Mons. Ravasi affronta un viaggio in più tappe nell'Antico Testamento, per mostrare la vicinanza di Dio all'uomo così come appare nei vari libri biblici. Con uno sguardo anche alla teologia delle Scritture sacre ebraiche, l'Autore ricostruisce la molteplicità dei lineamenti del volto di Dio.
INTRODUZIONE
Iniziamo un viaggio in più tappe in un paesaggio apparentemente noto, quello dell'Antico Testamento. Eppure sono molti gli scorci ignoti (e non intendiamo riferirci ai particolari, alle figure minori, agli orizzonti limitati, alle questioni specifiche), perché infinite sono le iridescenze di queste parole umane che contengono in sé l'eterna parola di Dio. Ebbene, nostro scopo sarà quello di cercare il volto di Dio nella molteplicità dei suoi lineamenti, soprattutto quelli più in ombra, meno conclamati. Proprio per questo metodo da noi adottato, non sarà questa un'introduzione all'Antico Testamento in senso classico. Tuttavia nelle varie tappe, che saranno sempre brevi, sarà possibile costruire progressivamente non solo tutta la sequenza della storia della salvezza così come essa si esprime nei vari libri biblici (46 nell'Antico Testamento), ma anche l'intero profilo della teologia delle Scritture sacre ebraiche, accolte pure dalla fede cristiana.
Un mistico spagnolo del '500, Fray Luìs de Leòn, contemporaneo di santa Teresa d'Avila, affermava: «In Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga». E questo l'augurio che rivolgiamo al lettore che vorrà seguirci nell'itinerario all'interno della Parola divina e umana, segno vivo dell'Incarnazione.
Duemila anni prima di Cristo, nel lembo orientale di quella che è stata definita la "Mezzaluna fertile", la Mesopotamia, un poeta anonimo componeva un inno a Enlil, dio dei Sumeri: «Enlil, le tue molte perfezioni fanno restare attoniti; la loro natura segreta è come matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è arruffio di fili di cui non si vede il bandolo» (Tr. di G. Castellino in Testi sumeri e accadici, Utet, Torino 1977, p. 51). «Allah è l'inaccessibile», ripeterà secoli dopo la tradizione musulmana: tra Dio e l'uomo si stende un baratro invalicabile, sfera divina e umano sono separate da una distanza insormontabile per cui il peccato più grave per un credente di questa pur grande religione è l'associare a Dio una qualità, un'azione, una fisionomia in qualche modo umana. Ben diversa è la concezione biblica.
Attorno al 1200 a.C., nella valle verdeggiante di Sichem, ai piedi dei monti Garizim ed Ebal, Israele appena uscito dal "crogiuolo di ferro" (cf Dt 4, 20) della schiavitù d'Egitto, si trova all'alba di una nuova epoca di libertà nella terra della speranza e della promessa, la terra di Canaan. Davanti al Dio liberatore, vincolato al suo popolo da un'alleanza-dialogo d'amore e di protezione stipulata sul Sinai, Israele professa la sua fede in un "credo" che, lungi dall'essere un'elencazione intellettualistica delle qualità astratte e misteriose di Dio, come ancor oggi avviene nella recitazione litanica dei 99 attributi di Allah nell'Islam, è "memoriale" e celebrazione degli interventi di Dio sperimentabili nella storia umana. Il testo di questo "credo" acutamente analizzato da un acuto biblista tedesco, Gerhard Von Rad, nella sua opera Teologia dell'Antico Testamento (Paideia, Brescia 1972), ha appunto la sua cornice spaziale a Sichem, il centro in cui le dodici tribù ritrovavano la loro unità nazionale e ha come cornice temporale l'ingresso nella terra promessa.
Una pagina, redazionalmente piuttosto recente, raccoglie la documentazione più ampia di questo "Credo": si tratta del capitolo 24 di Giosuè, a cui rimandiamo per una lettura accurata. In esso, quasi in miniatura, è tracciata l'intera trama del Pentateuco, la Legge, i primi cinque grandi Libri della Bibbia, chiamata dagli ebrei Torah, i cui rotoli sono ancor oggi posti al centro delle sinagoghe. I primi tredici versetti di questo capitolo enunciano con linearità gli articoli di fede composti da altrettanti interventi di Dio nella storia e scanditi dall'Io personale di Dio: la storia, infatti, non è un movimento cieco di destini imponderabili, né una nomenclatura esteriore di dati e di eventi neutri, è condotta dalla volontà e dalla libertà di Dio. Un Dio che è, quindi, pur nella sua intoccabile trascendenza (per la Bibbia egli è sempre "il totalmente Altro"), l'Emanuele, cioè colui che scegliere di "essere con" l'uomo percorrendo le sue stesse strade, inserendosi nel tracciato fragile e sofferto del tempo. La rivelazione biblica non è, quindi, florilegio di verità astratte e atemporali, non ha il tono quasi geometrico di un catechismo composto solo di teoremi teologico-filosofici; è, invece, la celebrazione della scoperta del volto immutabile e perfetto di Dio attraverso il dinamismo della sua presenza accanto all'uomo e nel cosmo.
Le tappe fondamentali del "credo" d'Israele, rintracciabili in un frammento molto arcaico della liturgia delle primizie primaverili nel Deuteronomio (cf 26, 5-9) o nella libera variante cultico-poetica della monumentale litania del Salmo 136, sono tre e, per il ricorrere insistente del verbo ebraico ntn ("dare"), sono da leggere come un triplice dono: la vocazione alla fede dei patriarchi, la libertà dell'Esodo, la salvezza e la felicità nella terra promessa dopo il pellegrinaggio nel deserto del Sinai. Sotto l'involucro contingente delle politiche, delle diplomazie, delle vicende e dell'agitarsi umano c'è, quindi, uno spessore più profondo: è la parola incarnata di un Dio che, intervenendo nello scenario del mondo, svela lentamente il suo volto misterioso e ignoto all'uomo.
Con una serie di schede essenziali, simili a sondaggi, tenteremo di studiare questo "credo" d'Israele, seguendo poi il tessuto progressivo della storia biblica. È questo l'atteggiamento più coerente di chi crede nell'incarnazione di Dio, è «questa — come scriveva il filosofo e mistico ebreo Abraham J. Heschel — una delle ricompense dell'essere uomini: la serena esaltazione, la capacità di celebrare Dio nelle sue opere» (Chi è l'uomo, Rusconi, Milano 1971, p. 198). E questo il modo per scoprire la verità di quella domanda che risuona nel Deuteronomio:
«Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4, 7).
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
IL DIO DI ABRAMO, ISACCO E GIACOBBE
San Gregorio Magno usa un'immagine paradossale ma efficace per descrivere la Bibbia: la rappresenta, infatti, come un fiume maestoso e placido nel quale «tanto un agnello può camminare quanto un elefante nuotare». Fuor di metafora, possiamo affermare che la Sacra Scrittura è aperta a tutti, sia a chi riesce a seguirne il percorso stando lungo la riva sia a chi può inoltrarsi là dove il flusso delle acque è potente e il guado arduo. È da secoli che sulle sponde di quel fiume — che è letterario, storico e teologico — si affollano gli istruttori. La Bibbia, infatti, è contemporaneamente parola di Dio e parola umana; esige, allora, l'annunzio e la comprensione, la fede e la mente, il predicatore e il filologo.
C'è anche chi vorrebbe fare a meno di qualsiasi guida, gettandosi animosamente nella corrente e il risultato spesso non è quello di navigare senza impacci, bensì di naufragare miseramente. Pensiamo a chi s'è messo con zelo a leggere le pagine bibliche una dopo l'altra e, se è sopravvissuto a qualcuno dei 73 Libri che compongono la Sacra Scrittura, si ritrova, però, con la testa confusa e con un carico insopportabile di dati, date, temi, domande.