Il male
-Un dialogo tra teologia e filosofia
(Quodlibet) [Libro in brossura]EAN 9788871053349
Questo interessante volume raccoglie il lavoro seminariale che per oltre un anno ha coinvolto docenti e studenti della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e dell’Università Cattolica di Milano; gli incontri avevano preso lo spunto da un’altra pubblicazione dei due curatori di questo volume dal titolo L’eros della distruzione (Genova 2010). La prospettiva teorica entro la quale si dispongono i saggi è definita da un lato dall’esigenza di evitare l’enfasi sulla categoria di “male assoluto”, dall’altro di superare quella gettonata interpretazione del male che riducendolo a non-essere (il male come privatio boni) non riesce a cogliere l’esperienza drammatica e lo spessore tragico che configura e attraversa l’esperienza umana.
In questo orizzonte, il primo testo è di S. Petrosino (L’eccesso di male). Il punto iniziale del saggio è il riconoscimento del fatto che l’uomo non solo è capace di male, ma più propriamente (e scandalosamente) è capace di un male “eccessivo”, cioè sproporzionato rispetto ad ogni ragione che tenta di spiegarlo e ricondurlo entro uno scenario d’intellegibilità. L’eccessività del male – che configura la “ferocia dell’uomo”, ovvero la smisuratezza del soggetto umano – costituisce la sfida più radicale per il pensiero nel suo ineliminabile rappresentare il luogo dove è detta la significatività e il significato del reale. L’interpretazione della questione è perseguita dall’Autore mediante un’analitica dell’esistente in due momenti. Il primo momento concerne l’analisi del vivente. Se la vita si costituisce come relazione, è altrettanto vero che l’uscire da sé dell’in sé, nel suo aprirsi-volgersi all’altro da sé (la relazione, appunto) è determinato dall’appetito (ovvero, dal cercare – petere – verso – ad). In quanto il vivente è carente, cioè non può essere fino in fondo sé da sé, egli deve volgersi verso l’altro da sé, ma al fine di ritornare in sé consolidando il proprio in sé; l’altro è “appetito”, cioè ricercato in quanto fruibile, capace di dare soddisfazione, di fare (facere) abbastanza (satis) rispetto all’appetito. L’in sé non è disinteressatamente interessato all’altro da sé, perché l’apertura all’altro è definita dall’appetito che fa dell’altro il possedibile affinché l’in sé possegga sé. Il paradosso dell’appetito risiede nell’essere un’apertura che chiude, e dunque il suo fine sta nel suo annullarsi perché l’appetito è ciò che muove in vista del non doversi più muovere (appagamento). Ora questa dinamica del vivente viene ripensata e rideclinata dall’uomo. Questi è capace di riflettere, cioè di arrestare ogni automatismo, di chiamarsi fuori dal flusso della vita senza farsi confondere. Il riflettere è l’esperienza, ovvero l’oggettivazione del vivere. È qui l’eccentricità dell’uomo che nell’esperienza si rivela irriducibile al flusso della nuda vita. Questa eccentricità possiede due aspetti che segnano la relazione. Verso l’esterno l’uomo fa esperienza dell’altro come altro e non solo come ciò di cui ha bisogno; verso l’interno egli si accorge di essere costituito da un desiderio che non è appetito, perché egli sa di aver bisogno ma non sa di cosa ha bisogno: manca di ciò che non sa e non sa di che cosa manca. Il desiderio, lungi dal perseguire l’autoannientamento come l’appetito, innesca il permanere infinito di sé, poiché nella non determinazione del mancante (di ciò che manca) costituisce l’uomo come abitato da una mancanza che non è assenza ma rimanda ad altro e ne definisce l’essenziale inquietudine come pure la dinamicità infinita. L’altro, ciò che desidero (oltre ciò di cui ho bisogno), abita il soggetto. Ed è a questo livello che Petrosino propone l’ipotesi secondo la quale il male morale è una risposta del soggetto al suo stesso essere-abitato e come tale esposto alla modalità dell’eccesso. Il soggetto esperisce con insistenza un’alterità che né può evitare né dominare e “rilancia” nell’eccesso la mancanza essenziale che esperisce a livello della propria identità soggettiva, fino al punto da poter volere la distruzione dell’altro, ovvero la crudeltà. La suprema crudeltà – la rimozione e cancellazione dell’altro che alberga presso di me – rappresenta «una possibilità che emerge solo all’interno di quel particolare vivente la cui stessa identità si afferma non secondo il modo d’essere dell’individuo ma secondo il modo d’essere del soggetto: si tratta di un senza misura che in verità è la misura stessa di quella potenza […] che è propria di un soggetto abitato da un desiderio che non è appetito» (22).
Il volume si compone di diversi saggi tutti ben fatti e pertinenti. Non poteva mancare un confronto con la teodicea proposta da Leibniz che si pone al cuore del disegno apologetico di una ragione al servizio della fede (Soggettività e libertà nella logodicea di Leibniz di M. Epis); a Kierkegaard è dedicato il saggio di D. Cambria (Aporetica del male), ad Heidegger quello di A. Anelli (Heidegger e la questione del male. Materiali per una riflessione). R. Maier analizza il problema del male in Dio nell’ontologia della libertà di Pareyson, il quale ha considerato il male «una frontiera costantemente irrisolta del pensiero presso la quale la libertà dell’uomo è messa alla prova, sino al punto di fare della libertà precisamente l’essere alla prova di fronte al male» (143). Su alcuni autori della fenomenologia francese – per l’esattezza J.-Y. Lacoste, J.-L. Marion e J.-L. Chrétien – si sofferma il saggio di F. Peruzzotti dal titolo L’eccesso del male e l’umano possibile (cf.121-141), mentre R. Ranieri offre un contributo ermeneutico sul male (Realtà e possibilità del male). Da citare il testo di D. Albarello che nella prospettiva sapienziale dischiusa da 1Gv 2,16-17 (la necessità di trovare il fondamento che rimane capace di generare vita buona e di superare la logica della “concupiscenza” e adottare la logica dell’affidamento filiale alla paternità di Dio) procede con un’“archeologia del negativo” e una “soteriologia del desiderio” «volta a mostrare che solo il riconoscimento della propria identità di “figlio nel Figlio” permette all’uomo stesso di fronteggiare l’insorgenza del male per attingere al compimento sperato della sua libertà» (94). Dopo i saggi sul male in Balthasar di G. Noberasco e sulla dimensione del male nell’agire umano in Girard e Dupuy di P. Heritier, le dense ed a tratti ermetiche pagine di S. Ubbiali (cf.239-256) concludono gli interventi. Al termine del volume è posta un’ampia bibliografia (cf.257-300) che raccoglie le monografie sul male e sulla teodicea edite dal 2000 al 2012, ed è ripartita per lingua: italiano, francese, inglese e tedesco. Il volume è interessate e i contributi sono curati; da rilevare soprattutto la positività dell’intuizione sottesa, ovvero che la percezione della radicalità della questione del male per il pensiero può essere riconosciuta e colta se posta in rapporto con il tema della soggettività e delle sue dimensioni, in primis la libertà.
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2014
(http://www.pul.it)
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