Forma ecclesiae
-Per un cattolicesimo di popolo oggi: «per tutti» anche se non «di tutti»
(Quodlibet)EAN 9788871053899
Paolo Carrara, presbitero della diocesi di Bergamo, già nelle prime pagine della ricerca presenta con chiarezza l’ipotesi da cui intende partire e che approfondirà durante l’intero lavoro: «recuperare la figura del “cattolicesimo popolare” non soltanto sotto il profilo di quell’istituito che essa ha generato nel passato ecclesiale recente, ma anche secondo il processo istituente attivato» (p. 7). La singolarità sta nell’oggetto stesso della ricerca e nell’approccio. L’oggetto d’indagine è il seguente: “chiesa di popolo” e relativo “cattolicesimo popolare”, che nel dibattito teologico-pastorale sono guardati con sospetto e considerate realtà da cui allontanarsi; l’approccio, invece, non è di confronto con i dati teorici, ma con il vissuto reale della gente. Pertanto, l’obiettivo principale del libro è rivolto a immaginare la forma ecclesiae che dovrebbe essere assunta affinché la «nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia» (EG 1) sia “per tutti”, in un contesto come quello italiano dove la fede non è più patrimonio “di tutti”. L’autore non ha la pretesa di indicare quale dovrà essere il volto che la chiesa assumerà nel prossimo futuro, «semmai vuole suggerire, a procedere da un ascolto delle dinamiche presenti nel corpo stesso, delle attenzioni da custodire, dei processi da attivare, delle prospettive da discernere in relazione all’obiettivo proposto» (pp. 8-9).
Il volume si struttura in tre parti e si dispiega in una triplice dimensione: approfondimento della questione teorica, scavo nella storia e carotaggio nel presente. Le prime due sono più ampie e costituiscono il corpo vero e proprio del lavoro, la terza è più breve. Esse sono così rispettivamente intitolate: I Parte: La forma di popolo come oggetto di studio (istanze, azioni, provocazioni); II Parte: La forma di popolo come corpo vivo (radicamenti, istruzioni, interazioni); III Parte: La forma di popolo come catalizzatore (prospettive). Tutto il lavoro è costituito da otto capitoli.
Il primo capitolo – preliminare alla prima parte –, intitolato Alla ricerca di una forma ecclesiae più idonea, nell’ambito dell’annuncio del Vangelo, approfondisce il dibattito contemporaneo relativo alla forma ecclesiae. L’autore, confrontandosi con il testo programmatico Evangelii gaudium di papa Francesco, trova nell’immagine ecclesiologica di “popolo” il motore di una attesa riforma del corpo ecclesiale. Tuttavia, la categoria di “popolare” non è pacificamente accolta da altri progetti alternativi di riforma; anzi, questi cercano di prendere le distanze il più possibile da essa, in cerca di altre modalità che conducano al raggiungimento di una fede più adulta e sono riconducibili alla figura di una “chiesa di minoranza”. Sostenitori di questa prospettiva sono alcuni teologi, tra i quali i gesuiti Joseph Moingt e Christoph Theobald. La loro proposta va sotto il nome di pastorale d’engendrement. In quest’ambito, l’autore si confronta anche con il pensiero dell’allora teologo Joseph Ratzinger, il quale vedeva nell’immagine di “chiesa di minoranza” più una risorsa che un problema. Dinanzi al limite insito nella proposta di questi teologi, Carrara si pone la domanda: la ripresa operata da EG della figura della chiesa come popolo evangelizzatore non può forse rivelarsi una provocazione in questa direzione? «Attraverso le sollecitazioni offerte dall’esortazione, appare infatti troppo affrettata la dimenticanza di questa prospettiva da parte della riflessione teologico-pastorale, anche a causa dei presupposti con cui quella stessa figura viene letta e interpretata» (p. 63). A ben vedere, il recupero dell’immagine di “chiesa di popolo” non si risolve cambiando solo un’etichetta con un’altra. Non è questione di parole. Perciò, bisognerà indagare sui processi effettivi che sono dietro le categorie che si scelgono.
Il secondo capitolo La forma tra progetto e realizzazione, avendo un taglio ecclesiologico, vede nella categoria del “popolo di Dio” la forma fondamentale della chiesa. Lo scavo operato fa emergere alcune istanze pastorali ecclesiologiche e tra queste c’è anche la necessità di custodire il “per tutti” della fede. È contestato l’oblio che si fa dell’espressione “popolo di Dio”, relativizzata o equiparata ad altre immagini di chiesa. Perciò l’autore afferma: «La tesi che mi propongo di giustificare è che, pur accogliendo l’istanza della non assolutizzazione della categoria di “popolo di Dio”, in obbedienza al dettato conciliare va affermato che essa indica la forma fondamentale che la chiesa deve assumere» (p. 80). Quest’asserzione è giustificata dall’intero capitolo dal momento che passa in rassegna le varie definizioni di chiesa, quali: chiesa-societas, chiesa-corpo di Cristo, chiesa-sacramento. La maggiore parte dell’excursus viene dedicata all’immagine di chiesa-popolo di Dio, categoria privilegiata dal Vaticano II nella LG al capitolo II. In quest’ambito viene affrontato anche il caso “parrocchia”.
Il capitolo terzo La forma come eredità in discussione, in prima istanza cerca di rispondere al perché la chiesa nel passato ha cercato di mantenere sempre la figura di popolo anche quando la riflessione teologica non si interessava della forma ecclesiae; difatti è preso in considerazione il ruolo che la parrocchia ha avuto dal XVI secolo fino alla metà del XX, ovvero, dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II. Carrara, pur non prendendo ingenuamente le difese dell’immagine della chiesa di popolo, si lascia interpellare dall’evidenza e resistenza pratica di essa al fine di cogliere delle «indicazioni utili all’accompagnamento del processo di trasformazione pastorale a cui stiamo assistendo e partecipiamo in questo tempo» (p. 143). In seconda battuta, il capitolo si confronta con alcuni autori dell’area francese che hanno partecipato alla querelle sul tempo del “cattolicesimo popolare”: Godin e Daniel, Michonneau e Rètif, Bonnet, Pannet e Isambert. Dall’analisi di questi studiosi, egli «giunge alla determinazione del principio istituente che tale forma di cattolicesimo ha valorizzato: la capacità del cristianesimo, nella sua versione cattolica, di istituirsi in quella cultura come ripresa interpellante delle forme simboliche elementari. Di esso viene trattenuta, proprio in ragione di questo dialogo, l’istanza di promuovere una fede “per tutti”, poiché radicata nell’ordinario della vita e frutto della contaminazione con mediazioni di base semplici e di facile accesso» (p. 218). Non si tratta, quindi, dell’abbandono del “cattolicesimo popolare” come tale, ma solo della sua versione ormai desueta, dal momento che «il “cattolicesimo popolare” è stato il funzionamento che ha fornito alla memoria cristiana la capacità di incontrare una pluralità di culture e di situazioni ambientali tra loro diverse e di interagire con esse, comunicandosi» (p. 225).
Il quarto capitolo Movimenti di deformazione, attraverso la ricerca antropologica di natura sociologica e filosofica, coglie nella trasformazione culturale odierna una provocazione che testimonia come quelle rappresentazioni che il “cattolicesimo popolare” aveva generato siano ormai superate. Nella consapevolezza – come ha ben messo in evidenza Grieu – di dover «inventare un modo nuovo di declinare la vocazione della “chiesa popolare”», l’autore si pone in ascolto delle diverse correnti culturali del nostro tempo al fine di cogliere alcune provocazioni utili per proseguire il discorso iniziato. Vengono rintracciati: la lettura della secolarizzazione vista come via a una progressiva opzionalizzazione della fede (Charles Taylor); l’immaginario sociale; la tesi dell’ex-culturazione la quale mostra che l’attuale “immaginario sociale” consisterebbe in un’“uscita dalla religione”; le rappresentazioni sociali; la modernità liquida (Zygmunt Bauman); il comunitarismo e le comunità di identità. Particolare risalto è dato all’analisi della nuova figura di cristianesimo che va sotto il nome di “cristianesimo di conversione” promosso dalle Chiese evangeliche e pentecostali. L’autore, condividendo il pensiero del gesuita francese Grieu, afferma che «le chiese storiche, oggi impegnate in un’opera di riforma, dovrebbero assumere un atteggiamento di apprendistato verso queste forme emergenti» (p. 270). Se la Chiesa cattolica vuole continuare a costruirsi come “chiesa di popolo” «non è per essa possibile ignorare le direzioni che il fenomeno religioso assume dentro l’attale immaginario sociale» (p. 270). Si parla anche di “cattolicesimo in movimento”, nel senso che anche all’interno della Chiesa cattolica emergono nuove forme comunitarie e di aggregazioni ecclesiali. Dinanzi a questo panorama che, da una parte vede l’avanzata del cristianesimo di conversione e dall’altra un’analoga versione di taglio cattolico, allo scopo di sopravvivere, naturale sarebbe il tentativo di assumere la fisionomia delle correnti evangeliche e pentecostali. Carrara opta per un’altra possibilità, ovvero «apertura ad un “per tutti” che non accetta di obliterare la capacità di dialogo con l’ethos condiviso» (p. 296). In altre parole, secondo Grieu, «si tratta di inventare un modo nuovo di declinare la vocazione della “chiesa popolare” in un contesto segnato fortemente dalla secolarizzazione» (p. 297).
Il quinto capitolo Dentro la dinamica della forma inaugura la seconda parte del volume. Il capitolo può essere sintetizzato con le parole dello stesso autore: «la chiesa si istituisce tutte le volte che consente il realizzarsi di un rapporto inedito tra la memoria fondatrice e le forme della cultura dentro cui il Vangelo (inculturizzato fin dall’inizio) deve essere annunciato» (p. 369). A tal fine è approfondito il rapporto tra secolarizzazione, secolarismo, evangelizzazione e inculturazione. In modo particolare viene analizzata la struttura del processo di inculturazione (p. 342) secondo la quale «il radicamento della fede per il quale opera la chiesa accade nella modalità della ripresa interpretante delle forme religiose, intese come simbolizzazione dei significati fondamentali della vita (comprensione del reale e risposta alla questione del senso ultimo). Prima di compiere l’ingresso nello spazio dell’istituente, oggetto dei due capitoli successivi, l’autore risponde alla domanda: «Quale figura di teologia pastorale emerge in relazione a questa immagine dinamica della chiesa? […]. Alla teologia pastorale è chiesto di ascoltare e interpretare il processo di emersione del cristianesimo in una cultura che è, allo stesso tempo, il processo di istituzione della chiesa» (p. 362). Rigettando sia l’idea di una teologia pastorale che pretenda di elaborare la pratica a partire dalla teoria, sia il procedimento contrario, quello induttivo che va dalla prassi alla teoria e non condividendo nemmeno le teologie pastorali di taglio empirico o critico, l’autore chiarisce qual è la sua idea: «La teologia pastorale che si propone è intesa, invece, come lo studio delle continue forme di interazione che hanno caratterizzato e caratterizzano il rapporto tra il cristianesimo e la cultura, tra la memoria cristiana e le forme di una cultura. Si tratta, dunque, di una riflessione che istituisce un dialogo di carattere circolare tra la teoria e la prassi» (p. 263). Queste poche e dense pagine, potrebbero considerarsi un piccolo “trattatello” di teologia pastorale.
Il sesto capitolo, Un caso di riforma esemplare, compie una rivisitazione dell’episcopato del vescovo Gregorio Barbarigo nelle diocesi di Bergamo e Padova un secolo dopo il Concilio di Trento. Siamo nel periodo di recezione dell’assise conciliare e «in quel contesto la chiesa riuscì a garantire la vitalità della sua forma di popolo, operando un annuncio del Vangelo capace di dare visibilità al “per tutti” della fede». Ciò può essere utile a comprendere anche il nostro tempo ecclesiale «segnato dalla necessità di continuare un’opera di recezione della riforma immaginata al Concilio Vaticano II e, in particolare, di realizzare un adeguamento tra questo progetto di riforma conciliare e la sensibilità popolare» (p. 373). Il vescovo Barbarigo è «un curiale atipico» (p. 378). La tensione spirituale attraversa e sostiene tutte le tappe della sua vita. D’altra parte, «la sottolineatura della dimensione spirituale dell’opera barbarigiana non collide […] con la rilevanza pastorale della stessa, al contrario le conferisce una maggiore forza e ne indica il giusto contesto di comprensione» (p. 382). Secondo il nostro autore, uno dei grandi meriti di quel tempo postconciliare è stato sicuramente aver posto «le fondamenta per la costruzione di quella figura di cattolicesimo di popolo che ha segnato nei secoli successivi la presenza dell’esperienza cristiana in quelle terre» (p. 387). La riforma immaginata dal Barbarigo non investe solo il clero, al contrario «essa cerca di valorizzare, assumere e trasformare le forme di pietà e sensibilità presenti sul territorio» (p. 400). Con lo sguardo aperto verso il “per tutti”, il vescovo «non lesina zelo e prudenza verso quelle molteplici mediazioni della fede che appartengono al campo della pietà popolare. Ad essere duramente condannate sono le forme di devozione che si fondano su credenze» (pp. 408-409). L’esperienza barbarigiana ha dimostrato come, dialogando con le forme del bisogno religioso del popolo, si può giungere a riconoscere in esso una via per la trasmissione del Vangelo e la maturazione della fede (cf. p. 421). Alla luce dell’esperienza di questo vescovo, il nostro autore è convinto che «l’impegno di una “chiesa di popolo”, infatti, consiste nel mettere il credente nella condizione di vivere una prossimità con l’insieme del contesto secolare che gli renda possibile l’esercizio della fede nella quotidianità della sua esistenza» (p. 423). Non si può dimenticare nemmeno la sapienza e la pazienza che il Barbarigo ebbe nel sapere coniugare e adattare le norme del dettato conciliare tridentino con il contesto pastorale di quel tempo.
Il settimo capitolo, In ascolto delle forme pratiche, rispetto a quello precedente che ha privilegiato la prospettiva dall’alto verso il basso, adotta quella inversa: dal basso verso l’alto, ossia dal popolo alla gerarchia. Carrara, partendo da questo punto di vista, cioè dal popolo cristiano che ancora abita l’esperienza ecclesiale, è convinto che «vale la pena dare la parola a questo popolo ancora esistente e provare ad ascoltare che cosa dice di sé, a proposito della propria fede e della presenza in una società plurale quale quella attuale di inizio di terzo millennio». L’obiettivo che l’autore si propone è quello di individuare alcuni spunti che aiutino a ripensare la «possibilità di una “chiesa di popolo” che nell’oggi custodisca il “per tutti” della fede» (p. 426), e di «provare a mantenere la ricchezza del “per tutti” della fede, oltre una deriva elitaria della stessa o una sua dispersione».
L’ottavo capitolo Il rilancio della forma fa interloquire il frutto del carotaggio raccolto attraverso le interviste indirizzate al popolo dalla fede ordinaria con le sollecitazioni proposte da EG e con la sua valorizzazione del popolo fedele di Dio. Dal confronto emerge che «non è più possibile una pastorale che procede per deduzione, poiché è soltanto nell’esistenza reale (effettiva) ch’essa guadagna il proprio criterio di significatività e di unificazione, al di là di ogni predeterminazione» (p. 518). Poiché il compito della pastorale è «porre delle azioni che sappiano avviare dei processi di confronto tra la coscienza dei credenti, il sensus e il consensus fidei della collettività dei credenti e l’autorità» (p. 524), spetta alla chiesa promuovere alcune azioni «al fine di compiere la sua missione nell’attuale contesto segnato dal pluralismo culturale e religioso e dall’individualizzazione del credere» (p. 527). Il primo impegno è quello di valorizzare l’annuncio e l’approfondimento del kerygma, cuore del cristianesimo. In altre parole occorre «riscoprire la dimensione kerygmatica del cristianesimo, oltre appunto una concentrazione normativa dello stesso» (p. 528) e ciò non significa affatto dimenticare gli aspetti dottrinali. «Si tratta di non perdere il carattere imperativo della tradizione cristiana: se da una parte si deve evitare la concentrazione normativa del cristianesimo, dall’altra non si può espungere la questione stessa dal suo profilo complessivo» (p. 435). Connesso alla cura del primo annuncio vi è la qualità culturale di ogni gesto pastorale che non pretende che tutti abbiano una modalità del pensiero riflesso, ma che a tutti offre la «capacità di sviluppare esercizi di interpretazione del presente alla luce dell’esperienza cristiana» (p. 537). Al fine di rivitalizzare la memoria cristiana c’è, poi, la significatività della carità che ha un potere trasfigurante grazie a cui l’esperienza cristiana si realizza con particolare efficacia. In quest’ambito viene ricordata la priorità dell’inclusione del povero (EG 186). Bella e pregnante l’icona del diapason con cui l’autore – citando Grieu – descrive la carità. Quest’ultima dovrebbe generare quella nota di riferimento con cui sarebbero chiamati a sintonizzarsi tutti gli altri ambiti della vita ecclesiale. «Ciò consentirebbe di passare dall’esercizio della carità, attraverso le opere, alla carità come nota distintiva della chiesa tutta» (p. 544). La carità diventerebbe così un modo per parlare a tutti, senza che vengano richiesti altri requisiti particolari. Un’altra azione che la chiesa dovrebbe porre è di un’autorità visibile e leggibile, un’autorità, cioè, che viene apprezzata per la sua capacità di aiutare la crescita dei soggetti coinvolti. Resta un’ultima azione ed è quella dei confini tra adeguamento e scelta. L’arretramento della fede e l’accentuato pluralismo religioso (aumento della presenza musulmana sul nostro territorio) hanno determinato un mutamento dei confini ecclesiali. Pur competendo sempre all’autorità il ruolo di tracciare dei confini, tuttavia questi devono essere tracciati “internamente”, ossia spetta all’autorità il compito di «custodire le condizioni affinché la possibilità della fede sia garantita potenzialmente “per tutti” […] con la consapevolezza che si rende necessaria una risposta che pone nei termini della conversione al vangelo; e questa, di fatto, non è “di tutti”». Da questi nodi si evincono degli interrogativi che interpellano il corpo ecclesiale in relazione ad alcuni luoghi come la parrocchia, l’oratorio, il compito ermeneutico e una presidenza sinergica.
Il volume non ha una vera e propria conclusione, ma offre solo delle note sintetiche che hanno il compito di ricapitolare la dinamica complessiva della tesi e segnalare alcune domande che restano aperte. Esse toccano la questione culturale, quella istituzionale, la prospettiva ministeriale e l’istanza metodologica.
Sottolineammo una nota riassuntiva, che riteniamo di particolare importanza: l’icona di Agostino Bonalumi che l’autore ha posto sulla copertina del libro. Essa può essere assunta come cifra comprensiva di tutto il lungo e appassionante viaggio attraverso il quale Carrara ha condotto il lettore, al fine di comprendere quale dovrebbe essere la forma ecclesiae nel nostro tempo. La chiesa, che vive il tempo penultimo, il tempo dello Spirito, sospesa tra il già e non ancora, tra l’eterno e il tempo, non potrà mai esser certa di aver raggiunto una forma definitiva di se stessa. Essa, mossa dallo «Spirito che guida alla verità tutta intera» (Gv 16,13), tra tradizione e rinnovamento, tra l’esilio e la patria, tra l’auditus Verbi, l’auditus ecclesiae e l’auditus mundi, dovrà immaginare se stessa al di là di sé e aperta sempre al “per tutti”, anche se non “di tutti”.
Questo libro è una valida sintesi ecclesiologica che contempla la chiesa nelle tre dimensioni del passato, del presente e del futuro. La chiarezza dell’esposizione, la completezza della trattazione, la pazienza nell’ascolto e nel discernimento delle varie posizioni, la ricchezza di riflessioni che rimandano a un amore grande per una chiesa aperta a tutti fanno del testo anche un buon strumento di aggiornamento al servizio della formazione permanente del clero e, perché no, dei laici. Ci sia concesso di fare, in conclusione, un solo piccolo rilievo critico che riguarda le ripetizioni che ricorrono durante la ricerca; forse, esse sono da giustificare nella passione e determinazione dell’autore affinché i concetti espressi vengano ben compresi e recepiti da ogni lettore.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-2/2018
(http://www.pftim.it)
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