Deuteronomio
-Strumenti - Commentari n. 42
EAN 9788870167184
Il commento al quinto libro del Pentateuco è inserito in una serie che traduce una importante collana americana (Interpretation), pubblicata dalla John Knox Press di Atlanta. L’edizione originale è del 1990. Pur essendo destinato soprattutto a predicatori e catechisti, si tratta di un contributo che illustra bene lo stato della ricerca sul Deuteronomio (ovviamente quella della fine degli anni ’80 del secolo scorso). Il commento è esplicitamente teologico, perciò «espone il senso delle unità letterarie del libro cercando di rimanere fedele ai significati che ritroviamo all’interno di un’interpretazione che risale ai tempi dei primi strati deuteronomici» (p. 9).
L’attenzione è diretta inoltre in modo particolare all’impatto che questo libro ha avuto nel suo tempo, alla sua lettura all’epoca della Riforma e al modo in cui può istruire le comunità di fede contemporanee. Miller vede riflesso nel Deuteronomio l’effetto della predicazione dei grandi profeti dell’VIII secolo a.C. – specialmente di Osea – così come l’attività di preservazione delle tradizioni antiche ad opera dei sacerdoti leviti e della classe dirigente giudaica che avevano appunto compreso, sulla base della concezione profetica della storia, il proprio ruolo per la sopravvivenza di Giuda e del Giudaismo; non da ultimo egli riconosce – con M. Weinfeld – il decisivo legame del libro con la sapienza e il pensiero sapienziale (collegato agli scribi) che conferisce al libro un’impronta caratteristica. Il libro si è formato attraverso un complicato processo durato almeno due secoli (tra l’VIII e il VI secolo a.C.): ha ripreso materiali originari nel regno del Nord, giunti in Giudea probabilmente a seguito della caduta di quel regno ad opera dell’Assiria (ultimo quarto dell’VIII secolo), ma ha assunto la sua fisionomia essenziale nel periodo di Giosia e delle vicende successive al suo regno (VI secolo; soprattutto i cap. 4, 44–28, 68). Il tracollo del regno del Nord provocò molto sconcerto e indusse i teologi del regno del Sud a mettere a tema le domande sollevate dall’apparente venir meno delle promesse divine collegate alla discendenza e alla terra.
Il Deuteronomio si presenta come parole di Mosè rivolte a tutto Israele prima di entrare nella terra promessa; è quindi proposto al lettore come documento proveniente dall’inizio della storia di un popolo, testimone della sua formazione; nello stesso tempo, l’ammissione che l’epoca di composizione letteraria dello stesso risalga agli ultimi decenni del periodo monarchico, mostra che le parole in esso contenute non sono rivolte in primo luogo alla generazione di Mosè, bensì all’Israele di epoca posteriore: l’uditorio è il regno di Giuda nell’ultimo secolo che precede la distruzione di Gerusalemme e l’esilio babilonese: «Le parole di Mosè riferite in questi capitoli dovevano ricordare di nuovo al popolo la promessa della terra [...]. Nel medesimo tempo vi era un monito contro la tendenza alla disobbedienza, all’idolatria e all’infedeltà [...] che minacciavano la possibilità di esistere a lungo in un buon paese» (p. 13). Il libro, però, nella sua forma finale, riflette pure la perdita già avvenuta della terra, assolvendo dunque non più la funzione di invitare a ritornare a Dio per evitare il disastro, ma di spiegare il dramma dell’esilio non come il venir meno della fedeltà di Dio al suo popolo, o addirittura quale segno del limitato potere del Dio che si era rivelato al Sinai, bensì come esito di una radicale infedeltà; all’infedeltà dimostrata dal popolo il libro contrappone la proclamazione che la promessa divina resta ancora valida, perciò a Israele è richiesto di rimettersi in ascolto di quel Dio affinché la vita possa riprendere nella terra donata ai padri.
Decisiva è la prospettiva teocentrica del libro: dall’inizio alla fine è Mosè a parlare, ma la maggior parte delle sue parole sono parole di Dio da lui trasmesse. JHWH è l’unico Dio; perciò sia la riuscita che il fallimento dipendono da lui e il popolo deve comprendere che riuscita e fallimento dipendono nel suo caso dalla fedeltà a questo Dio. Israele apprende di essere totalmente dipendente dall’Unico Dio, il quale non può in nessun modo essere manipolato (cfr. i primi tre comandamenti) e i cui doni – incluse la vita e la terra – sono da considerare beni affidati e non possedimenti. La ripresa della legge quarant’anni dopo l’esperienza del Sinai, esposta alla generazione che ha attraversato il deserto ma che non era presente al Sinai, è illustrativa e paradigmatica dell’incessante processo della tradizione. La traduzione greca di Dt 17, 18-19, un passo inserito nella legge sul re e che ne delimita i poteri, ha: «Quando il sovrano si sarà insediato, scriverà per sé ad opera dei sacerdoti e dei leviti questo deuteronomio («seconda legge» in greco; in ebraico mishnè-Torà) in un rotolo che starà presso di lui e leggerà tutti i giorni della sua vita»; quasi tutte le traduzioni moderne rendono l’espressione ebraica con copia della legge (cfr. Nuova Bibbia CEI), ma, come sottolinea Miller, non senza motivo la traduzione greca si è imposta come titolo del libro: «il libro, in realtà, ha carattere di legge, è presentato come legge e intende funzionare in quanto tale. Inoltre, nella storia biblica appare quale seconda legge, successiva a quella data a Oreb, o Sinai.
È quindi un esempio importante del modo in cui legge e insegnamento si integrano teologicamente, per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi, pur preservando la continuità con quelli antichi» (p. 12). La Torà è dunque applicabile a nuove situazioni e trova già in Mosè il suo paradigma. Al contempo, per Miller, il Deuteronomio non è solo un documento legale, ma soprattutto un libro di istruzione. Il lettore è così sollecitato a cogliere lo spirito del libro e il percorso ermeneutico da lui sollecitato nei riguardi dell’intera Bibbia lungo i secoli; anche il lettore, come il re, potrà imparare dalla lettura continua del Deuteronomio, pur in circostanze storiche e sociali mutate, «a temere il Signore suo Dio, a osservare tutte le parole di questa legge e questi statuti » (Dt 17, 19).
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (3/2010) 503-505
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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