflessioni che l'hanno preceduto e accompagnato, ponendosi come teologo in permanente ascolto della cultura a partire dalla personale esperienza: «Stavo diventando nel corso degli anni un dogmatico insoddisfatto. E ciò per il fatto che esisteva un altro iato tra l'insegnamento della teologia [...] e l'esperienza di credente, tra fede e pratiche; tra il costruito e il vissuto; tra l'ideologia e la realtà psicologica e sociale: tre punti di vista piuttosto differenti su una stessa distorsione, di cui andavo prendendo coscienza a poco a poco» (pp. 44-45).
La sua propensione alla lettura sin dagli anni della giovinezza, la sua passione per la letteratura coltivata unitamente agli studi teologici lo hanno naturalmente condotto a cercare una risposta a questa incomunicabilità tra teologia e cultura entro la dimensione propriamente letteraria del sapere. Prima di avventurarsi nella rifles? sione, che lo porterà a tematizzare il rapporto tra teologia e letteratura secondo la sua particolare prospettiva, Jossua dedica il primo capitolo a chiarire come si colloca l'elemento religioso in rapporto alla cultura (Cristianesimo e cultura nella modernità). Cultura è da intendersi nel senso più ampio e classico, come la risultanza dell'intenso esercizio delle facoltà lavorative e creative dell'uomo.
In questo senso letteratura è cultura, un terreno particolare, «più ristretto» destinato alle «creazioni intellettuali ed estetiche che si diffondono e si trasmettono ai lettori, ascoltatori, visitatori, spettatori, per trasformarli nel profondo» (pp. 38-39). L'autore quindi offre le coordinate storiche della sua riflessione, tracciando per sommi capi l'evoluzione dei difficili rapporti intercorsi tra fede, religione cristiana e cultura nel nostro mondo occidentale dalla fine della «cristianità» all'avvio dei processi di «secolarizzazione» della cultura. Mentre si leggono queste pagine non bisogna mai dimenticare l'ottica dell'autore, per il quale è importante percepire quali sono le «diverse collocazioni» che «il fattore religioso può assumere nella cultura» (p. 28).
Lo sguardo d'insieme dell'autore cerca di svelare il positivo e il negativo di un aggrovigliato rapporto peraltro oggi molto analizzato su più versanti e su diverse, spesso opposte, posizioni e ovviamente risultanze. Per il proprio angolo di visuale Jossua non teme di affermare che «la teologia (fino alla seconda metà del XX secolo, e in certi ambiti fino ai giorni nostri) va ad abitare una sub-cultura clericale e scolastica rispetto alla cultura tout court che è la cultura "laica" [...]. Una sottocultura difensiva [...]. E soprattutto sottocultura infeconda» (p. 29). La necessità della sintesi porta a essere incompleti e a volte affrettati, ma l'autore ha comunque davanti in particolare due ambiti, diremmo, di «modernità»: quello intellettuale e quello culturale in senso stretto, dove il discorso in effetti non è mai stato improntato, né su un versante né sull'altro, da una reciproca volontà di dialogo e di incontro nel rispetto delle differenze.
Dopo questo importante capitolo, ne seguono due fondamentali: Letteratura e teologia. 1. Al di là del fossato culturale (pp. 40-50) e Letteratura e teologia. 2. Come può nascere una teologia letteraria (pp. 51-62). Jossua espone in sintesi il suo pensiero, che definisce come proposta di una «teologia letteraria». La sua prospettiva si radica ancora sull'esperienza vissuta agli inizi della sua attività di insegnamento teologico: «Intendo, cioè, una giustapposizione tra il lettore appassionato che sono sempre stato, l'uomo che aveva tratto dalla letteratura una parte della sua sostanza viva e della sua riflessione sull'esistenza, e lo specialista di una teologia cristiana che pure volevo accordare alla modernità» (p. 40).
La situazione vedeva una «disgiunzione totale» tra «il pensiero religioso e la letteratura o gli studi dedicati a quest'ultima» (ivi). Non possiamo certo entrare nei dettagli di un discorso che si fa certamente interessante per le sue numerose ricadute non solo in ambito letterario. In sintesi, l'autore avverte che la teologia per incontrare la letteratura deve uscire dalla sua propensione per la concettualità del credere e avventurarsi nel vissuto dell'esperienza cristiana: «Cercare nella Scrittura e nelle professioni di fede i fondamenti dell'esperienza attuale, personale e so ciale» (p. 46); infatti è l'esperienza che giunge alla parola e dall'esperienza può trarsi anche il rimedio alla «perdita di senso del linguaggio cristiano». L'esperienza, poi, pare anche il luogo dov'è possibile infrangere la «massiccia estraneità dei nostri contemporanei nei confronti del cristianesimo». Esperienza dice vissuto e relazione, e il suo linguaggio è in sé linguaggio umano, riguarda l'umanità della fede e della vita cristiana. Quindi è comprensibile e comunicabile non fosse altro come silenzio sull'indicibile, come simbolizzazione di una trascendenza percepita. Quale uscita quindi? Occorre, afferma Jossua, impegnare la teologia non solo a dire ma anche a scrivere l'esperienza religiosa e la testimonianza originaria della fede, a mostrarsi e a disvelarsi dentro una forma letteraria, dire il mistero in una scrittura letteraria. Un po' come tornare all'origine, quando l'esperienza si è fatta «sacra scrittura». Non solo. Per superare lo iato tra teologia e letteratura occorre anche frequentare lo studio delle opere letterarie per imparare a scrivere, a trovare le parole per un rinnovamento anche linguistico della teologia. A scrivere, si direbbe, s'impara leggendo.
A questo punto l'autore descrive come nasce una teologia letteraria e ne espone sinteticamente le funzioni, il campo di ricerca e di studio indicandone il senso. Ma di quale teologia parla Jossua? Non certamente quella specialistica capace di articolare discorsi tecnici elaborati; su questo piano «non ci sarà mai arricchimento reciproco tra teologia e letteratura» (p. 58). La teologia va intesa invece alla radice come atto di ogni credente o di ogni comunità «che riflette sulla propria fede»; un «teologizzare» elementare ma essenziale, una consapevolezza e una qualità teologica riconoscibile anche oltre il cristianesimo confessante, là dove si dà un rapporto con l'assoluto, con il divino o con la salvezza.
Ci si rende conto, pertanto, che la proposta di Jossua non si può ricondurre a una qualche teologia della letteratura che scandaglia l'utilità, l'importanza dell'esperienza religiosa per la creazione e la fecondità artistica (cf. K.-J. Kuschel), oppure a quella «poetica della fede» che tenta un recupero della sua dimensione simbolica o poetica e che ha visto impegnato, tra gli altri, anche von Balthasar. La teologia letteraria di Jossua si occupa dell'arte e delle lettere in sé e lo fa come teologo, cioè come uno che adotta la scrittura letteraria per fare teologia. Il pensiero e il suo sviluppo, l'intuizione e la sua tematizzazione emergono nell'atto stesso dello scrivere. La scrittura quindi non è un semplice medium comunicativo di un pensiero formato ed elaboratosi concettualmente, ma è il luogo dell'emergenza di ciò che non sarebbe sgorgato altrimenti.
I capitoli che seguono sono, in definitiva, un saggio pratico di applicazione di questa teologia letteraria, a partire dal suo «luogo principale» (p. 25) che è la poesia. Jossua vi dedica due capitoli: Per una poetica del «trascendere» (pp. 63-73), e Sacra conversazione tra i poeti (pp. 74-84). L'esemplificazione riporta cinque brevi saggi di teologia letteraria per generi diversi (saggio, diario, romanzo, poesia) di alcune aree linguistiche europee (spagnolo, inglese, tedesco, italiano e francese): Miguel de Unamuno, Catherine Mansfield, Peter Handke, Cristina Campo, Marherita Guidacci e Maria Luisa Spaziani, Philippe Jaccotet. L'interesse dell'autore si incentra soprattutto sullo studio del vocabolario della trascendenza, quello in cui l'uomo si oltrepassa verso Dio, o la pienezza, comunque l'aldilà dell'uomo mediante il gioco delle analogie, delle metafore e degli ossimori. Come ben sottolinea A. Spadaro nella sua introduzione: Pensare l'Assoluto nell'inquietudine della parola (pp. 9-24), Jos-sua parla di immagini liminari, di poetica liminare per esprimere quanto sta sulla soglia, su un confine, sulla breccia. Tuttavia va subito precisato che non si preoccupa tanto di rilevare strumentalmente temi religiosi, ma la poetica, la dimensione «teologica» di un autore, nel senso della trascendenza e della rottura che implica nominare l'innominabile, circoscrivere l'oltre e l'Altro, dire il mistero che si dona. Non parla certo di tracce del sacro, ma di incarnazione ovvero dell'esperienza dell'assoluto nell'istante. Siamo di fronte a una teologia «implicita» fatta emergere in quelle creazioni letterarie che esprimono, direttamente o indirettamente, una visione religiosa o evangelica, oppure dove sgorga, anche inatteso e sorprendente, un movimento di trascendenza analogo, magari simile o contrario, alle problematiche di certa teologia specializzata e preoccupata solo del proprio rigore argomentativo.
Effettivamente la teologia è spesso presa con i suoi concetti, e qualunque sia la disciplina un teologo oggi si trova a dover esprimere sempre una specializzazione, il rigore di uno statuto epistemologico e la validità di un sistema. La teologia fatica ancora oggi a circolare pur dentro la comunità cristiana, ed è ancora molto diffusa la sensazione della sua inutilità per la vita cristiana. La domanda che spesso circola nelle aree più avvertite della chiesa è come sia ancora possibile all'uomo contemporaneo accedere alla fede cristiana in una società ormai estranea alla «cultura cristiana». Il problema è certamente complesso e interessa molteplici ambiti per essere solo chiarito. Ma la riflessione sul particolare crinale tra letteratura e teologia, così come tematizzato da Jossua, potrebbe suggerire percorsi interessanti volti a promuovere processi comunicativi certamente fecondi sul versante dell'esperienza di fede. Nei primi anni '70 del secolo scorso, di fronte alle problematiche innescate dall'espandersi di una cultura e di una società sempre più secolarizzate, si è iniziato a porsi l'interrogativo sulla possibilità e sulla modalità di dire Dio oggi.
Molte riviste teologiche e molte pubblicazioni affrontavano tematiche legate alla crisi del linguaggio religioso, alla difficoltà della comunicazione della fede. Allora qualcuno (J.B. Metz, H. Weinrich...) iniziò a parlare di «teologia narrativa» e crebbe il discorso fino a sviluppare pedagogie narrative, catechesi narrative, etiche narrative, esegesi narrative nella percezione che la fede si comprende solo quando in primis la si racconta: la Bibbia è raccontabile, l'eucaristia è raccontabile (cf. B. FORTE, Teologia in dialogo, Cortina, Milano 1999), ogni personale esperienza di fede è raccontabile, qualsiasi esperienza del trascendente è raccontabile, ogni esperienza fondativi dell'identità intima di una persona è raccontabile.
E dentro questa temperie che si colloca la proposta di Jossua, nella certezza che si può dire Dio oggi in maniera importante e significativa, dentro le potenzialità eccezionali — originali e originarie per la fede — di una consapevole pedagogia narrativa. Da discepolo di san Domenico, Jos-sua ha cercato un suo personale itinerario per realizzare il motto: «Contemplare, contemplata aliis tradere». All'inizio di ogni atto teologico c'è una «lettura» della Scrittura, ma al suo compimento possiamo dire che troviamo la «scrittura» di una lettura; cioè il segno-parola che dice l'esperienza, la narrazione di una testimonianza, l'esposizione del sempre inedito incontro con Dio. Un bel libro, quindi, per lettori a cui interessa approfondire le problematiche complesse insorte dalla palese incrinatura dei rapporti tra fede e cultura.
Utilissimo per ogni teologo che vuole affacciarsi sull'universo immenso della letteratura uscendo dalle ristrettezze delle dimostrazioni dogmatiche. Utilissimo per tutti coloro che ancora debbono scoprire l'affinità intrinseca tra arte e teologia, e non vedono gli infiniti modi con cui la letteratura sa dire Dio. Saggio agile, ben scritto, piacevole.
Tratto dalla rivista "Credere Oggi" n.5 del 2007
(www.credereoggi.it)
-
15,00 €→ 14,25 € -
9,00 €→ 8,55 € -
10,90 €→ 10,35 € -
8,00 €→ 7,60 € -
18,00 €→ 17,10 €