Tratto dalla Rivista Il Regno 2008 n. 12
(http://www.ilregno.it)
Affrontare la lettura di un corposo manuale di teologia, per un anziano insegnante come il sottoscritto, può a priori prospettare un esercizio di pazienza per il probabile ripetersi di un itinerario già altre volte percorso: chi scrive le seguenti annotazioni ha scelto perciò la quaresima, che nel cattolicesimo implica un periodo di penitenza, per leggere attentamente le quattrocento pagine della proposta di Fulvio Ferrario, docente di teologia dogmatica alla Facoltà valdese di Roma. Ma il bel volume, che vorrebbe essere il primo di una serie di monografie come proposta introduttiva di base, non ha riservato solo l’esercizio penitenziale: ha offerto un nutrimento teologico primaverile, ricco certo di richiami conosciuti ma pure di spunti nuovi, dovuti non solo alla differenza di accenti critici confessionali ma pure a una notevole attenzione all’oggi tipica del docente valdese, di cui abbiamo già apprezzato precedenti proposte significative, segnalandole sulla nostra rivista.
Privilegiando come capisaldi di riferimento Lutero, Barth e Bonhoeffer, l’a. dipana una riflessione molto attenta e critica sulla predicazione ecclesiale, con la ribadita preoccupazione della Riforma protestante di salvare il primato di Cristo e del suo Vangelo contro una chiesa che rischia di frapporsi troppo spesso come schermo opaco a livello ufficiale e devozionale. Di fronte alla Parola viva e ai gesti della grazia di Dio una enfatizzazione dell’ecclesiologia, specie in versione cattolica, diventa per Ferrario fumo negli occhi: in particolare la «sicumera» ecclesiastica del magistero papale (cf. p. 260 e dintorni, con p. 285) spegne addirittura qualsiasi speranza ecumenica in ordine a una reinterpretazione impossibile di concili come il Vaticano I e rende totalmente vani tentativi di riespressione come quello proposto dal Gruppo di Dombes. L’alterità fra Cristo e la chiesa va affermata con forza (cf. p. 242), analogamente alla nullità dell’uomo di fronte a Dio caratterizzata da una «passività» decisiva e fondamentale (p. 131). Altra differenziazione nei confronti della teologia cattolica, ad avviso del docente valdese, va intuita nella tradizionale visione cosale della grazia da parte del cattolicesimo latino di fronte alla dinamica visione relazionale tipica del protestantesimo nordico (cf., ad esempio, p. 101). Se poi la teologia si può permettere una incursione in terreno politico, Ferrario non manca di ribadire, come in scritti precedenti, la sua avversione nei confronti del potere politico e militare «cristiano» nel mondo (cf. pp. 124-125).
Tuttavia, per tornare alla proposta teologica, il docente valdese mostra di conoscere il concilio Vaticano II e la riflessione cattolica attuale a sufficienza per attenuare la tradizionale polemica, proponendo ad esempio la propria posizione critica sotto forma di domanda verso il dettato del concilio Tridentino (cf. p. 100) o evidenziando la «parte di verità» proposta e vissuta in momenti del passato cattolico che potrebbero essere di aiuto alla Riforma (cf. le pp. 121, 197, 306 e 310 a favore della teologia monastica, fondata sulla ruminatio della Scrittura). Pur dichiarando, spesso expressis verbis, la sua totale e cordiale lealtà verso la linea della Riforma, l’a. non manca di aggiungere sinceri cenni autocritici (cf. ad esempio pp. 131-132, 143, 153), che almeno in prospettiva aiutano una reciproca comprensione tra cristiani e ipotizzano un possibile cammino insieme.
Dopo queste annotazioni che in qualche modo vorrebbero inquadrare la proposta di Ferrario, vale la pena di avvicinare il tracciato delle quattrocento pagine, pur coscienti di sfiorarne appena la ricchezza. Il sottotitolo parla di frammenti per rilevare il carattere prospettico e parziale del discorso teologico che, pur nel rigore dell’analisi, rimane riflessione sulla predicazione della chiesa. Il primo capitolo L’unica parola di Dio addita la prospettiva nella quale narrare l’annuncio cristiano globalmente: la fede nel cristianesimo si concretizza in un ascolto accogliente del Dio che ha parlato. Nel principio era e rimane la parola, in senso cronologico e ontologico sorgivo: l’eterna parola di Dio si è fatta carne in Gesú Cristo, divenuto perciò il criterio di ogni nostro parlare di Dio; nella croce del Figlio Dio manifesta il suo amore in modo definitivo e salvante. Si tratta dunque di una parola gratuita, da cui non si può prescindere, in cui Dio si offre e non si impone: Dio è presente nella parola, e tuttavia resta mistero perché è impossibile ricondurre a un sistema logico l’amore di Dio rivelato nel Crocifisso. Un radicale punto di domanda accompagna perciò ogni tentativo di teologia naturale, perché non è possibile fondare la credibilità della parola della croce, «ma solo constatare che essa è creduta e confessare che ciò avviene nella potenza dello Spirito santo» (p. 48). La parola, certo, va interpretata, ma si propone anche e soprattutto come parola interpretante che invita a leggere la realtà naturale e storica alla luce del Dio che si rivela. Solo in Gesú Cristo la natura diventa leggibile come creazione e la storia può essere letta alla luce della promessa. Radicato in quest’unica parola l’a. affronta anche l’urgente problema del pluralismo delle religioni e dell’ipotetico dialogo, discutendo criticamente i tre paradigmi finora impiegati e difficilmente praticabili nella teologia: l’esclusivismo, l’inclusivismo e il pluralismo; nel dialogo interreligioso va piuttosto individuata «una delle modalità mediante le quali la chiesa si pone in ascolto della parola incarnata» (p. 61): modalità che ovviamente non permette arroganza in nome di un Crocifisso né sfarinamento in un sistema gnosticheggiante, ma che senz’altro impone una problematizzazione riguardo al «punto di vista dell’Occidente secolarizzato sul cristianesimo e sulle altre religioni come unico criticamente e democraticamente affidabile» (cf. p. 65).
Il secondo capitolo esplicita Gesú Cristo come parola della giustificazione, constatando che in tutta la sua storia la chiesa cristiana ha colto, vissuto e annunciato Gesú Cristo come grazia di Dio che dona salvezza. La Riforma protestante ha fatto coincidere salvezza e giustificazione, concentrando l’evangelo della grazia nell’annuncio della giustificazione mediante la sola fede. Ferrario percorre i lineamenti fondamentali di tale concentrazione in un primo sottotitolo Il giusto vivrà per fede, versetto dell’Apostolo salutato da Lutero come porta del Paradiso perché permette di interpretare luminosamente la giustizia di Dio come grandezza relazionale, accogliente e giustificante il peccatore perduto. Dio è giusto donando giustizia, che mai diventa possesso dell’uomo: resta giustificazione, da proteggere contro fraintendimenti che possono essere fatali. Le opere non vengono cancellate, ma non hanno significato meritorio né una funzione salvifica. La grazia agisce da sola e indipendentemente da ogni altro fattore. Perciò Legge ed evangelo vanno rapportati correttamente, perché l’evangelo trasformato in legge produce una moralistica religione delle opere: l’a. richiama l’uso politico e l’uso teologico o elenchico della legge, menzionandone anche l’uso didattico particolarmente apprezzato nella tradizione calviniana: chi accoglie l’evangelo come legge vi trova le linee direttrici della vita nuova secondo la volontà di Dio.
I ripetuti solus /sola della Riforma vogliono sottolineare che la proclamazione del sì di Dio implica alcuni decisivi no, che tuttavia non pongono in ombra la letizia evangelica. Il solus Christus porta all’espressione concisa di Lutero crux sola nostra theologia, e boccia senza appello la mariologia romano-cattolica degli ultimi due secoli (cf. p. 93). Il sola gratia permette di rivisitare il decreto sulla giustificazione del concilio di Trento accompagnati da Barth e Küng e rilevare come una stravaganza la giustificazione forense intesa in senso non reale, in quanto la parola di Dio è creatrice e operante, non riducibile a flatus vocis. Qui è possibile almeno capirci tra cristiani, pur usando categorie diverse, e apprezzare sentieri di avvicinamento come quelli della scuola finlandese di T. Mannermaa. Ulteriormente il sola fide richiama il radicale essere decentrati rispetto a se stessi: chi veramente noi siamo ci può essere detto solo dal di fuori, perché due situazioni coesistono in noi (simul iustus et peccator). Per la Riforma solo la parola accolta nella fede identifica le buone opere in quanto frutti della giustificazione: qui sta una sfumatura diversa ed essenziale con Roma perché «il Tridentino voleva far posto, nell’evento salvifico, all’azione umana accanto all’azione di Dio» (p. 120). L’esclusività del primato di Dio va ribadita come centro del messaggio cristologico di Paolo. Alla sola fede si oppone l’incredulità come l’essenza del peccato: la signoria di Cristo nella sua azione terapeutica libera dall’alienazione del male e restituisce identità rivelandoci come Dio ci guarda. La salvezza è solo e unicamente dono e rivela la modalità relazionale dell’essere trinitario di Dio. Ulteriormente l’annuncio di Gesú come evento di salvezza è pegno indistruttibile di una speranza più forte di ogni peccato. Questo lungo capitolo secondo merita una ripresa conclusiva sottolineante l’aspetto ecumenico (la fede salva da sola, ma non è mai sola), politico (il primo comandamento esclude poteri competitivi come potenze autonome), sociale (un no senza compromessi contro il culto del fare, dell’apparire e dell’avere che caratterizza la nostra società ricca) e personale (la salvezza attraverso le opere anche nella sua variante secolare è volontà di salvarsi da sé).
Per approfondire il messaggio della giustificazione il terzo capitolo narra Gesú come comandamento: l’indicativo di Dio porta con sé l’imperativo e l’unica parola di Dio è insieme evangelo e legge. Lo stesso Gesú Cristo è l’etica cristiana, ma tutta la narrazione biblica contiene comandi o divieti per determinati comportamenti nelle concrete e complesse circostanze della vita. Il problema sta nel cogliervi la stessa parola che risuona come annuncio di grazia. Ferrario tenta anzitutto di precisare in che senso si può parlare di Gesú come il comandamento di Dio in base all’intera Scrittura, additando il senso realistico dell’aderire a Cristo come un vero aderire alla realtà. L’accettazione credente della realtà storica è perciò di tipo critico, esorcizzante, capace di sfidandarne le contraddizioni. Gesú come telos-compimento della Torah si propone in forte continuità con la fede d’Israele, continuità complessa ma critica verso il nostro antigiudaismo tradizionale; e tuttavia Gesú si propone interprete della Torah nel contesto nuovo del Regno: la Torah non va interpretata senza o contro Gesú . In continuità con l’Antico Israele Dio in Gesú si rivolge alla comunità più che al singolo: la chiesa è chiamata a differenziarsi dai parametri etici che caratterizzano la società, quasi proponendosi come «società alternativa» (p. 152) nella libertà di un Dio che lava i piedi ai suoi e muore in croce per amor loro: dunque una libertà non sinonimo di autonomia e autoredenzione. In tale luce teologia femminista e teologia della liberazione vengono pizzicate.
La fonte di orientamento per la prassi cristiana nel Nuovo Testamento resta Gesú di Nazareth incarnato, crocifisso e risorto. Per indicare il discepolato i sinottici usano il verbo «seguire», il quarto evangelo il «camminare nella luce», Paolo preferisce «imitare»: la categoria dell’imitazione è vista tuttavia con sospetto dalla Riforma per un possibile fraintendimento legalistico nei voti monastici. In ogni caso sequela e imitazione chiedono una ermeneutica e una immaginazione creativa: suggeriscono di leggere il testo biblico oggi permettendo che il testo legga noi in una vicenda orientata dallo Spirito santo. La comunità intera è invitata al discernimento dei comportamenti, in modo che la coscienza del singolo trovi un luogo di confronto sinodale nella preghiera e nel dibattito, rivivendo il testo biblico in circostanze nuove e diverse con una obbedienza cristiana che è evento pentecostale. Seguire Gesú è anche portare la croce, che non può essere addomesticata, ma la croce racchiude in sé la benedizione che libera dall’idolo della propria felicità esigendo la rinuncia a se stessi, con la speranza in una nuova creazione. Nella società pluralista attuale l’etica punta a una testimonianza dialogica ben oltre le due impostazioni tradizionali giusnaturalistica e contrattualistica: la chiesa oggi deve tenere nel massimo conto una convivenza pacifica, facendo valere come una voce accanto alle altre la propria confessione tradotta in linguaggio accessibile a tutti. Si contribuisce così a ispirare una legislazione civile e si introduce un sospetto verso apparenti evidenze della cultura egemone: ma il cristiano rimane consapevole che una legge dello stato mai esaurisce la carica della parola di Dio.
Nel capitolo quarto Gesú Cristo nella Scrittura vengono affrontati nodi più ecclesiali, oggetto di annosa polemica: li passiamo in rassegna. La centralità della Scrittura si impone nella chiesa mediante il suo uso e in forza del suo contenuto, offrendosi come «liquido amniotico» che ne rende possibile l’esistenza stessa in quanto chiesa. Segue il canone biblico, circoscritto dalla chiesa che, così facendo, accetta di esserne criticamente determinata contro possibili ipertrofie della tradizione. L’apostolicità del testo biblico deriva dall’azione dello Spirito negli apostoli, azione che chiede la preghiera come spazio vitale di ogni rilettura credente del testo ispirato e ispirante. È dunque possibile un canone nel canone? La risposta della Riforma orienta al Cristo biblico accessibile nell’annuncio paolinico della giustificazione per grazia mediante la fede (il Christum treiben di Lutero: pp. 218-231). Ancora, Scrittura e tradizione: il grido protestante del sola Scriptura risponde a una domanda che antichità patristica e medioevale non conoscevano nei termini del secolo XVI, in cui il richiamo alla Scrittura tende a difenderne la funzione critica da un esproprio da parte dell’autorità papale e di una spiritualità per nulla biblica. Quel grido resta tuttora il segno distintivo di una chiesa che vuole difendere fino in fondo l’alterità di Cristo rispetto a se stessa. Infine, testo biblico e interpretazione: l’esegesi storico-filologica e l’interpretazione teologico-pneumatica si intrecciano: l’una rinvia all’altra, al punto che il testo offre all’interprete una trasparenza che prima non aveva.
I nuclei differenzianti tra confessioni cristiane proseguono nel penultimo capitolo Gesú Cristo nell’annuncio della Chiesa. Predicazione-dogma-teologia. La predicazione è il venire di Dio nell’annuncio della parola biblica; «Cristo e questi crocifisso» ( I Cor 2,2) resta il contenuto della predicazione; mentre la fonte è la testimonianza della Scrittura, il cui annuncio è evento nel quale Dio si rende presente. Interpretare il testo biblico nella predicazione significa lasciarsi interpretare da esso; la via per un’incidenza può prepararsela solo Dio stesso. La predicazione è parola di Dio in parole umane: come la manna del deserto non resta mai possesso prolungato per la radicale inadeguatezza delle parole umane; e tuttavia è verbum Dei, evento pneumatico e «sacramentale» (p. 263). Le forme della predicazione si prospettano diversificate: chiedono verifica costante della pertinenza cristologica del proprio dire. Il sermone è la forma eminente, la catechesi può essere una preparazione all’ascolto del messaggio, la cura pastorale è il colloquio personale condotto da un membro inviato dalla chiesa in grado di spezzare la solitudine; la diakonia tou logou (At 6,4) introduce altre forme diaconali sull’esempio del buon Samaritano. La predicazione può diventare atto politico o memoria pericolosa in grado di mettere il punto di domanda sulla religione civile. Ulteriormente, la trattazione sul dogma permette di richiamare nella chiesa il possibile intervento linguistico di emergenza e il drammatico status confessionis in cui la comunità può trovarsi, con la necessità di riformulare i contenuti decisivi della fede autentica in caso di pervertimento: comunque si tratta di parola umana che chiede di non dimenticare l’alterità tra Cristo e il suo corpo ecclesiale. Infine, la teologia come parola studiata permette di richiamare che la fede è strutturalmente pensante, e in questo senso ogni credente è teologo: quando lo fa con strumenti concettuali e nel dialogo con le scienze umane, la riflessione si affina a servizio della comunità credente. La fede sta a monte del pensiero, lo accompagna e lo attraversa, a partire da una fondamentale precedenza, che non esclude un interloquire con la cultura, senza tuttavia ridursi a «studi religiosi» (p. 307).
Cristo è l’unica parola di Dio e le forme nelle quali tale parola è annunciata sono precisamente la predicazione orale e la celebrazione dei gesti della grazia: così inizia il sesto capitolo Gesú Cristo nei gesti della grazia, tradizionalmente detti «sacramenti». Riletti da Ferrario nel quadro della dottrina della parola di Dio, si evidenziano come gesti non fondati dalla chiesa, bensì fondativi e costitutivi della chiesa. L’a. ne propone alcune linee di fondo: una introduzione generale permette di illuminare il significato dei sacramenti, sottolineando che per Lutero l’unico sacramento è Gesú Cristo. Una lunga panoramica storica precede la tesi della profonda unità di predicazione e gesti della grazia come verba visibilia: in essi lo Spirito santo rende presente oggi alla fede il Signore risorto, in una presenza reale proprio perché spirituale. Il docente valdese aggiunge una riflessione sul battesimo intuito come inizio della vita cristiana, come segno della grazia preveniente e perdono dei peccati che si protende nel futuro: all’annuncio del perdono nel battesimo bisogna tornare sempre di nuovo per il carattere irrevocabile della promessa divina (cf. p. 343). Sulla linea di Bonhoeffer che vede nella confessione un punto focale della cura d’anime, Ferrario relaziona al battesimo la penitenza-confessione: senza paura di un ascolto umile e spregiudicato anche del cattolicesimo romano egli valorizza la parola di perdono che può uscire dalla bocca di un fratello nella confessione individuale che segna un vero ritorno al battesimo. Il sacramento per eccellenza resta la cena del Signore, la cui testimonianza biblica si colloca nel cuore del racconto della passione e della testimonianza pasquale. Il filo conduttore della teologia sulla Cena, molto densa e articolata, sottolinea il carattere universale del dono della grazia, la centralità cristologica e insieme l’apertura pneumatologica del memoriale (che dice presenza e assenza «finché Egli venga»), l’orientamento escatologico nella prefigurazione del banchetto del Regno, la posizione ricettiva del credente persona e comunità, il rapporto tra la dimensione del culto e la prassi etica conseguente di una vita integrale, piena e donata. Rapidamente nell’ultima pagina 386 dieci righe finali indicano la direzione conclusiva di ogni trattazione teologica come di ogni altro aspetto della vita cristiana: tutto sfocia nella lode di Dio. Alla fine una robusta bibliografia di 15 pagine precede l’indice dei nomi e dei passi biblici.
Per concludere anche la nostra segnalazione, un grazie cordiale va detto all’autore del poderoso volume che ci ha fatto compagnia durante i quaranta giorni di una quaresima un po’ più ispirata. Un apprezzamento particolare va alla trattazione dei sacramenti come gesti della grazia nella luce della parola di Dio, e più in generale all’aggiornamento su tutto ciò che la vivace riflessione cristiana offre negli ultimi decenni, anche se spesso le varie posizioni nei dibattiti teologici sono stampate in caratteri più piccoli. Il grazie si estende pure alle critiche che l’a. non risparmia al cattolicesimo, critiche tutt’altro che disprezzabili che impongono un ripensamento in atteggiamento di correzione fraterna, ben aldilà di una sterile polemica, del resto ben superata dall’a. stesso. Anche al recensore cattolico restano alla fine alcune perplessità che possono tradursi in sincere domande da riconsiderare insieme. Ad esempio: l’indubbia centralità di Cristo nostro Salvatore esige proprio una alterità così insistentemente critica verso il suo corpo che è la chiesa, fino a nullificarla e quasi demonizzarla? La situazione ecclesiale disastrosa del XVI secolo forse esigeva tale critica, ma non ci sembra che la Scrittura nativamente la imponga. A Dietrich Bonhoeffer non era sfuggito che il primato di Cristo espresso con l’aggettivo solus lo affermano nei secoli anche i cattolici ad ogni celebrazione solenne: nel Gloria della Messa il conclusivo Tu solus sanctus, Tu solus dominus, Tu solus altissimus è attribuito a Cristo. È vero: noi cattolici, con sfumatura diversa, interpretiamo quel solus come unica fonte di un torrente di santità in grado di purificare e santificare tutti i credenti in una relazione stabile che non può dar luogo ad una radicale e oppositiva alterità. Non è sufficiente così per dirci credenti in Cristo e al suo Evangelo? Si può anche aggiungere che ogni preghiera ufficiale nella chiesa cattolica si rivolge al Padre e termina con il per dominum nostrum Jesum Christum…in unitate Spiritus. A livello devozionale, è vero, le cose non sono sempre così limpidamente corrette ed è compito non indifferibile di chi ha responsabilità ecclesiale correggere esagerazioni e sbandamenti.
Analogamente va certo riconsiderata, nella riflessione sulla grazia e giustificazione, la pesante «cosalità» del secondo millennio nell’Occidente europeo: non va dimenticato che tale orizzonte culturale fu un regalo imposto alla mentalità tardo-patristica mediterranea durante e dopo le antiche invasioni barbariche o migrazioni dei popoli nordici. E tuttavia lo stesso medioevo al culmine della Scolastica sapeva ancora saggiamente interpretare, oltre l’orizzonte cosale, la grazia come habitus non nel senso di un sostantivo cosale ma di un participio dinamico relazionale: il francescano Bonaventura, contemporaneo di Tommaso d’Aquino, nel suo Breviloquium afferma testualmente: «Habere Deum est haberi a Deo», un essere posseduti da Dio. Anche questo fa parte della tradizione cattolica.
Ci sorprende sempre anche l’unilateralità paolinica della lettura riformata della Scrittura: il canone nel canone, come anche Ferrario lo offre, ci sembra un piano inclinato che slitta facilmente verso la dimenticanza della altre tradizioni neotestamentarie, come quella giovannea che per i fratelli ortodossi resta fondante e illuminante. Infine, pur accettando in pieno che la Scrittura si impone da sé come parola di Dio, non riteniamo «puntelli impropri» (p. 275) gli sforzi pastorali per individuare le fessure antropologiche in cui il seme della parola di Dio può germogliare: anche il coraggioso seme di stella alpina ha bisogno di un minimo di terreno adatto, senza nulla togliere alla vitalità intrinseca del seme.
Queste nostre perplessità dicano almeno l’attenzione che abbiamo riservato alle quattrocento pagine della fatica di Fulvio Ferrario: la stima nei confronti dell’a. e della sua proposta semmai è confermata.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2009, nr. 2
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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