Montaggio e smontaggio di un mito che nasce sulla carta, prende immagine visiva sui fumetti e diventa protagonista del cinema, prima muto poi sonoro, dal bianco e nero al colore. Questo l'oggetto della minuziosa ricostruzione della storia di Tarzan di Francis Lacassin. Partorito, è il caso di dirlo, dalla fantasia dello statunitense Edgar Rice Burroughs (Chicago, 1875 - Encino, 1950), il personaggio abbandonato nella giungla, allevato dalle scimmie e formatosi alla dura legge darwiniana della sopravvivenza del più forte, ha alimentato, fin dall'immediato successo del primo libro del ciclo, nel 1914, la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di tutto il mondo. Lacassin racconta non tanto il procedere delle sue avventure quanto il progressivo degrado del suo mito. Lacassin consegna al lettore la storia delle diverse personificazioni di Tarzan, i registi che lo hanno diretto, gli attori che lo hanno interpretato, le attrici che lo hanno baciato, gli scenografi che gli hanno inventato luoghi e panorami, i disegnatori che lo hanno ritratto con grazia, qualche volta, spesso frettolosamente. Chi togliendogli fascino chi accrescendolo, sempre alimentati da un archetipo nascosto e ben piantato nella mente di chi lo ha immaginato. Come scrive Roberto Beretta nella prefazione «il re delle scimmie è l'eremita laico che si ribella alla prepotenza della civiltà e trova il suo spazio veramente umano tra i non uomini. Ma a differenza dell'utopia assoluta del "buon selvaggio" di Rousseau questo nuovo Adamo non sembra desideroso di rivoluzioni, quanto piuttosto di temperare il ritorno alla vagheggiata età dell'oro con una sana e molto americana propensione a non perdere i principali vantaggi del benessere, l'indispensabile del progresso per vivere nel suo felice paradiso». Il libro di Lacassin, e senza l'ausilio di Roland Barthes, descrive la vita del mito di Tarzan, lontano dal suo padre-autore, tra le insidie delle immagini e degli schermi che la società dello spettacolo moltiplica come le liane della giungla tra cui l'uomo-scimmia amava trascorrere il tempo dell'avventura. È lì che si perde Tarzan, nella selva oscura dell'onirismo proliferante, diviso tra immaginazione e box-office, tra inganno di cartapesta e divismo, tra pulsioni insoddisfatte di un erotismo appena accennato e adesione passiva dello spettatore, tra un popcorn e un bicchiere di cola.