INTRODUZIONE
di Pietro Damasceno
Il terzo volume della Filocalia italiana si apre con gli scritti di Pietro Damasceno. Essi furono pubblicati per la prima volta da Nicodimo Aghiorita nella sua Filocalia. Tradotti in latino e inseriti nel vol. CLXII della Patrologia Greca del Migne, andarono distrutti assieme a tutte le opere che componevano quel volume.
Nonostante la loro ampiezza, le due opere che compongono gli scritti del Damasceno non esigono una particolare introduzione, perché sono di facile lettura e non presentano linee di sviluppo complesse. Ci limiteremo pertanto a segnalare quelli che ci sembrano i tratti salienti della sua dottrina spirituale.
Dal punto di vista redazionale gli scritti presentano caratteristiche di disordine e approssimazione. Lo stesso titolo della prima opera è tale che difficilmente lo si può definire un titolo. Si incontrano spesso passaggi forzati, mal connessi, temi che s'incrociano in modo goffo.
L'autore presenta la sua opera soprattutto come il risultato di ampie letture sia della Scrittura che dei padri. E di fatto non si tratta di scritti particolarmente originali, quanto piuttosto di un rifacimento personale delle dottrine spirituali assunte dalle sue molte letture. Il tutto è da lui inserito in ampie meditazioni che lo rendono spesso prolisso e analitico. Quanto poi alle citazioni che, sono molte volte estremamente vaghe e mostrano l'autore, come egli stesso afferma, doveva affidarsi alla sola memoria perché restituiva i vari libri che gli prestavano subito dopo averli letti.
Tuttavia i suoi scritti, nonostante il disordine redazionale e la poca originalità di contenuto, hanno alcune loro linee ben nette che affiorano continuamente lungo entrambe le opere, come un tessuto di fondo che ci trasmette le idee forti dell'autore sulla vita cristiana.
Prima di tutto, un senso vivissimo della continua riconoscenza che dobbiamo al Dio elargitore di ogni bene, e la coscienza di non poter mai giungere a saldare il debito che abbiamo con lui : « [ Il prudente]... mediante la continenza attua anche le altre virtù, perché si considera debitore di tutte, e, non trovando di che contraccambiare un poco il Benefattore, considera le virtù come più grande debito. Egli infatti riceve e non offre, soltanto, poiché è stato fatto degno di render grazie a Dio ed egli riceve il suo rendimento di grazie, si considera ancor più in debito e permane nel rendimento di grazie, compiendo sempre ogni bene e considerandosi umilmente sempre più debitore e al di sotto di tutti, allietandosi in Dio che lo benefica e, con tremore, esultando (cfr. s. 2, 11) ».
Un'altra caratteristica di questi scritti è l'insistenza sull'umiltà: ad ogni momento se ne afferma l'importanza fondamentale per l'autenticità della vita cristiana. « [L'umiltà] è la porta del regno, cioè dell'impassibilità, e chi entra per essa va a Dio. Senza tale virtù, vana è la fatica e molto penosa la corsa. Essa invece dona ogni riposo a chi la possiede nel suo cuore, perché ha il Cristo che lo inabita. Per essa infatti la grazia permane e i carismi sono custoditi... L'umiltà infatti oltrepassa tutte le trappole dei demoni ». Il Damasceno ha inoltre un senso molto acuto della prevenienza della grazia — pur insistendo sulla necessità dell'impegno ascetico — come pure una convinzione profonda dell'incapacità radicale dell'uomo. Le lotte spirituali sono vinte dalla grazia e l'uomo si ritrova tra le mani la vittoria, unita a un riconoscimento più chiaro del proprio nulla.
Altra linea che scaturisce naturalmente dalle precedenti è quella che porta l'attenzione sulla necessità di sopportare con umile pazienza qualsiasi evento Dio disponga: « Se ci impegnano contemporaneamente in tutte [la virtù], può essere che ci snerviamo : invece, se cominciamo con la sopportazione degli eventi, possiamo poi procedere vigorosamente e con ogni zelo verso le altre, con l'intenzione di essere graditi a Dio » 6. Egli vede nella sopportazione un compendio di tutte le virtù che, senza di essa, non possono sussistere. Essa ci è necessaria per ottenere i beni del secolo futuro e per non soccombere alla disperazione di fronte all'esperienza del male che è in noi.
Tracciare un piano dello sviluppo dei temi in questo autore sarebbe un'impresa difficile dati i ritorni di argomenti vari che s'intrecciano costantemente con il tema che di volta in volta intende svolgere. Inoltre, gli stessi titoli dei capitoli non sono generalmente di nessun aiuto perché si limitano spesso a riprodurre semplicemente l'inizio del capitolo che poi, da parte sua, contiene molti altri argomenti e sviluppi. Il modo di scrivere del Damasceno è infatti quello di un padre, trasmettitore di una' lunga tradizione, preoccupato soprattutto di inculcare idee e sentimenti sani, e che non si preoccupa quindi troppo della linearità logica del suo argomentare.
Si può tuttavia osservare che in entrambe le opere — le quali più o meno espongono, in modi diversi, gli stessi temi — il Damasceno tratta i vari momenti del progresso spirituale secondo la consueta suddivisione in 'pratica e 'contemplazione', elencando per la pratica le diverse virtù del corpo e dell'anima, e per la contemplazione, i suoi diversi gradi 8. All'interno di queste grandi linee, egli sviluppa discorsi su molteplici aspetti della vita spirituale. Ampio spazio è dato anche al tema dell'esichia.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
MACARIO EGIZIANO
I Centocinquanta capitoli che la Filocalia presenta come una Parafrasi a cinquanta Omelie di Macario Egiziano (IV-v sec.) composta da Simeone Metafrasto (x sec.), fanno parte di un Corpus di scritti che è tuttora oggetto di un vasto lavoro critico riguardante sia il testo che, in particolare, l'autore, con i problemi storici e dottrinali connessi con la sua identità non ancora individuata e definita.
Dai primi decenni di questo secolo si sa con certezza che, secondo quanto era già stato sostenuto da alcuni studiosi due secoli prima, l'autore di questo Corpus non è Macario Egiziano. Oggi esso viene indicato col nome di Pseudo-Macario o di Macario-Simeone, giacché un certo Simeone è indicato come l'autore in alcuni manoscritti relativi a componimenti isolati dell'intero Corpus. L'autore di questo — in ogni caso — dovrebbe essere vissuto in Asia Minore o in Siria-Mesopotamia fra il 380 e il 430 ca.
Il Corpus macariano comprende: 1) Logoi o Discorsi, che si specificano in Omelie e Lettere; 2) Florilegi; 3) Componimenti isolati.
I Logoi o Omelie si dividono in quattro Collezioni. La maggior parte di Omelie può risultare — del tutto o parzialmente — in più di una collezione contemporaneamente. Esistono anche diverse traduzioni antiche: siriaca, copta, araba, armena, georgiana, latina, etiopica, slava.
Contrariamente all'informazione data dalla Filocalia nel titolo premesso a questi capitoli, pare che non dovrebbe esserci rapporto fra essi e le Cinquanta omelie spirituali di cui sarebbero la parafrasi, in quanto queste costituiscono da sole la 11 Collezione. Ma si è già detto dell'aspetto ripetitivo che caratterizza tutte queste raccolte; esso può quindi avere favorito qualche richiamo o qualche rimando meno proprio.
Occorre anche fare un cenno al fatto — molto importante sia per la datazione degli scritti sia per la identificazione del loro autore - che sono state rilevate nelle Omelie macariane coincidenze testuali con diverse proposizioni del Libro ascetico dei Messaliani u, condannato al Concilio di Efeso nel 431. L'appartenenza dello PseudoMacario al movimento e all'insegnamento ereticale messaliano viene sostenuto ma anche contestato fra gli studiosi; per quanto riguarda i Capitoli riportati dalla Filocalia, sembra di poter rilevare, proprio riguardo a punti cruciali delle tesi messaliane u, un insegnamento sostanzialmente coincidente con quello della più sana e non sospetta tradizione dei padri.
Questi centocinquanta capitoli, dunque, si dividono in sei opuscoli che portano i titoli di : Sulla perfezione nello Spirito, Sulla preghiera, Sulla pazienza e il discernimento, Sull'elevazione dell'intelletto, Sulla carità, Sulla libertà dell'intelletto.
I temi che abbiamo cercato di individuare in questi opuscoli si trovano raccolti, come definizione, per così dire, della economia della parusia di Cristo', nell'ultimo capitolo. Essi sono: la reintegrazione della natura umana nella condizione originaria; l'indicazione della preghiera come chiave che apre la porta del regno e mezzo per vincere nel combattimento spirituale che ha luogo nei recessi del cuore contro i pensieri e le arti del Maligno; quindi, il tema dominante della comunione dello Spirito santo e della sua mistica operazione nell'anima, per cui essa gioisce dell'unione gloriosa con Io Sposo Cristo; infine, la condizione del corpo alla risurrezione: riflesso e frutto del grado di comunione con lo Spirito vissuto quaggiù da ogni anima.
SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO
Come accenniamo anche altrove, i Capitoli pratici e teologici di Simeone il Nuovo Teologo, così come la Filocalia li presenta, Sono uno scritto composito da più autori. Dei centocinquantadue capitoli che lo formano, i primi centodiciotto appartengono a Simeone il Nuovo Teologo. Essi sono stati scelti da una raccolta di duecentoventicinque capitoli divisi in due centurie di Capitoli pratici e teologici più un gruppo di venticinque Capitoli gnostici e teologici, collocato fra i primi due.
Come in tutte le raccolte di questo genere, in cui i capitoli paiono quasi la giustapposizione di pensieri che considerano e riprendono, di volta in volta, aspetti di un nucleo comune a tutti, non è facile, nemmeno in questa, seguire lo sviluppo lineare di un disegno o il progredire di una dimostrazione; tuttavia, forse proprio perché si tratta, in questo caso, di una scelta, una certa linea di svolgimento la si può cogliere.
Le considerazioni sulla pratica non presentano in sé caratteristica di novità: ci troviamo a rileggere le nozioni tradizionali e già acquisite dell'ascetica e della spiritualità orientale — ma vorremmo dire cristiana — presentate però con un'incisività, una radicalità e un senso di partecipazione vissuta, tutte particolari.
I Capitoli, nel nostro testo, incominciano con una definizione della fede, che pone il fondamento, la base di partenza di un cammino proteso al termine dell'unione mistica. t una definizione che non lascia luogo a distinzioni ambigue tra fede e opere: la fede è una virtù pratica, è il non trasgredire in alcun modo al comandamento di non anteporre nulla a Cristo, è perciò morire per il comandamento a causa di lui.
Che cosa sia questa morte, prima di essere il distacco dell'anima dal corpo, è anche questa una nozione ormai acquisita, come si diceva, e cioè la rinuncia in senso assoluto, che non solo taglia ma sradica la volontà propria al punto che se uno, per obbedienza al padre spirituale, deve prendersi un sollievo, essendosi già esercitato a non fare nulla a questo scopo, possa eseguire la propria scelta e la propria volontà naturale. E la fede che sostiene questa rinuncia, una fede eroica nel valore della consegna di lui fatta al padre spirituale come a Cristo, e tale da attendersi da Dio che lo ispira — e dalla sua iniziativa qualunque cosa necessaria, perfino l'acqua, non richiesta, al momento della sete. È questa obbedienza, appunto, che porta al rinnegamento della propria vita e alla condizione. di morte al mondo: la morte per Cristo. Il tema della persona del padre spirituale e del rapporto con lui occupa larga parte di questi capitoli. È un tema caro a Simeone che fu tanto legato al suo maestro Simeone il Pio, in vita e in morte di lui, da subire per lui persecuzione ed esilio.
Il padre spirituale, 'guida pura e santa', lo si riceve dal Signore supplicato con preghiere e con lacrime, e lo si mette alla prova confrontando i suoi insegnamenti e il suo agire con la sacra Scrittura e con gli scritti ascetici dei padri . Egli dovrà avere « rivestito con chiara percezione e consapevolmente, nell'uomo razionale e spirituale, l'immagine del nostro Signore Gesù Cristo, uomo celeste e Dio ». Di fronte a tale maestro e guida cui si guarda come a Dio non si può contraddire, poiché ciò nasce dall'ignoranza della realtà e del mistero del maestro 'giudice e Signore dopo Dio.
La contraddizione è il tratto polare, rispetto al taglio della volontà, all'obbedienza e al rinnegamento di sé, nel rapporto spirituale col padre, ed è tale, pertanto, che immediatamente lo risolve, poiché chi cade nella contraddizione e nella incredulità verso il padre « viene trascinato ancora vivo nella profondità e nell'abisso dell'inferno e diviene casa di Satana e di tutta la sua schiera impura come disubbidiente e figlio di perdizione ». « Mentre chi si umilia fino alla morte, si fa simile al Figlio di Dio che ha compiuto l'obbedienza al proprio Padre fino alla morte».
Ciò che porta alla disposizione del rinnegamento di sé è il timore della morte e del castigo, e sono la pena e il vincolo di questo timore che, quanto meno vengono evitati e sfuggiti e invece piuttosto accresciuti e stretti, fanno accelerare il cammino verso la contemplazione. Per chi è giunto a metà di esso, si fa innanzi la gloria e al suo primo apparire, timore e pena si mutano in gioia e in lacrime; per chi poi è giunto al termine, alla perfezione, la fonte di lacrime gioiose in cui si sono sciolti i vincoli del timore, diviene fonte di luce, la luce dello Spirito inabitante nel cuore.
La pratica ha portato alla contemplazione, cioè alla teologia, alla 'grazia perfetta. La grazia perfetta è la percezione consapevole della inabitazione divina nel cuore, è l'esperienza mistica, tema che caratterizza tutta l'opera di Simeone e, in questo scritto, è ciò che rende autentico di un timbro personale quello che all'apparenza può risultare più tradizionale, più scontato e più ovvio. Bisogna aggiungere però che questo tema della grazia divina inabitante nell'anima — che secondo la dottrina cristiana è propria di ogni battezzato — così come si trova espresso e affermato in più luoghi di Simeone, lascia talvolta perplessi.
Secondo Simeone, col battesimo « siamo santificati dalla presen za dello Spirito santo, ma la grazia perfetta, quella secondo la promessa Abiterò e camminerò in loro', non la riceviamo allora, perché ciò è di quelli confermati nella fede e che la dimostrano con le opere » e « chi ha gettato i fondamenti della pratica dei coman« damenti e ha innalzato i muri delle virtù eccelse, se non riceverà anche la grazia dello Spirito nella contemplazione e nella conoscenza dell'anima, sarà imperfetto e oggetto di compassione da parte dei perfetti ». Da affermazioni come questa, che si colgono qua e là nei Capitoli, parrebbe di dover concludere che solo l'esperienza mistica sarebbe la prova e il criterio della santità, se non addirittura della salvezza, mentre l'unione con Dio mediante la grazia dello Spirito, se non si raggiunge la realizzazione mistica per cui essa è percepita in modo privilegiato, non sarebbe vera.