Capire che cosa dice veramente la Bibbia. Guida pratica, con esempi, rivolta a chi desidera comprendere meglio la Bibbia.
Qualche anno fa nelle librerie si vedeva una serie di volumetti divulgativi sui principali pensatori dall'antichità al nostro tempo. Ogni volume era intitolato "Che cosa ha veramente detto..." seguito dal nome del pensatore.
Il caso di un testo biblico non è diverso: anche qui è necessario sforzarsi di chiarire che cosa ha veramente detto o inteso dire l'autore.
Fare esegesi significa dunque rinunciare a riproporre luoghi comuni e convinzioni su fede e vita cristiana sostenendo che sono avallati dalla Bibbia o optare invece per la ricerca di quanto il testo biblico dice effettivamente.
Il libro si rivolge in particolare a quanti desiderano intraprendere questo cammino senza sapere da dove partire. Suggerimenti pratici ne orientano il percorso.
INTRODUZIONE
Qualche anno fa si vedeva in tutte le librerie una serie di volumetti divulgativi sui principali pensatori di tutto il mondo, dall'antichità al nostro tempo. Ogni volume aveva per titolo: «Che cosa ha veramente detto...» — e al posto dei puntini seguiva il nome del pensatore esaminato (Einstein, Freud, Marx, Epicuro, Buddha, Gramsci, Lutero, Calvino, Galileo e molti altri). La parola veramente era stampata in rosso.
Ecco: davanti a un testo biblico o a una porzione di un testo biblico dobbiamo fare lo sforzo di chiarire a noi stessi e di spiegare ai nostri ascoltatori che cosa ha veramente detto o voluto dire colui che lo ha scritto.
Molte svolte importanti della storia del pensiero cristiano, da quelle più note (per esempio Lutero, Calvino) ad altre meno note, si sono prodotte perché qualcuno si è semplicemente messo con impegno e con fede a leggere i testi per capire «che cosa ha veramente detto» il Nuovo Testamento.
Fare dell 'esegesi significa dunque rinunziare a ripetere luoghi comuni pretendendo che siano ricavati dalla Bibbia; smettere di seguire passivamente tradizioni senza controllarne la verità sui testi; evitare di dire quello che noi pensiamo su argomenti di fede e di vita cristiana e metterci d'impegno a ricercare ciò che la Bibbia veramente dice.
Nei capitoli che seguono vedremo questo con maggior precisione, e ci soffermeremo su alcune tappe essenziali di questo lavoro, quelle che sono accessibili e praticabili anche da chi non può leggere la Bibbia nelle sue lingue originali.
Scrivendo non penso tanto a quei credenti che sono già abituati a insegnare nelle scuole domenicali o al catechismo, oppure a predicare. Nel corso del loro lavoro si sono fatta man mano la loro esperienza esegetica. Questo lavoro è destinato soprattutto a quelli che vorrebbero mettersi su quella strada e non sanno come cominciare Ad essi pensiamo di poter dare dei suggerimenti pratici per muovere i primi passi nel cammino dell'esegesi. Queste indicazioni non escludono procedimenti diversi che possono essere risultati per qualcuno efficaci e utili.
Vorrei anche ricordare che tutte le tecniche, anche le più raffinate, e tutta l'esperienza che possiamo avere, non sono sufficienti se si trascura la sottomissione alla Parola di Dio e la sua lettura quotidiana. Questo mette il predicatore e la comunità, o l'insegnante e la sua classe, sul medesimo piano, che è un piano di fede e di comunione nella ricerca di Dio e della sua volontà. Torneremo su questo punto nel cap. VIII.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
CHE COS'È L'ESEGESI?
Esegesi è una parola di origine greca (greco: exégesis) usata da Tucidide nel senso di «racconto, esposizione», da Polibio nel senso di «spiegazione, commento», da Platone nel senso di «interpretazione». Il significato etimologico coincide piuttosto con l'uso dei due ultimi autori citati; infatti il termine deriva da un verbo greco (exegéomai) che in senso proprio vuol dire «condurre fuori», e in senso figurato «esporre, narrare, descrivere», oppure «interpretare, spiegare». Osserviamo che il verbo è composto con la preposizione ek (ex davanti a vocale): questo implica che nello spiegare si trae fuori da un testo il suo significato (eklex infatti equivale al nostro «da», che significa provenienza, moto-da-luogo).
Per divertirci un momento, possiamo immaginare di creare una parola nuova adoperando invece di ekLex la preposizione eis che vuol dire «in, dentro» con i verbi di movimento: otteniamo allora il termine eisegesi (greco eiségesis), che indicherebbe esattamente il contrario: non l'abilità di «trarre fuori» da un testo il suo significato, ma il procedimento di mettere in un testo un significato che non è il suo, che gli è imposto (dal commentatore o dal predicatore). L' eIsegesi è una tentazione da cui bisogna guardarsi con cura, quando si commenta un passo biblico!
L' esegesi è dunque la ricerca e l'esposizione del significato di un passo della S. Scrittura. Possiamo definire con maggior precisione questo lavoro?
I dizionari della lingua italiana non ci aiutano. Il Dizionario Garzanti dà questa definizione: «Spiegazione ed esposizione critiche di testi antichi, specialmente sacri e giuridici». Quello di Devoto-Oli è più breve, ma equivalente. Dice: «L esegesi è l'interpretazione critica di un testo». Il Dizionario d'ortografia e di pronunzia, della RAI, non dà un significato, ma indica due pronunzie diverse e accettabili: esegèsi oppure, alla greca, esègesi.
Può essere più utile lasciare da parte i dizionari e cercare qualche definizione di esegesi data da studiosi evangelici. Queste appartengono all'uno o all'altro di due grandi gruppi. Il primo è quello che sostiene che fare esegesi significa esporre in termini nostri quello che l'autore biblico voleva dire per i propri lettori. È una definizione utile e anche molto impegnativa, perché richiede un lavoro non indifferente.
Altri però la giudicano troppo restrittiva, e affermano che chiarisce solo una parte del lavoro esegetico che la Bibbia ci domanda. Essi dicono infatti che il lavoro esegetico consta di due momenti: 1) ricavare dal testo quello che esso ci fa conoscere sulle circostanze storiche dell'epoca di composizione, sul suo autore e sui lettori ai quali era rivolto, sul mondo spirituale dal quale deriva ecc.; 2) ricavare dal testo quello che esso dice sull'argomento di cui si occupa, e quello che significa per me (o per noi).
Siamo dunque in presenza di due definizioni diverse, che corrispondono a due maniere diverse di impostare il lavoro col testo biblico. La differenza sta nel posto da assegnare al rapporto del testo biblico con noi e con il nostro tempo. Si tratta di una «applicazione», di una «attualizzazione», che si può fare solo dopo aver fatto l'esegesi — oppure riferire il testo al nostro tempo e ai nostri problemi rientra ancora nel lavoro esegetico vero e proprio?
Su tale questione ritorneremo nel cap. VIII. Per il momento, ci limitiamo a osservare che questi due momenti della lettura biblica non devono venir separati arbitrariamente. Molti studiosi tendono a identificare l'esegesi con la prima tappa, la sola che considerano scientifica. E molti predicatori, alla ricerca di «quello che il testo significa per me» (o per la comunità), rischiano di pensare solo alla seconda tappa, dimenticando che la via per arrivare a quel traguardo deve passare necessariamente attraverso la ricerca del significato originario del testo biblico.
Nessun passo o libro biblico è stato scritto dal suo autore «per noi», per dire qualcosa a noi: sono stati tutti scritti per dei lettori concreti del passato, che si trovavano in situazioni ben precise. Solo quando avremo stabilito (nella misura del possibile) quello che il testo aveva da dire a quei lettori, nella loro situazione, potremo cominciare a percepire che cosa la Bibbia dice a noi in quel medesimo brano, cercando e scoprendo le analogie o le differenze che vi sono tra la nostra situazione e quella delle persone per cui quel brano è stato scritto.
Spiegare ogni parola del testo come se fosse rivolta direttamente a noi, per dire qualcosa proprio a noi, senza passare prima attraverso l'analisi delle situazioni storiche e del significato che il testo aveva per quelle, significa prendere una pericolosa scorciatoia, e trascurare le circostanze concrete che potevano illuminare o giustificare certe esortazioni per i lettori dell'epoca biblica.
Si possono fare moltissimi esempi: che la donna debba tenere il capo coperto (I Cor. 11,3- l 6) è chiaramente un'esortazione suggerita dalle abitudini dell'epoca e dal desiderio di evitare scandali e sospetti nei confronti delle comunità cristiane. Quando Paolo scrive che i celibi farebbero bene a rimanere tali (I Cor. 7,8) è condizionato dalla sua convinzione dell'approssimarsi della tribolazione finale. È evidente che esortazioni come queste non si possono trasferire tali e quali ai credenti del nostro tempo, senza valutare la circostanza in cui furono dettate dall'apostolo Paolo e la situazione diversa in cui ci troviamo oggi.
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Mario Racioppi il 14 giugno 2024 alle 12:20 ha scritto:
Ottimo aiuto alla comprensione dei testi biblici