La dichiarazione
-Dominus Iesus a dieci anni dalla promulgazione
(I Pellicani)EAN 9788871808956
Il volume è la pubblicazione degli Atti di un Convegno tenuto presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” in Roma nei giorni 11-12 marzo 2010. Oltre al testo delle relazioni contiene, alla fine, anche quello della Dichiarazione in latino e in italiano. È diviso in due parti: approcci tematici e analisi di punti nodali. L’ispiratore del Convegno e il curatore degli Atti nella Presentazione scrive che la Dominus Iesus (DI), «nonostante sia un documento breve pubblicato da una congregazione vaticana, è un testo tutt’altro che trascurabile o di secondo piano. Bisogna invece dire che esso è di capitale importanza.
Forse tra alcuni decenni o tra un secolo, si potrà persino vedere che ha marcato un’inversione di tendenza» (p. 7); la sua importanza «consiste in particolare nel rifiuto di un pensiero relativista, penetrato purtroppo anche in vasti settori del Cattolicesimo» (p. 11). Questa valutazione del documento vaticano costituisce l’orizzonte entro il quale, se non erro, si sono collocati i vari relatori e autori dei contributi offerti al lettore. Ne richiamo i contenuti con una relativa valutazione. Nel suo intervento, «La Dominus Iesus nella vita della Chiesa, oggi» (pp. 21-43), il Card. Antonio Cañizares Llovera sottolinea l’urgenza dell’annuncio di Gesù Cristo salvatore universale nel mondo di oggi e quindi l’esigenza di tener vivo il «mandato missionario del Signore alla sua Chiesa» (p. 22).
Questo però richiede una presentazione chiara e non riduttiva del volto di Cristo salvatore universale, come fa la Dichiarazione, perché «solamente nella certezza gioiosa di questa fede potrà trovare fondamento la missione ad gentes e la nuova e continua evangelizzazione nei paesi di antica cristianità» (p. 25). La Chiesa è il luogo ove oggi Gesù Cristo nella sua piena e vivente verità si rende presente, anche se non in forma esclusiva, per cui «la fede in Cristo è inseparabile dalla fede della Chiesa, e l’accesso alla vita che Cristo ha ottenuto per noi si trova nella piena comunione con la Chiesa» (pp. 39-40). Solo il Gesù che essa annuncia al mondo, scandalo e stoltezza per la modernità nella cui cultura «non si ammette Gesù nella sua singolarità di Figlio unico del Dio vivo, […] allo stesso modo in cui si rifiuta il fatto che un uomo del passato abbia a che fare con noi oggi, qui e ora, in maniera decisiva, in modo tale che dal rapporto con Lui dipenda il nostro successo; […] può essere invece il criterio valido e universale della mia esistenza qui ed ora» (p. 43).
Sua Ecc.za Mons. Michele de Rosa ha trattato «La recezione della Dominus Iesus in ambito ortodosso e protestante» (pp. 45-69). Offre un’ampia panoramica di reazioni espresse nell’ambito dei due contesti cristiani non in comunione con Roma. Si tratta per lo più di reazioni che riguardano l’ecclesiologia e la causa ecumenica, settori nei quali si danno profonde divergenze tra la Chiesa cattolica, l’Ortodossia e la Riforma protestante. L’affermazione che la Chiesa di Cristo si trovi storicamente realizzata in pienezza solo nella Chiesa Cattolica e che le Comunità ecclesiali uscite dalla Riforma non siano Chiese in senso proprio ha costituito prevedibilmente il punto di principale reazione critica degli ortodossi e dei protestanti; critiche che «soprattutto per quanto riguarda l’ecclesiologia, sono tornate in occasione della pubblicazione delle «Risposte a quesiti circa la dottrina della Chiesa della Congregazione per la Dottrina della Fede (2007)» (p. 62). Tutto ciò ovviamente è stato visto non solo da ambienti ortodossi e protestanti, ma anche cattolici, come un arresto del dialogo ecumenico. De Rosa al riguardo osserva che «il dialogo invece può essere autentico e proficuo solo se parte dalla conoscenza esatta della propria posizione dottrinale e quella del partner. Senza la consapevolezza della propria identità e la conoscenza dell’altro non si fa certo ecumenismo » (p. 68). La DI e altri documenti vaticani, «lungi dal costituire un ostacolo, hanno offerto ai cattolici sicuri punti di riferimento per il cammino ecumenico» (p. 69).
Seguono due interventi di carattere storico dogmatico in cui si mostra come la dottrina di Cristo unico e universale Salvatore del mondo sia ben testimoniata nel tempo dei Padri. Il Prof. Jan Pablo Ledesma, LC, tratta la tematica «nella prima patristica» (pp. 71-93); il Prof. Carlo dell’Osso «nella tarda patristica» (pp. 95-121). J. P. Ledesma si sofferma in particolare su Sant’Ireneo e Tertulliano. È interessante quanto scrive sull’«inversione concettuale» operata dal vescovo di Lione: «l’uomo è stato creato per essere salvato da Cristo, e non solo perché venga Cristo; per questo esiste l’uomo: per essere salvato da Cristo. Dal momento in cui esiste il Salvatore da sempre e per sempre nella misteriosa volontà del Padre, in questo momento devono “venire” i peccatori, proprio come la pre-esistenza del medico “rende necessaria” l’esistenza della malattia. […] È in tal senso che Ireneo parla della preesistenza del Cristo Salvatore» (p. 83); «se Adamo è venuto per essere salvato da Cristo, allora il Verbo pre-esiste già come Salvatore» (p. 84). Con questa inversione cristocentrica, Ireneo presenta il problema che esiste tra la creazione e la redenzione, riuscendo a salvaguardare l’unità del piano di Dio in vista del mistero di Cristo nella salvezza universale del genere umano» (p. 84).
Al riguardo si può osservare che se per salvezza si intende redenzione dal peccato, cosa che si ricava del testo citato, allora l’interpretazione di Ledemsa mi sembra una lettura della visione di Ireneo della preesistenza di Cristo quale Verbo incarnato (incarnandum) nel disegno del Padre non usuale, forse bisognosa di più ampia documentazione e ulteriore approfondimento. C. dell’Osso da parte sua tratta la tematica “nella tarda patristica” e dedica attenzione a posizioni dottrinali di Leonzio di Bizanzio, al Costintinopolitano II, a Leonzio di Gerusalemme e Massimo il Confessore. Mi sembra che solo quest’ultimo, con la sua visione del Logos/Verbo di Dio quale «supremo Mediatore e pienezza di ogni mediazione salvifica, in quanto il principio e il fine di ogni essere» (p. 117), abbia una teologia che si riferisce direttamente alla tematica della DI; gli altri vi apportano un contributo in quanto hanno messo in chiaro il mistero del Verbo incarnato, presupposto della sua valenza salvifica universale. Per questo l’Autore in conclusione può scrivere che «per i Padri l’unicità della mediazione di Cristo è indiscussa e indiscutibile; lo stesso si può dire per l’identificazione tra Verbo eterno e Verbo incarnato.
In tal senso che Gesù Cristo sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che i Padri non sentirono l’esigenza di richiamare in modo particolare, perché questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede, è il dato più semplice ed essenziale per i cristiani» (p. 120). Il compianto decano della Gregoriana Donath Hercsik, S.I., ha trattato il tema «Gesù Cristo, piena e completa rivelazione della verità divina e del mistero di Dio (DI 5-6)» (125-149). Espone con chiarezza la dottrina del Vaticano II, ripresa dalla DI. È degno di nota che, nel richiamare che Gesù è pienezza e definitività della rivelazione, insista sul fatto che ciò «significa concretamente che tutta la vita di Gesù è da intendersi come la rivelazione definitiva e insuperabile di Dio» (p. 131) e fornisce un istruttivo saggio su ciò (cf. pp. 131-136). Credo però che si possa fare un rilievo sul nucleo della sua esposizione. Citando DV 2, scrive che Gesù Cristo «è la plenitudo totius revelationis» e richiamando DV 4 scrive che «l’oeconomia christiana è definitiva» (p. 130). Ma DV 2 dice che egli è anche «mediator totius revelationis», espressione che, se non erro, non appare mai lungo la sua esposizione. Ora ciò lo porta a sottolineare che Gesù è “pienezza”, “definitività” che «non sono da fraintendere come “inizio” e “esclusività”» (p. 134) e a precisare che «in breve, Gesù Cristo non è l’inizio, ma la vetta della rivelazione divina. La rivelazione divina in Gesù Cristo non va concepita come un fulmine a ciel sereno, ma come l’ultimo momento, come accade in un crescendo in ambito musicale. Affermare che Gesù Cristo è la piena e definitiva rivelazione divina non significa che la sua presenza abolisca o neghi le rivelazioni di Dio prima della sua venuta.
Al contrario, significa che egli fa tesoro delle varie manifestazioni divine, le presuppone, le purifica e le integra in quella novità che la sua manifestazione “alla fine dei tempi” significa per la nostra conoscenza di Dio» (p. 135). Si tratta di una posizione, a mio avviso, discutibile, perché non esprime con la dovuta chiarezza che tutte le rivelazioni sono portate da Lui, mediatore universale, anche se hanno avuto luogo prima della Sua venuta storica o al di fuori del riferimento esplicito a Lui. Se non si afferma ciò, ed è quanto intende DV 2 con l’espressione «mediator totius revelationis», non viene colta con chiarezza la sua unicità (partecipata: RM 5) e universalità salvifica. S. E. Mons. Angelo Amato, S.D.B., attualmente Cardinale Prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, approfondisce i numeri 9-11 della DI riflettendo sull’«Unicità del sacrificio redentore di Cristo e la teologia del pluralismo religioso» (pp. 151-169). Prima di tutto richiama il problema ermeneutico che è alla base di tante proposte distorte che riguardano l’universalità salvifica di Cristo. In questi casi «c’è un rovesciamento di paradigmi. È la cultura che giudica il Vangelo e non viceversa. In realtà, in questi casi, più che di inculturazione della fede cristiana, c’è una vera e propria deculturazione del messaggio cristiano» (p. 153). Detto ciò, accenna alle proposte di Stanley J. Samartha, Reinhold Bernhardt, Paul Knitter e Raimundo Panikkar. Tutti, in un modo o in un altro, negano la valenza salvifica universale di Cristo. Riferendosi alla DI, scrive: «con parole chiare ed esplicite, la DI ripropone alla coscienza di fede cattolica la divinità di Gesù Cristo, la quale fonda e giustifica l’efficacia universale del suo mistero di incarnazione e redenzione. Solo il Figlio di Dio incarnato può garantire universalità ed efficacia a tutta l’umanità, da lui oggettivamente redenta una volta per sempre mediante il suo sacrificio della croce» (p. 165).
Questa universalità trova possibilità di concretizzazione anche nella vita «di tutte le persone umane» che non lo confessano esplicitamente ma per varie vie possono entrare in contatto con Lui. «Se i mezzi di salvezza vengono offerti con abbondanza nella Chiesa, anche fuori di essa non mancano vie segrete attraverso le quali Dio attrae le anime alla vera fede» (p. 168); cosa che tuttavia non esime dalla missione cristiana (cf. p. 169). L’Autore evita di entrare nella questione se le vie segrete di Dio siano le religioni del mondo e se il rapporto che mediano con Dio sia da qualificare come fede salvifica oppure mera credenza. Nel testo comunque parla di attrazione delle anime da parte di Dio «alla vera fede» (p. 169). Il Prof. Mauro Gagliardi si è proposto di approfondire il n. 12 della DI e lo ha fatto con un lungo studio dal titolo «Il legame tra il mistero salvifico del Verbo incarnato e dello Spirito Santo» (pp. 171-261). Il tema è di estrema attualità, data la tendenza in diversi teologi attuali a separare l’attività salvifica dello Spirito da quella del Verbo fatto carne. L’Autore con un’analisi puntuale di testi biblici, dei Padri, del Magistero e della riflessione teologica passata e presente mostra l’inscindibilità delle due attività e alla fine in una ripresa sintetica riassume i risultati dell’analisi storico-teologica, rilevando che la DI è ben radicata nella costante posizione della teologia e del Magistero. Qualche considerazione su quanto espone nella ripresa sintetica su «alcuni punti particolari che necessitano ancora di essere chiariti, dato che il Magistero non si è pronunciato ancora in modo definitivo su di essi» (p. 243).
Il punto centrale è se le religioni siano da considerare vie di salvezza in quanto tali. Per prospettare una soluzione l’Autore prende in considerazione il senso dei “semina Verbi”, la “teoria del compimento” delle religioni nel cristianesimo, la necessità della fede salvifica per i non cristiani, l’azione personale e nuova dello Spirito nel e dopo il mistero pasquale che, scrive, «pone fine all’opera che lo Spirito Santo svolgeva nel cosmo nelle precedenti alleanze, definitivamente accantonate con la venuta di Cristo» (p. 258). Al riguardo ritiene che i “semina Verbi” siano da intendere «come elementi di verità più che come elementi di grazia» (p. 246) per cui in base ad essi le religioni del mondo non possono essere ritenute vie di salvezza (cf. pp. 246-249); che esse per la “teoria del compimento” vadano viste come religioni «solo naturali» (p. 256), vale a dire solo «dei movimenti umani, non delle vie volute da Dio e che, nonostante ciò tendono verso di lui “dal basso”, movimenti che si compiono solo quando giungono al cristianesimo» (p. 250; nelle pp. 250-252 si apportano la EN 53 di Paolo VI e una Catechesi del 5 giugno 1985 di Giovanni Paolo II); che i credenti in altri contesti religiosi non credono in senso pieno, vale a dire, soprannaturale e salvifico, e «finché non giungono alla fede perfetta, la loro (è) “fede in cammino”, essendo solo in potenza fede teologale cristiana, può essere distinta con l’uso del termine “credenza” (pp. 253-254, nota 145); lo Spirito Santo agisce nei cuori e la sua azione di conseguenza sfocia anche nelle religioni (cf. p. 260), però ciò «non significa ancora riconoscere un’azione diretta dello Spirito su di esse» (p. 260). Gagliardi comunque pensa che «la questione sia ancora da approfondire adeguatamente in ambito della teologia cattolica» (pp. 260-261) e, a suo avviso, il vero problema che resta da affrontare è «di rispondere alla domanda della possibilità, apertasi dopo la risurrezione di Cristo, di un’azione dello Spirito nelle religioni in quanto tali, come parte dell’opera di universalizzazione ed escatologizzazione del mistero pasquale che compete appunto al Paraclito» (p. 261). Credo che al riguardo si possa osservare che certamente il problema che le religioni in quanto tali siano vie di salvezza è ancora oggetto di approfondimento teologico.
Tuttavia, è da pensare che esso non si risolve considerando i “semina Verbi” (a proposito, non sarebbe più preciso dire “semina Verbi incarnati”, dato che il suo influsso salvifico mediatore si estende a tutta la storia della salvezza?) solo come verità donate, ritenendo le religioni del mondo come puri orientamenti “naturali” al Dio della salvezza, e pensando che l’azione salvifica dello Spirito con e dalla risurrezione sia talmente personale e nuova che non si estenda, retroattivamente e oltre il confine cristiano a tutta l’umanità. I principi di soluzione cristologico-pneumatologico e antropologico-teologico, a mio avviso, li fornisce il Vaticano II in GS 22: Cristo è morto per tutti; la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una, quella divina, vale a dire soprannaturale; lo Spirito Santo dà a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale salvifico. Se «nel modo che Dio conosce» possa essere esteso alle religioni quali vie di salvezza in quanto tali costituisce la sostanza dell’attuale riflessione; ma, a mio avviso, la soluzione deve poggiare sui principi richiamati, in base ai quali è problematico sostenere che le religioni siano solo vie “dal basso”, puramente “naturali”; che i “semina Verbi” siano da limitare a pure conoscenze veritative; che la fede dei non cristiani sia mera “credenza” oppure soprannaturale “fede in cammino”. Se un cammino va affermato, penso sia quello che va dalla non pienezza nelle religioni alla pienezza cristiana, la cui realizzazione costituisce lo scopo della missione cristiana nei riguardi di esse, visione che mantiene l’unità e la gradualità dell’unico progetto divino salvifico, che avendo Gesù Cristo come mediatore universale e pienezza, è “divino” (GS 22), vale a dire “cristico”, termine più teologico di “soprannaturale”. Il Prof. Antonio Izquierdo, L.C., riferendosi a DI 13, tratta i fondamenti biblici dell’unicità e universalità salvifica del mistero di Cristo (pp. 263-287); il Prof. N. Capizzi, con riferimento a DI 16-17, «Un solo Cristo, un solo suo Corpo, una sola sua Sposa».
Riflessioni in prospettiva sacramentale (pp. 289-305); il Prof. Krzysztof Charamsa, con riferimento a DI 20-22, «La necessità della Chiesa in ordine alla salvezza» (pp. 307-360). Mi soffermo sul contributo di Charamsa, dato che tratta ampiamente una questione teologica oggi scottante, in sostanza il senso dell’assioma «extra Ecclesiam nulla salus». Dopo alcune note introduttive, espone la dottrina presente in DI 20-22 (cf. pp. 313-328), posizioni antecedenti della CDF sulla questione (cf. pp. 329-342), richiama elementi della storia del dogma (cf. pp. 342-355; ricche di dati storico-teologici), chiude con considerazioni conclusive (cf. pp. 356-360). Mi soffermo su queste. Giustamente scrive che «la formula sulla necessità della Chiesa in ordine alla salvezza, non potrà essere declassata ad un teologoúmenon (sic), ad un’opinione, ma si porrà come un principio dogmatico che ha a che fare con l’universalità e l’assolutezza» (p. 356). Però, precisa, «essa va compresa adeguatamente, specialmente in un tempo “pluralista” come il nostro, il quale pretende di vantarsi di un diffuso senso di tolleranza» (p. 357), in sostanza «con evangelica forza e coraggio, ma anche con quel sereno senso di equilibrio dottrinale che è la vera forza della libertà della ricerca teologica» (p. 357). Questa dovrebbe avere come chiave di comprensione del problema LG 14-16, «ovvero il misterioso ordinamento dei non cattolici e non cristiani […] alla Chiesa di Cristo, attraverso la quale si afferma la possibilità della salvezza di quelli che “senza loro colpa, non conoscono il vangelo di Cristo e la sua Chiesa”» (pp. 357-358).
Dall’analisi storico-teologica e dei documenti della Chiesa sino a DI 20-22, risulta che il fondamento dell’asserzione che la Chiesa è necessaria alla salvezza di tutti va visto nel fatto che «essa, una mistica e soprannaturale persona – Sposa e Madre –, è Corpo di Cristo» (p. 322); per questo «bisogna dire, da parte dell’umanità e di ciascun uomo, che fuori della Chiesa non c’è salvezza; fuori di quella Chiesa che è mistico Corpo e Sposa di Colui che salva. Non c’è salvezza senza e fuori del Christus totus, caput et corpus: Cristo Capo e Corpo» (p. 323). Ora, questa visione del “Christus totus” permette di includere nella sfera salvifica della Chiesa di Cristo anche coloro che non sono stati e non sono formalmente e visibilmente membri di essa. Ma, per comprendere in pienezza questa prospettiva, a mio avviso, andrebbe valorizzata di più la visione ecclesiologica, già agostiniana, dell’«Ecclesia ab Abel» (cf. p. 345), perché in essa sono inclusi con la debita chiarezza sia l’effetto salvifico universale di Cristo che il coinvolgimento in esso, parimenti universale, della Chiesa quale suo Corpo che sempre lo accompagna. Ciò permette di superare la visione ristretta che fuori della Chiesa neotestamentaria e post-apostolica non si dà salvezza.
In verità è “fuori” del Corpo di Cristo che non si dà salvezza, e tale Corpo è costituito dall’umanità che si è aperta all’influsso salvifico del Verbo incarnato anche prima della sua venuta storica e si sta aprendo ad esso al di là del confine del suo influsso salvifico attraverso la Chiesa storico-sacramentale, che però senza dubbio rappresenta la realizzazione escatologica piena e insuperabile della Chiesa quale Corpo di Cristo ed ha il mandato di testimoniarlo esplicitamente alle genti e a portarle a piena ecclesialità (cf. LG 17).
Tratto dalla rivista Lateranum n. 3/2011
(http://www.pul.it)
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