Il Dio dei cristiani. L'unico Dio?
(Scienza e idee)EAN 9788860302441
L’a. del caso editoriale Il futuro dell’Occidente (2005) con questo suo nuovo vol. affronta il tema di Dio partendo da due verità definite da lui medesimo lapalissiane: «Dio è, in sé, lo stesso per tutti ed è al di là di ogni possibile rappresentazione». Il saggio, in realtà, non vuole proporsi come una «teoria di Dio» quanto, piuttosto, «descrivere l’immagine che una determinata religione, il cristianesimo, si fa di esso, considerando talvolta, di sfuggita, anche le immagini che se ne fanno le altre religioni, quelle del passato o quelle ancora esistenti». Libro scritto da un filosofo che tale vuole rimanere pur invidiando alla teologia il fatto che inizi su quello che gli altri campi del sapere danno per presupposto, vale a dire l’esistenza dell’oggetto studiato, Dio stesso. Un paradosso tutto francese lo guida: in fondo Dio «è l’unico essere che di diritto possa essere ateo».
Tratto dalla rivista Il Regno n. 20 del 2009
(http://www.ilregno.it)
Molto stimolante è la lettura di questo testo di Rémi Brague, professore di filosofia araba e medievale alla Sorbona di Parigi e di filosofia delle religioni europee all’università Ludwig-Maximilian di Monaco. Esso raccoglie alcuni saggi già pubblicati dall’Autore in varie riviste, ma essi sono stati rielaborati in maniera assai radicale, in un’opera il cui titolo già ne rivela il carattere non esaustivo, per scelta dell’Autore stesso. Il primo capitolo ha l’obiettivo di far luce su alcuni luoghi comuni che rischiano talvolta di sviarci più che di aiutarci in un corretto approccio con le tre religioni monoteiste: i “tre monoteismi”, le “tre religioni di Abramo”, le “tre religioni del Libro”. Per comprendere abbiamo bisogno di cogliere ciò che può accomunare diversi fenomeni, ma, come del resto richiede lo stesso rapporto di analogia, non possiamo dimenticare la dissomiglianza, che è più della somiglianza.
Prima di tutto ci aiuta la storia del linguaggio: il termine monoteismo non nasce in seno all’esperienza religiosa, ma è usato per la prima volta da Henry Moore, teologo platonico di Cambridge, nel 1660, e da lì si imporrà sempre più in ambito filosofico (2). Tale termine ha poi una sua ambivalenza: come ci sono religioni non monoteiste, ci sono anche monoteismi non religiosi, come il deismo di alcuni illuministi. I tre monoteismi che noi abbiamo presenti non sono neanche i primi o gli ultimi: il faraone Amenofi IV che prese il nome di Akhenaton intorno al 1250 a.C. propose la prima forma monoteistica al suo paese e nei popoli colonizzati del terzo mondo sono state rinvenute alte forme di monoteismo successive a Ebraismo, Cristianesimo e Islam. In realtà monoteismo e politeismo non sono così antitetici come sembrano: ogni religione attribuisce al divino un livello di unità e uno di molteplicità. La vera questione allora consiste nell’affermare che Dio è unico e nel manifestare in che modo Dio è uno. Inoltre Abramo, invece di unificare queste tre grandi religioni, costituisce una fonte di disaccordo. L’Ebraismo guarda ad Abramo come il grande padre nella fede e pone l’accento sull’intervento di Dio che ferma la mano di Abramo ed impedisce il sacrificio di Isacco. Il cristianesimo, guardando alla fede esemplare di Abramo, considera Isacco prefigurazione di Gesù Cristo.
L’islam, fondato da uomini non ebrei, ha inventato una genealogia collegandosi con Ismaele ed intravedendo in lui un antenato degli Arabi. Abramo avrebbe fondato una casa che la tradizione islamica individua nella “valle sterile”, la valle della Mecca dove sorge il tempio cubico della Kaaba. Il riferimento dell’Islam ad Abramo è poi escludente dell’Ebraismo e del Cristianesimo: «Abramo non era né giudeo né nazareno, ma puro credente e musulmano» (Corano III,67). Ebraismo, Cristianesimo, Islam hanno tre testi sacri, diversi tra loro per stile e tempi di composizione. Ma soprattutto è diverso il modo di rapportarsi al testo: per l’Ebraismo, in questo diverso dall’antico Israele in cui la vita e la storia producono i testi, il libro produce la nazione e la Bibbia è la «patria portatile» di ogni Ebreo (H. Heine). Per il Cristianesimo l’essenza è data dall’evento Gesù di Nazareth e il libro racconta l’evento per condurre alla fede in Lui. Nell’Islam all’origine c’è l’evento e il libro, di cui alcune parti sono diventate fonte di diritto, è un modo di vita che produce una civiltà. Il Corano non può contenere errori, contraddizioni o disposizioni provvisorie, ma tutto è vero e definitivo. Gli altri testi (A.T. e N.T.) sono deformazioni dell’unico testo autentico. Nel secondo capitolo si affronta la questione della conoscenza di Dio. Prima di tutto l’Autore si interroga sul conoscere in sé e poi sul conoscere volto a sé, alle altre persone, a Dio. Sono così individuati due presupposti fondamentali: la conoscenza autentica della persona e di tutti i livelli della realtà avviene in un’esperienza di amore e di amicizia, la conoscenza delle cose, cioè di tutto ciò che non è dato nell’esperienza immediata di se stessi chiede che sia la natura dell’oggetto a dettare le regole per accedervi.
Cosa vuol dire tutto ciò applicato all’esperienza di Dio? L’approccio a Dio non può essere tentato da un metodo sperimentale, ma la fede è la conoscenza adeguata di Dio perché è l’unica forma adeguata di conoscenza di un oggetto paradossale, nascosto al modo di conoscere della scienza umana, ma manifesto a chi crede. Stiamo forse ritornando alla tradizione onto-teologica dell’Occidente dichiarata ormai chiusa da Heidegger dopo il colpo mortale del suo ultimo esponente, Nietzsche, per la quale Dio è l’ente sommo, vertice della piramide degli oggetti? Brague si difende precisando che la fede è un tipo di conoscenza che rovescia il consueto rapporto tra soggetto e oggetto presente in ogni tipo di conoscere umano con finalità pratica: la fede è conoscere Dio come si è conosciuti da Lui (cfr. Gal 4,9). Tale forma di conoscenza ci chiede di abbandonare ogni pretesa di padronanza sull’oggetto, anzi ci fa scoprire la nostra dipendenza dall’oggetto in questione, che è Dio. Da una prospettiva pragmatica e di dominio, la conoscenza di Dio è perfettamente inutile; se Dio è il nostro Bene, la conoscenza di Dio che avviene nella fede è un’unione con Lui nella volontà, nella libertà, nell’amore. Nel terzo capitolo l’Autore ci ricorda in che modo il Dio dei cristiani è uno. Dopo un’interessante sintesi e disamina della polemica tra i sostenitori della superiorità del monoteismo e coloro che vogliono rivalutare il politeismo nella storia del pensiero filosofico, arriviamo al cuore del problema, lo specifico del Cristianesimo, la professione di fede in un Dio trinitario.
Di fronte a questa conoscenza di Dio vissuta dai cristiani, il concetto di monoteismo rischia di essere vago e addirittura fuorviante. Il problema tra politeismo o monoteismo, infatti, non riguarda Dio come essere personale, ma il divino. Dio è ovviamente uno e i cristiani ci mostrano in che modo Egli lo è: la sua unità è tale da non avere nulla in comune «con i diversi modi in cui può essere uno ciò che si trova nel mondo creato» (55), eppure rimane un minimo di rassomiglianza perché la sua unità possa essere professata. Ci viene in soccorso Bernardo di Chiaravalle, che nel XIII secolo ci ricorda che la carità è il legame che mantiene l’unità di Dio. Per gli uomini «l’amore è contemporaneamente il più importante e il più leggero, il più essenziale e marginale di tutti i tipi di unità» (58). Dio è amore, in Lui essere e amore coincidono, e «il concetto di relazione viene innalzato a concetto chiave che permette di pensare ciò che Dio è» (61). Ogni persona possiede qualcosa solo donandolo, è la relazione che ha con le altre. Mentre l’amore umano accetta l’altro in quanto tale, in Dio l’amore pone e vuole l’altro in quanto tale. Nel quarto capitolo l’Autore si concentra sulla paternità di Dio non solo nella relazione con il Figlio, ma in rapporto alle creature. Per comprendere rettamente la paternità di Dio, soprattutto in rapporto all’uomo, prima di tutto ci viene ricordato, al fine di fugare le proteste del pensiero femminista, che in Dio, «l’idea di paternità è separata da quella di virilità» (72). Professare Dio come Padre e non come Madre, anche se il suo modo di amare ha tratti femminili, come le viscere di misericordia, non significa legittimare un privilegio del sesso maschile, ma riconoscere come la storia della salvezza sia un dialogo tra due libertà, in cui la libertà di Dio riconosce e mantiene nella sua integrità la libertà dell’uomo. Il figlio, nella gestazione, fa parte del corpo della madre, che è sempre certa, mentre non fa parte del corpo del padre che lo deve riconoscere con un atto di libertà. Il figlio, dal canto suo, è chiamato a costruire un rapporto di libertà con il padre. L’Autore invita a trarre da questa concezione tutte le conclusioni possibili a livello sociale e politico, e ad essa si ispira il modello di autorità esercitato nella Chiesa.
Nel quinto capitolo Brague si sofferma sulla definitività della rivelazione di Dio in Gesù. Il Dio dei cristiani è il Dio che ha detto tutto. Anche in questo capitolo egli attinge soprattutto all’esperienza di un mistico, Giovanni della Croce (1542-1591). L’unica Parola di Dio è il Figlio, e in Lui il Padre ci ha detto tutto insieme ed in una sola volta, e non parla oltre. L’Antica Alleanza era una prefigurazione della Nuova ed indirizzata alla Nuova. Se Dio ci ha detto tutto in Gesù, questo è il tempo in cui «Dio è rimasto come muto» (87). Che cos’è il silenzio di Dio? «Colui che non è solo capace di ascoltare, ma anche di amare percepisce questo silenzio come la Parola di Dio» (88). Che cosa dice il silenzio di Dio? Prima di tutto esso ci annuncia che Dio ha detto tutto perché ha dato tutto per la nostra salvezza, si è fatto povero, non ha trattenuto più nulla per sé. In secondo luogo ci dice che il messaggio, l’annuncio del Regno di Dio, coincide con il messaggero, Cristo, la seconda persona della Trinità che si è fatta uomo. Cristo è Colui che è detto, «il dono di Dio è concentrato nell’individualità insostituibile di una vita e di una morte umane, attraverso cui è unificato e singolarizzato. Una vita e una morte umane caratterizzate da uno svolgimento irreversibile» (93). Nella sua morte la potenza della Parola diventa il silenzio del Verbo, spogliato di ogni potenza. Tutto ci è stato donato in Lui, nulla oltre e al di fuori di Lui, ma in Lui ci è stato donato oltre ogni nostro desiderio e ogni nostra attesa. Il Signore non dà risposte, è Lui la risposta. In terzo luogo, «tutto è stato dato, ma non tutto è manifesto» (102).
Il tempo del silenzio di Dio è il tempo dello Spirito Santo che non aggiunge nulla a ciò che Dio ci ha donato in Cristo, ma ci aiuta a fare memoria e suscita la nostra risposta, è il tempo in cui Dio tace per darci la parola, è il tempo in cui Egli tace per lasciare spazio al giudizio della ragione e al linguaggio umano. Queste intuizioni portano il nostro Autore a sostenere la tesi che «il Cristianesimo è responsabile di quello che, a ragione, si chiama fuga dal sacro» (83), che con il Cristianesimo inizi dunque il movimento di secolarizzazione del mondo. Il sesto capitolo intende una volta per tutte bandire la riduzione del Cristianesimo ad una morale e le possibili concezioni sacrificali di Dio. Il Dio dei cristiani è un Dio che non chiede nulla. «Così, la rivelazione cristiana non è la rivelazione di una Legge, ma la rivelazione di una misericordia e di una grazia» (115). La Legge è presupposta, ma perché non riusciamo a fare il bene che conosciamo? La misericordia è l’annuncio del perdono per le colpe passate, la grazia è l’annuncio del dono della capacità di fare il bene in futuro. Dio apre uno spazio di libertà all’uomo, rispetta la sua autonomia nella realizzazione del bene personale, sociale e politico. Brague fa tesoro a tal proposito della teoria dello tsimtsum, del ritrarsi di Dio, comparsa per la prima volta con Isac Luria, nel XVI secolo e ripresa da diversi pensatori ebraici, anche contemporanei. Il Dio che si fa mangiare è inequivocabilmente il Dio che non chiede nulla, attende che l’uomo accetti il dono di sé che Egli offre, non vuole sacrifici e non chiede di morire per Lui, ma dona la forza a chi sceglie di morire con Lui. Uccidere l’idolo, l’immagine sacrificale di Dio è necessario, ma togliere di mezzo il vero Dio che solo dona e nulla chiede significa consegnare l’uomo al culto dell’ultimo dio che è la morte. Il dono della fede, uno dei doni del Dio che non chiede nulla, ma ha dato tutto, disvela il senso della vita: «La vita può avere senso solo come risurrezione» (130).
Nel settimo e ultimo capitolo l’Autore considera il Dio dei cristiani come il Dio che perdona i peccati. Premesse alcune chiarificazioni e distinzioni, come quella tra remissione e perdono, o l’infelice riduzione del peccato al piacere, o l’ingenua concezione secondo cui il male del peccato è nel recare danno o offesa a Dio, Brague ci presenta una suggestiva intuizione riguardo la remissione dei peccati e la realtà stessa del peccato. «La remissione di cui solo Dio è capace trascende il perdono umano» (141). Il perdono è ancora qualcosa di umano, mentre la remissione è una liberazione e deriva unicamente da Dio. Il peccato trascende la colpa, ed è la dimensione nella quale si compie la redenzione dal male. Non possiamo essere liberati dal male finché il male mantiene una dimensione impersonale. Dov’è il peccato? L’unica risposta possibile è: il peccato è in me, è nella persona che lo accusa e che lo confessa. «Una volta messo in contatto con l’io, il peccato scompare» (146). Il peccato è il culmine del potere del male perché è la spersonalizzazione ma, una volta assunto il volto di colui che lo riconosce e lo confessa, esso diviene ciò che viene perdonato. Di fronte al male che assume un volto personale nella dimensione del peccato, Dio non può che perdonare. Il male in sé non esiste, è una semplice negazione e Dio non può conoscerlo. Il Dio dei cristiani «ci chiede unicamente di amare o, piuttosto, ci permette di farlo» (147). Nella premessa Brague esprime la speranza di «aver scritto un libro di filosofia o, comunque, il libro di qualcuno che si considera un filosofo» (IX) e si propone l’obiettivo di far emergere la singolarità del Dio dei cristiani. Riguardo l’obiettivo, mi sembra abbastanza ben conseguito, facendo piazza pulita di luoghi comuni e di fraintendimenti, problematizzando giustamente la categoria monoteismo e facendo tesoro della Sacra Scrittura, del pensiero ebraico, del pensiero patristico e della mistica.
Riguardo la speranza, dalla prospettiva del filosofo, avanzo tre rilievi. Un nodo cruciale si pone secondo me a proposito dei capitoli 2 e 3. Il tentativo di pensare il Dio dei cristiani potrebbe divenire l’opportunità per l’intero pensiero filosofico per avere un nuovo approccio al reale nella sua totalità, dopo il tramonto della tradizione ontoteologica dell’Occidente, con un nuovo senso della ragione e con nuove categorie. A me sembra che Brague rimanga ancora all’interno della tradizione metafisica e che con le sue categorie classiche e ben note avvicini la Scrittura, i pensatori ebraici, la mistica. In fondo non si esce dalla classica dialettica soggetto-oggetto di conoscenza, arrivando a considerare Dio l’“oggetto” paradossale per eccellenza, anche se in questo caso il rapporto sarebbe rovesciato. In particolare si potrebbe tentare di estendere l’uso della categoria mistero, che Brague al capitolo 5 applica solamente a Dio in quanto persona e alla persona di sé e dell’altro, alla totalità del reale e trarre le conseguenze dell’identificazione di essere ed amore per un’ontologia dell’amore anche in rapporto al finito. Non c’è un margine di realtà che, esterno all’esperienza immediata di sé possiamo oggettivare, ma la totalità del reale è il mistero nel quale siamo immersi, l’inoggettivabile, che si dischiude a noi come disponibile e come mondo nel dialogo con il Tu assoluto e con il tu concreto. La ragione non si configura più come facoltà dell’astrazione o dell’oggettivazione, ma come esperienza del raccoglimento in cui il reale giunge alla parola, ed il pensiero diviene dedizione al reale concreto (non pensare l’oggetto, ma pensare a). In secondo luogo la categoria dell’Incarnazione del Verbo, specifica del cristianesimo, che Brague esplora nel versante della kenosi di Dio e della Parola, ha qualcosa da dire al pensiero filosofico a proposito del corpo che noi siamo. Il corpo che siamo, e non la ragione che oggettivizza, è l’ingresso nel mistero dell’essere proprio perché inoggettivabile.
L’ascolto del corpo che siamo può costituire l’inizio di una ontologia della gratuità che disvela l’essere come dono, si volge a Colui che ha dato tutto, il Tu assoluto, ci conduce al senso della vita come resurrezione. Infine molto suggestivo è l’ultimo capitolo riguardante il Dio che perdona, ma la concezione di male e di peccato ivi presentata ha bisogno di misurarsi ulteriormente con due aspetti che molto hanno dato a pensare: il peccato delle origini e la dimensione sociale e intersoggettiva del peccato, le cosiddette strutture di peccato.
Tratto dalla rivista Firmana n. 49/2010
(http://www.teologiamarche.it)
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Prof. SIMONE MILIOZZI il 5 gennaio 2020 alle 23:35 ha scritto:
Libro di taglio filosofico