Realtà e mistero. Le radici universali dell'idealismo e la filosofia del nome
(Piccola enciclopedia)EAN 9788867234325
Il testo raccoglie due saggi di Florenskij: Le radici universali dell’idealismo (1908) – inedito in Italia – e Il nome di Dio (1921); il primo rappresenta una relazione che l’autore russo tenne all’Accademia Teologica di Mosca nell’imminente conseguimento della docenza in filosofia, il secondo si inserisce nel più ampio dibattito che investiva la cultura teologica russa del tempo intorno al problema della venerazione del nome di Dio e del suo significato.
Il curatore del libro, Natalino Valentini, opportunamente accosta queste due opere non tanto sotto il profilo diacronico, ma sotto quello tematico: «la prolusione presentata all’Accademia Teologica nel 1908 si intreccia perfettamente con lo scritto da lui dedicato alcuni anni più tardi al Nome di Dio, anticipando non solo le forme della percezione filosofica della questione, ma anche gli esiti teoretici e i loro nuclei simbolici» (93).
Il primo testo mette in risalto che l’idealismo è la radice di un pensiero, specificamente cristiano, che vuole essere complessivo e integrale. Bisogna togliere, però, al termine ogni sostrato ideologico e storico e, come Florenskij stesso suggerisce, intenderlo nel suo significato proprio di dottrina delle idee. Il riferimento diviene quindi non tanto la scuola filosofica tedesca dell’Idealismo, ma il pensatore antico che, più di tutti, ebbe modo di confrontarsi con il mondo delle idee: Platone. L’autore riconosce apertamente che «la nostra cultura intellettuale e spirituale discende senza dubbio alcuno da Platone» (14), dal momento in cui l’idealismo platonico risulta essere «l’elemento naturale della filosofia, che – se privata di cotanto ossigeno – soffocherebbe, per poi appassire e morire» (17-18).
Ancorare il pensiero filosofico occidentale a Platone vuol dire, per il pensatore russo, richiamarlo alla sua vocazione primaria: essere Scienza unitaria e globale, dal momento che «l’umanità non si occupa più di Scienza, ma di scienze; non di scienze, anzi, bensì di discipline» (22). Nella frammentazione dei saperi – utile per una maggior specializzazione – l’appello florenskijano risuona come un allarme contro il pericolo di una scissione delle conoscenze che non vengono più poste in una visione più grande e armoniosa. Con una immagine forte Florenskij vuole lodare la percezione immediata e unitaria di un contadino, piuttosto che quella artificiale e asfittica di un intellettuale, il cui sapere non riesce più a integrarsi con la propria esistenza concreta.
Per poter scorgere le radici dell’idealismo bisogna, innanzitutto, abbandonare una visione oggettivante della natura: «la natura tutta ha un’anima, la natura tutta è viva nel suo insieme e nelle sue componenti. Tutto in essa si lega in vincoli misteriosi, tutto respira di un unico respiro» (28). Oltre i legami oggettivi, le energie delle cose si compenetrano in modo originale e misterioso. Ciò che sembra sciolto e libero ad una lettura superficiale, è invece legato profondamente nell’idea unitaria: «come le lastre di pietra sono tenute insieme dalla calce, così l’aldilà impregna e tiene insieme il quotidiano» (32). Non vi è quindi, nel pensatore russo, nessuna negazione del dato oggettivo, ma il riconoscimento della sua parzialità che non riesce a comprendere il tutto, nella sua globalità e interazione. «Il mistero si innesta nella vita quotidiana, che diventa parte del mistero» (33). Ma come rendere evidente questo contatto tra la realtà e la radice ideale e misteriosa che tutto unifica?
Utilizzando un’analogia con il mondo delle potenze magiche, Florenskij afferma che tutto ciò è possibile all’uomo tramite la parola, poiché «solo la parola fissa il pensiero sull’idea» (41). La parola magica è una parola che crea qualcosa di nuovo che prima non c’era: come nel mito genesiaco, è il nome a creare la cosa, «la cosa interagisce con il nome, la cosa imita il nome» (45). Una visione del mondo – insieme dettagliata e completa – ha «come elemento fondante il nome quale principio metafisico dell’essere e della conoscenza» (46). Il nome lega insieme il dato oggettivo, ma lo trascende, poiché non è la cosa stessa: esso esprime l’idea della cosa, la sua natura. Contro la tendenza nominalistica che pervade tutta la contemporaneità filosofica, Florenskij innalza una concezione fortemente realistica del nome quale simbolo in cui si esprime «la personalità mistica dell’uomo, il suo soggetto trascendentale. […] Non è l’uomo ad avere nome, ma il nome ad avere un uomo» (50).
Da questa visione metafisica del nome come manifestazione del mistero, il pensatore russo, termina il suo saggio passando alla natura stessa del nome di Dio, che ne svela la sua intrinseca essenza, in «quel Nome l’energia di Dio e l’aiuto divino si svelano a colui che Lo invoca» (54). È proprio il tema delle energie che, nella scia platonica passando per il teologo greco medioevale Gregorio Palamas, convince Florenskij a sostenere – in modo più specifico nel saggio successivo posto nel libro – la posizione onomatodossa, cioè di coloro che difendevano il Nome di Dio come reale manifestazione di Dio, poiché «il nome della cosa è l’idea-forza-sostanza-parola che fissa l’unità dell’essenza nella molteplicità delle sue manifestazioni, e che mantiene e forma l’essere stesso della cosa» (55). La sostanza e il nome sono – nelle diverse relazioni che intercorrono tra loro – un solo fenomeno inscindibile: è questa la grande lezione platonica che attraversa l’intera cultura occidentale e che non deve mai essere dimenticata.
Nel secondo saggio, Florenskij si sofferma sull’analisi del Nome di Dio e sui problemi che sono sorti intorno alla sua venerazione e che costituivano, in quegli anni, un tema molto discusso e dibattuto in seno alla chiesa ortodossa russa e non.
Schierandosi fin da subito tra gli onomatodossi, egli lega la questione a quella del simbolo: «nella questione del Nome di Dio il concetto di simbolo è cruciale» (70). Se il simbolo è espressione di una realtà trascendente inapprensibile, ma vicina, la negazione del nome – onomoclastia – è negazione stessa della possibilità di ogni simbolo.
Il simbolo esprime l’unità tra due livelli di realtà «il superiore e l’inferiore, ma è un’unità nella quale l’inferiore contiene il superiore, ne è compenetrato e impregnato» (70-71). Attraverso un’analisi accurata, Florenskij prova a illustrare la dinamica del simbolo. In primo luogo esso si esprime in parole che manifestano un carattere visibile – corpo – ed uno invisibile – anima – sempre in stretta relazione: una parola si esprime con segni e in forme proprie e adatte alla comprensibilità, ma ha anche una intenzionalità che trascende i meri segni.
Rifacendosi esplicitamente a Gregorio Palamas, il pensatore russo riscontra, nel simbolo stesso quella differenza tra la sostanza e l’energia (cf. 75). Una tale differenza è trasposta anche in Dio, «accanto all’Essenza, in Dio c’è anche l’azione, la rivelazione, il disvelamento del Divino» (78); se la sostanza (essenza) di Dio è inattingibile, non è così per la sua energia (azione) che lo rende manifesto. Ed è soltanto all’energia divina che si può riferire il nome di Dio, operando un passaggio – logico e ontologico – giusto e necessario: «poiché l’Essenza di Dio non ci è notificata, o rifiutiamo in toto la parola “Dio”, oppure la riferiamo all’energia Divina» (79).
Florenskij chiarisce subito, però, che «il Nome di Dio è Dio, ma Dio non è il suo nome. L’Essenza Divina è superiore alla Sua energia, nonostante tale energia esprima l’essenza del Nome di Dio» (81). Per salvare l’assoluta trascendenza di Dio e il suo mistero non è mai possibile assimilare l’energia alla sostanza divina, pur ammettendo che la prima esprima tutta intera la divinità.
Il saggio si chiude con alcune notazioni scritturistiche e linguistiche utili per comprendere come la Bibbia abbia recepito la potenza del Nome di Dio; interessanti anche le domande che, nello stile volutamente polemico del testo, Florenskij pone alla controparte onomoclasta, soprattutto in merito alla non immediatezza della loro posizione.
I saggi proposti in questo volume hanno il pregio di una chiarezza tematica notevole, che la scelta di accostarli insieme ha maggiormente amplificato. Si ritrova tutta la ricchezza terminologica e teologica di Florenskij intorno ad un tema di confine tra la filosofia e la teologia, pur nel taglio strettamente teologico che gli scritti mantengono. Il saggio conclusivo del curatore, Natalino Valentini, ha il merito di inquadrare la problematica mettendo in dialogo i due saggi. È naturale che, finita la lettura, possibile a diversi piani di profondità, nasca il desiderio di approfondire un tema che ha investito l’intera cultura russa agli inizi del Novecento e che affonda le sue radici nelle dispute medioevali.
Tratto dalla rivista Lateranum n.1/2015
(http://www.pul.it)
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