Accidia e perseveranza
(Sapientia)EAN 9788871051819
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DETTAGLI DI «Accidia e perseveranza»
Tipo
Libro
Titolo
Accidia e perseveranza
Autori
Angelini Giuseppe, Nault Jean-Charles, Vignolo Roberto
Editore
Glossa Edizioni
EAN
9788871051819
Pagine
99
Data
2005
Peso
190 grammi
Collana
Sapientia
COMMENTI DEI LETTORI A «Accidia e perseveranza»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Accidia e perseveranza»
Recensione di Giuseppe Cremascoli della rivista Studia Patavina
Meditare su aspetti meno visitati dalla nostra riflessione in campo etico è sempre un arricchimento per cui vale la pena impegnarsi. Ottima guida perché ciò avvenga è la lettura del volumetto nel quale si leggono gli Atti della giornata di studio su accidia e perseveranza, che si è tenuta il 15 gennaio 2004 presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. Dopo l’editoriale e l’introduzione a firma, rispettivamente, di Claudio Stercal e di Giuseppe Angelini, è accolto il primo dei due saggi in cui si articola la trattazione, nel quale Jean-Charles Nault, a commento di Mt 10,22 ove si proclama che chi persevererà sino alla fine sarà salvato, presenta l’accidia come ostacolo allo slancio spirituale dell’amore.
L’analisi di questa difettosa condizione dello spirito è sorretta dalla dottrina trasmessa da Evagrio Pontico e da Tommaso d’Aquino, notando - nel primo dei due autori - l’attenzione ai ri-svolti più vari e meno noti ai quali l’accidioso approda, come risulta anche dal lessico reso, nella nostra lingua, con questa ricchezza di sfumature: «noia, torpore, pigrizia, disgusto, tedio, abbattimento, languore, indifferenza, scoraggiamento» (p. 13). Identificata da Evagrio con il demonio meridiano di cui al Salmo 90,6, la pigrizia è descritta anche negli indizi che ne rivelano gli effetti negativi sull’anima, sempre in preda a instabilità e a scontento, in perenne desiderio di novità e di cambiamenti, e, sul piano pratico, portata al rifiuto della fatica e del lavoro manuale. Occorre dunque combattere su tutti i fronti questo pernicioso spirito dell’accidia, resistendo ad ogni tentazione di fuga e adottando tutta una serie di rimedi da ricondurre all’atteggiamento della perseveranza.
Efficace, anche in questa lotta, è l’arma dell’antirrhesis o contraddizione, che consiste nel contrapporre al tentatore una parola della Scrittura, trionfando, così, dell’insidia, come fece Gesú stesso. Il discorso si amplia ricorrendo, sempre su questi temi, agli apoftegmi dei Padri del deserto, soprattutto ove essi insistono nell’esortare i monaci a non abbandonare la cella per darsi al vagabondaggio, finendo, così, preda di disamore verso le esigenze del proprio stato. Questa sarebbe la forma peggiore di accidia, perché distrugge il proposito della sequela Christi. Per Tommaso d’Aquino l’accidia è il vizio opposto alla gioia che viene dalla carità, conducendo a forme di tristezza e di disimpegno nei confronti della vita di unione con Dio, per non dire del terribile potere di cui è dotata di avvolgere nel taedium operandi, togliendo all’agire la prerogativa, in esso insita, di muoversi verso il proprio fine ultimo, che è l’incontro con Dio.
Ci si salva da questa rovina dell’anima immergendoci nell’onda di grazia dell’Incarnazione del Figlio e lasciandoci muovere dallo Spirito, per essere veri figli di Dio (Rm 8,14). A conclusione del saggio si pone l’accento sull’attenzione data dai Padri allo studio dell’accidia e all’opportunità di riflettervi anche oggi, perché non è impossibile ricavare, anche attraverso questa via, una particolare luce sulla dimensione ecclesiale della morale cristiana.
Di impianto squisitamente biblico e contestualizzato in categorie della mentalità e della cultura di oggi è il secondo saggio del volumetto, a firma di Roberto Vignolo e che ha per titolo: «Dimorare in Gesú: preventivo e antidoto giovanneo dell’accidia». L’accidia qui è vista anche sotto il profilo dei disagi psicologici di massa, come male oscuro e «impermanenza vagabonda», ove risultano difettose sia la percezione della realtà, alla quale è sempre attribuito il marchio dell’inconsistenza, sia la volizione, nella fatalità del taedium operandi. Riprendendo il tema tomista della salvezza dall’accidia grazie all’Incarnazione, si segnala il debito giovanneo di questo discorso sulla base della citazione del passo riguardante Gesú buon pastore, ove si legge: «io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Altri testi e personaggi biblici offrono elementi e modelli di terapia nei confronti dell’accidia. È ricordato anzitutto Qohelet, i cui pensieri conducono il lettore ad accettare aspetti e vicende della propria condizione senza soccombere all’atonia dell’anima, reagendo, anzi, in positivo «nel segno della gioia di vivere e del timore di Dio» (p. 64). La vicenda stessa del popolo d’Israele pellegrino nel deserto, spesso in stato di contestazione e nostalgico dell’Egitto, può essere rivisitata sotto il profilo della «tentazione accidiosa per la stessa coscienza cristiana (cf. 1Cor 10)». Tra i personaggi biblici sono ricordati, per le prove subite in crisi da accidia e sino al limite della disperazione, Elia, Giona, il pio Tobi e la sventurata Sara. Tornando ai testi si segnala, nei libri sapienziali, il paradigma dei valori proposti per affrontare la vita in pienezza, ben al di sopra di derive depressive o accidiose. In questo senso procedono anche i salmi e certe categorie del discorso biblico, fra cui è ricordata l’hypomonè, da intendersi nel senso di perseveranza nei confronti dell’opera divina iniziata, nella scia di quanto si desume da Evagrio e dalla grande tradizione monastica.
È delineato, a questo punto, quello che viene definito «il più ampio orizzonte giovanneo» (p. 70), partendo dalla constatazione che nel campo semantico del quarto vangelo «rientra alla grande il vocabolario della permanenza» (p. 72), già all’inizio nel racconto della vicenda dei primi due discepoli invitati a dimorare presso l’abitazione di Gesú stesso (cf. Gv 1,35-39). Si trattava di An-drea e del discepolo che Gesú amava e che destinerà, appunto, a «rimanere» (21,22-23). Nei discorsi di addio del quarto vangelo la dimensione del dimorare si profila in connotazione trinitaria, riguardando Gesú e il Padre ed essendo assunta nel passo della promessa del Paraclito, di cui è detto che dimorerà con e presso i discepoli e sarà con loro (cf. Gv 14,1-3 e 16-17). Il «rimanete in me, e io in voi» (ibid. 15,4) assume, dunque, il senso di una loro chiamata ad una sorta di incorporazione con il Signore «non solo in ordine a superare il lutto della sua imminente assenza, ma soprattutto per farli entrare nella ‘dimora’ trinitaria» (p. 94).
Questi concetti, nella trattazione, vengono approfonditi e precisati, come si nota nel richiamo al costante opporsi della teologia cristiana alla tentazione di dissolvere la personalità del credente nella divinità. Quanto al tema generale dell’esposizione, si conclude notando che il permanere/dimorare, di cui si legge nel quarto vangelo, va inteso come fondamentale antidoto a quel permanere nell’impermanenza che si verifica nell’accidia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
L’analisi di questa difettosa condizione dello spirito è sorretta dalla dottrina trasmessa da Evagrio Pontico e da Tommaso d’Aquino, notando - nel primo dei due autori - l’attenzione ai ri-svolti più vari e meno noti ai quali l’accidioso approda, come risulta anche dal lessico reso, nella nostra lingua, con questa ricchezza di sfumature: «noia, torpore, pigrizia, disgusto, tedio, abbattimento, languore, indifferenza, scoraggiamento» (p. 13). Identificata da Evagrio con il demonio meridiano di cui al Salmo 90,6, la pigrizia è descritta anche negli indizi che ne rivelano gli effetti negativi sull’anima, sempre in preda a instabilità e a scontento, in perenne desiderio di novità e di cambiamenti, e, sul piano pratico, portata al rifiuto della fatica e del lavoro manuale. Occorre dunque combattere su tutti i fronti questo pernicioso spirito dell’accidia, resistendo ad ogni tentazione di fuga e adottando tutta una serie di rimedi da ricondurre all’atteggiamento della perseveranza.
Efficace, anche in questa lotta, è l’arma dell’antirrhesis o contraddizione, che consiste nel contrapporre al tentatore una parola della Scrittura, trionfando, così, dell’insidia, come fece Gesú stesso. Il discorso si amplia ricorrendo, sempre su questi temi, agli apoftegmi dei Padri del deserto, soprattutto ove essi insistono nell’esortare i monaci a non abbandonare la cella per darsi al vagabondaggio, finendo, così, preda di disamore verso le esigenze del proprio stato. Questa sarebbe la forma peggiore di accidia, perché distrugge il proposito della sequela Christi. Per Tommaso d’Aquino l’accidia è il vizio opposto alla gioia che viene dalla carità, conducendo a forme di tristezza e di disimpegno nei confronti della vita di unione con Dio, per non dire del terribile potere di cui è dotata di avvolgere nel taedium operandi, togliendo all’agire la prerogativa, in esso insita, di muoversi verso il proprio fine ultimo, che è l’incontro con Dio.
Ci si salva da questa rovina dell’anima immergendoci nell’onda di grazia dell’Incarnazione del Figlio e lasciandoci muovere dallo Spirito, per essere veri figli di Dio (Rm 8,14). A conclusione del saggio si pone l’accento sull’attenzione data dai Padri allo studio dell’accidia e all’opportunità di riflettervi anche oggi, perché non è impossibile ricavare, anche attraverso questa via, una particolare luce sulla dimensione ecclesiale della morale cristiana.
Di impianto squisitamente biblico e contestualizzato in categorie della mentalità e della cultura di oggi è il secondo saggio del volumetto, a firma di Roberto Vignolo e che ha per titolo: «Dimorare in Gesú: preventivo e antidoto giovanneo dell’accidia». L’accidia qui è vista anche sotto il profilo dei disagi psicologici di massa, come male oscuro e «impermanenza vagabonda», ove risultano difettose sia la percezione della realtà, alla quale è sempre attribuito il marchio dell’inconsistenza, sia la volizione, nella fatalità del taedium operandi. Riprendendo il tema tomista della salvezza dall’accidia grazie all’Incarnazione, si segnala il debito giovanneo di questo discorso sulla base della citazione del passo riguardante Gesú buon pastore, ove si legge: «io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Altri testi e personaggi biblici offrono elementi e modelli di terapia nei confronti dell’accidia. È ricordato anzitutto Qohelet, i cui pensieri conducono il lettore ad accettare aspetti e vicende della propria condizione senza soccombere all’atonia dell’anima, reagendo, anzi, in positivo «nel segno della gioia di vivere e del timore di Dio» (p. 64). La vicenda stessa del popolo d’Israele pellegrino nel deserto, spesso in stato di contestazione e nostalgico dell’Egitto, può essere rivisitata sotto il profilo della «tentazione accidiosa per la stessa coscienza cristiana (cf. 1Cor 10)». Tra i personaggi biblici sono ricordati, per le prove subite in crisi da accidia e sino al limite della disperazione, Elia, Giona, il pio Tobi e la sventurata Sara. Tornando ai testi si segnala, nei libri sapienziali, il paradigma dei valori proposti per affrontare la vita in pienezza, ben al di sopra di derive depressive o accidiose. In questo senso procedono anche i salmi e certe categorie del discorso biblico, fra cui è ricordata l’hypomonè, da intendersi nel senso di perseveranza nei confronti dell’opera divina iniziata, nella scia di quanto si desume da Evagrio e dalla grande tradizione monastica.
È delineato, a questo punto, quello che viene definito «il più ampio orizzonte giovanneo» (p. 70), partendo dalla constatazione che nel campo semantico del quarto vangelo «rientra alla grande il vocabolario della permanenza» (p. 72), già all’inizio nel racconto della vicenda dei primi due discepoli invitati a dimorare presso l’abitazione di Gesú stesso (cf. Gv 1,35-39). Si trattava di An-drea e del discepolo che Gesú amava e che destinerà, appunto, a «rimanere» (21,22-23). Nei discorsi di addio del quarto vangelo la dimensione del dimorare si profila in connotazione trinitaria, riguardando Gesú e il Padre ed essendo assunta nel passo della promessa del Paraclito, di cui è detto che dimorerà con e presso i discepoli e sarà con loro (cf. Gv 14,1-3 e 16-17). Il «rimanete in me, e io in voi» (ibid. 15,4) assume, dunque, il senso di una loro chiamata ad una sorta di incorporazione con il Signore «non solo in ordine a superare il lutto della sua imminente assenza, ma soprattutto per farli entrare nella ‘dimora’ trinitaria» (p. 94).
Questi concetti, nella trattazione, vengono approfonditi e precisati, come si nota nel richiamo al costante opporsi della teologia cristiana alla tentazione di dissolvere la personalità del credente nella divinità. Quanto al tema generale dell’esposizione, si conclude notando che il permanere/dimorare, di cui si legge nel quarto vangelo, va inteso come fondamentale antidoto a quel permanere nell’impermanenza che si verifica nell’accidia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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spiritualità, vangelo di Giovanni, studio, atti, tradizione cristiana, Tommaso, Evagrio, perseveranza, accidia, centro studi spiritualità
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