Tommaso d'Aquino nel pensiero contemporaneo
EAN 9788854809239
In Italia gli studiosi del pensiero di Tommaso, uno tra i più grandi teologi e filosofi di tutti i tempi, sono ormai assai rari. Già solo per questo motivo bisogna rallegrarsi di questo pregevole volume di Umberto Galeazzi, ordinario di Storia della filosofia all'Università di Chieti-Pescara. L'autore ripropone alcuni temi dell'Aquinate; poi segnala da un lato le difficoltà che su questi argomenti si incontrano invece in diversi filosofi moderni e contemporanei (per es. Cartesio e Kant); dall'altro le istanze e le riflessioni feconde di altri autori (per es. Taylor).
Tratto da Il Timone n. 71 - anno 2008
(http://www.iltimone.org)
Un classico della filosofia è tale se non rimane prigioniero del suo tempo, se da esso emerge un nucleo di riflessioni sempre valido, al di là della pur innegabile variabilità delle epoche, dei contesti culturali, delle prospettive all’interno delle quali può essere affrontato e studiato in modo da intenderne nuove vitalità in relazione alle nuove domande emergenti appunto dalla novità dei tempi e delle epoche (cfr. p. 7). Tommaso d’Aquino è appunto un classico del pensiero perché se ne ritrovano influenze di non poco conto persino presso coloro che non ne hanno una conoscenza diretta. Molti i nomi illustri del pensiero moderno e contemporaneo cui l’autore del libro che presento indirizza un veloce riferimento: da Descartes e Vico sino a Guardini e MacIntyre. Non pochi neanche quelli cui dedica i vari capitoli del libro, avvertendo che non si è inteso in tal modo fornire un quadro dettagliato ed esaustivo della presenza tommasiana nel pensiero contemporaneo, ma che si è piuttosto voluto iniziare un percorso che nella medesima direzione potrebbe conoscere numerosi ulteriori sviluppi (cfr. p. 12). Il primo capitolo è Sulla svolta soggettivistica della modernità da Cartesio a Sartre. L’autore fa riferimento alla diagnosi che da Adorno e Horkheimer è stata elaborata del “principio di immanenza” che si impone con l’epoca moderna e che conosce uno sviluppo sempre più deciso in direzione di una vera e propria “patologia della conoscenza”, che produce una logica del dominio, una ragione strumentale e l’arbitrio soggettivo col quale la verità oggettiva viene sostituita con una versione appunto soggettiva e in ultima analisi pragmatistica (cfr. pp. 19 ss.). Sartre finisce per affermare che tutto è lecito, che è cioè la soggettività a porre i valori: la coscienza è così “assoluto” e non più “coscienza di qualche cosa d’altro”. L’autore sottolinea che nella prospettiva de L’existentialisme est un humanisme la coscienza intenziona solo i propri vissuti e non l’ente reale: egli rifiuta un simile quadro teoretico in quanto esso presuppone un’indebita reificazione dei contenuti mentali che invece andrebbero considerati solo un mezzo di cui l’intelletto si serve per conoscere. Insomma, «il dato originario, il fondamento del sapere è la conoscenza della realtà o la realtà in quanto conosciuta» (p. 29). Questo dato speculativo che l’autore lascia emergere dalla propria analisi – è innegabile – si riconosce perfettamente nell’ambito della tradizione tommasiana, costituita da un rigoroso e irrinunciabile realismo metafisico. Si conferma così quanto Galeazzi si propone: analizzare la svolta soggettivistica appena richiamata “nella prospettiva critica tommasiana”, ritrovandola presso autori come Adorno, per il quale la separazione tra pensiero e realtà «è espressione di disprezzo della vita reale» (p. 35). Da parte mia, posso aggiungere che tale realismo non costituisce però un’eredità unicamente tommasiana: se infatti si usa parlare di “svolta soggettivistica” a proposito di Descartes e di una linea del pensiero moderno che da lui ha preso le mosse, è proprio perché di quel realismo si era nutrita nel suo complesso l’intera riflessione filosofica antica e medioevale. Il secondo capitolo è dedicato all’influsso dell’Aquinate su Edith Stein e alla critica che di conseguenza ella rivolse al proprio maestro Edmund Husserl. L’autore rileva appunto che nell’ambito della critica steiniana alla “svolta idealistica” del pensiero del maestro avrebbe svolto un ruolo decisivo la conoscenza dell’opera di Tommaso, che come è noto la filosofa ha conosciuto e persino contribuito a diffondere con la traduzione in tedesco e il commento delle Quæstiones disputatæ de veritate. Opera a partire dalla quale ella ebbe a sottolineare l’assenza presso Tommaso di quella pretesa tutta moderna secondo cui la teoria della conoscenza sarebbe fondamento di tutte le discipline filosofiche e potrebbe così spacciarsi per scienza priva di presupposti (cfr. p. 38). È così sottolineata la volontà di cogliere una verità oggettiva a partire dalle cose contro ogni escogitazione soggettiva, atteggiamento che sin dal principio della propria attività speculativa la Stein aveva assunto e aveva cercato di sviluppare indirizzando la propria attenzione alle Logische Untersuchungen di Husserl. Riportando le considerazioni della filosofa tedesca, l’autore mostra che ciò che di quell’opera l’aveva interessata consisteva proprio nell’apparire quale superamento di ogni idealismo critico, quasi ritorno a una “nuova scolastica”, giacché “si distoglieva lo sguardo dal soggetto e lo si rivolgeva alle cose” (sono parole della Stein, riportate a p. 41). La riduzione eidetica avrebbe dovuto insomma lasciar cogliere la realtà consentendo alla fenomenologia di imporsi quale recupero di una prospettiva tipicamente scolastica per cui la conoscenza non è una creazione dell’intelletto che indaga (cfr. p. 43) e l’intelligenza risulta capace di un’apertura alla realtà tale da consentire finanche un radicale cambiamento di vita quale quello effettivamente intervenuto nell’esperienza della Stein con la sua conversione al cristianesimo e l’entrata nel Carmelo. Quel che invece la Stein non avrebbe potuto seguire fu la successiva svolta in senso trascendentale rappresentata dalla pubblicazione delle Ideen, un passaggio dall’impegno realistico “a una sorta di nuovo dubbio cartesiano”, secondo le parole della stessa filosofa, la quale sin dalla tesi di laurea aveva giudicato «un “artificio” e una “finzione” il separare la “coscienza pura” dal corpo proprio» (p. 49) e aveva rilevato che proprio un’attenta analisi dei dati dell’esperienza mostra il mondo come indipendente dalla coscienza (cfr. p. 50). Il resto del capitolo è dedicato poi a un’indagine teoretica svolta dall’autore a sostegno della critica della Stein a Husserl. In particolare viene rilevata nell’opera del fondatore della fenomenologia un’aperta contraddizione tra l’assolutezza della coscienza e quel presupposto dell’alterità della realtà extracoscienziale che vi compare come “atteggiamento naturalistico”: si darebbe insomma una «contraddizione tra l’intento di sostenere l’intrascendibilità assoluta della coscienza ed il cominciare con il porle dinanzi un mondo visto nella sua alterità ed irriducibilità, secondo l’atteggiamento naturale» (p. 59). L’indagine è condotta con riferimenti puntuali a diverse opere husserliane, e risulta in linea con la convincente prospettiva critica della Stein, ma forse non con l’obiettivo dichiaratamente storiografico dell’opera che sto analizzando, consistente nel recupero della presenza del pensiero tommasiano presso filosofi contemporanei. Il terzo capitolo è poi dedicato a quella che l’autore – a proposito della riflessione antropologica ed etica di Charles Taylor – definisce a ragione una “prossimità spirituale” più che un vero e proprio debito nei confronti di Tommaso d’Aquino (cfr. p. 67). Si rileva che Taylor ha rifiutato certe facili liquidazioni contemporanee del pensiero classico. A proposito ad esempio del favore incontrato da parte della kantiana etica del dovere, Taylor ha richiamato piuttosto la crucialità della tensione al bene e al fine ultimo, essa sì capace di giustificare e fondare il dinamismo dell’agire (cfr. pp. 68 s.). Il filosofo canadese afferma inoltre una “ontologia dell’umano” o “ontologia morale” che dà senso all’agire, non sempre esplicitata eppure sempre necessariamente viva e operante (cfr. pp. 69 s.). Da essa emerge il rapporto costitutivo dell’umano col bene, finanche laddove, come nel caso delle emozioni, si tende spesso a ritenere che si attivino unicamente dinamiche egoistiche e narcisistiche. L’identità stessa della persona si coglie nel rapporto a ciò che è voluto e desiderato, a ciò che importa e che sta a cuore: si costituisce nell’orientamento al bene, e al tempo stesso, reciprocamente, detto orientamento si definisce a partire dall’identità, in una crescita comune (cfr. p. 74). Il bene come oggetto di tensione permanente è dunque decisivo sotto il profilo sia teoretico (cogliere la propria identità) che pratico (orientarsi nell’agire). Esso assume le forme dei vari beni gerarchicamente disposti ma anche quella del bene supremo, riferimento che richiamerebbe Aristotele ma con una significativa differenza che – sottolinea l’autore – lo stesso Taylor ha rilevato: lo Stagirita si riferirebbe al complesso della vita buona mentre il filosofo canadese guarda a «quel bene che permette di ordinare gli altri beni gerarchicamente», e questo «è più simile al fine ultimo tommasiano e al ruolo che esso ha come principio dell’ordine etico» (p. 77). La prossimità con Tommaso d’Aquino viene poi ulteriormente rimarcata considerando la presenza decisiva presso entrambe le riflessioni sia di quelle che Taylor chiama “distinzioni qualitative forti” (in primo luogo tra bene e male) sia dello stretto rapporto tra identità umana e bene cui mi sono appena riferito. Il capitolo quarto, a guisa di un intermezzo tra i capitoli dedicati all’influsso tommasiano sul pensiero del Novecento, si incentra sul rapporto tra ragione e passioni nell’opera dell’Aquinate al fine di svolgerne un confronto con la prospettiva antropologica ed etica kantiana. Si rileva come il rigorismo etico di Kant comporti che l’agire risulti moralmente apprezzabile solo se inversamente proporzionale alla sensibilità e alle passioni: si separano così l’agire morale dall’impulso sentimentale e la ragione dalla dimensione corporea e sensibile. Si rileva poi che invece secondo Tommaso la legge morale è per l’uomo e non il contrario (cfr. p. 118). Nella prospettiva dell’Aquinate difatti le passioni appartengono all’uomo nel suo insieme: costituiscono l’appetito sensitivo (sensualità) e possono essere governate dalla ragione. Il sapiente equilibrio col quale Tommaso evita ogni dualismo antropologico e restituisce alla persona umana una configurazione unitaria emerge perfettamente dalla trattazione dell’autore, il quale però, come ho sottolineato sopra, ha così interrotto il fluire di un volume dedicato al pensiero contemporaneo, forse perché – a ben vedere – la scissione tipicamente kantiana tra ragione e dovere da un lato e sensibilità e passioni dall’altro permea di sé il contesto filosofico e più generalmente culturale del nostro tempo. In tal senso, aver svolto un confronto tra Tommaso e Kant consente di introdurre al meglio il capitolo successivo, dedicato alla comparazione tra prospettive etiche contemporanee e l’etica dell’amore in Tommaso d’Aquino; capitolo nel quale si sottolinea la contraddizione implicita in tutte quelle posizioni che, nonostante rifiutino i fondamenti del discorso etico, avanzano comunque giudizi di valore, e si dà risalto alla prospettiva tommasiana del cui impianto teoretico emerge così la coerenza. L’autore rileva difatti l’importanza attribuita dall’Angelico all’appetito proprio dell’uomo, quello razionale (volontà), che risulta inappagabile nell’ambito delle cose finite perché la ragione è aperta all’infinito (la sensibilità è invece appagata dai beni sensibili, dalla soddisfazione dei bisogni del corpo). E di conseguenza si rileva che l’amore, che per Tommaso è “primo atto dell’appetito”, va orientato al sommo bene e fine ultimo, Dio, nella relazione personale col quale trova fondamento la dignità della creatura umana. E proprio al tema del riconoscimento della dignità umana, sul piano sia interpersonale che socio-politico, è dedicato il capitolo seguente (il sesto), anch’esso svolto nella forma di un contributo al dibattito contemporaneo a partire dalla prospettiva tommasiana. L’autore sottolinea innanzitutto la debolezza di quelle posizioni che tendono ad appiattire la capacità del riconoscimento sul piano socio-politico: se difatti «noi rivendichiamo la dignità proprio dove e quando essa è misconosciuta, cioè dove e quando non c’è riconoscimento sociale» (p. 161), è evidente che il riconoscimento si dà a un livello più fondamentale, non insidiato da alcuna precarietà. È il livello che l’autore ritrova indicato con chiarezza nella concezione tomista della dignità umana, dovuta a Dio in quanto creatore dell’uomo. Questo comporta l’uguale dignità di tutti gli uomini e fa sì che l’amore per l’altro non sia mutevole né arbitrario: «L’amore verso Dio, l’adesione a Lui, dilata il cuore dell’uomo sulla misura dell’amore del Creatore» (p. 172). Nel capitolo settimo ci si concentra sulle ragioni dell’amicizia (Perché l’amicizia?). Richiamando ancora Tommaso per ripensare le forme in cui essa tende a essere vissuta nel mondo contemporaneo, l’autore sottolinea che l’uomo ha bisogno di amici ma non per utilità, bensì per beneficarli con gratuità, secondo quanto il Creatore ha fatto con l’uomo (cfr. p. 177). In questa prospettiva l’amicizia non si riduce alla reciprocità (cfr. p. 180): il prossimo lo si ama per amore di Dio, giacché, con le stesse parole di Tommaso, «l’amore per l’amico può essere così grande da abbracciare per l’amico quelli che gli appartengono, anche se ci offendono e ci odiano» (p. 181). Nell’ultimo capitolo si discute l’interpretazione avanzata da Cornelio Fabro circa il rapporto tra libertà e fine ultimo nel pensiero dell’Aquinate. Fabro vi scorse una possibile aporia, dovuta al forte influsso aristotelico a causa del quale – secondo le sue stesse parole – «la subordinazione della volontà all’intelletto nell’attuazione della libertà è ferrea» (p. 185). Ne risulta dunque che il fine ultimo venga talora contemplato da Tommaso come oggetto non di scelta (questa riguarderebbe solo i mezzi e non il fine) ma di aspirazione naturale, mentre altre volte proprio Tommaso riconosce che una simile posizione renderebbe inutile finanche la stessa filosofia morale (cfr. p. 186). Fedele al pensiero complessivo dell’Angelico, Fabro avrebbe risolto l’aporia distinguendo tra l’inclinazione naturale al bene in generale e l’esercizio della volontà nel caso del bene concreto attraverso cui realizzare la felicità e da porre a principio dell’agire. L’autore, da parte sua, appoggia questa posizione e la sostiene adducendo ulteriori testi e argomentazioni (cfr. pp. 188 ss.). Riporta dunque la distinzione affermata da Tommaso tra il fine ultimo come felicità in generale – cui effettivamente tutti tendono, senza scelta – e il fine ultimo determinato quanto alla sua realtà – riguardo a cui le posizioni degli uomini si differenziano: difatti «ognuno, con l’ordine e la finalizzazione delle sue scelte, valuta una realtà come più importante di tutte le altre» (p. 193); ognuno cioè, scegliendo questo o quel bene particolare, indirizza il complesso delle proprie scelte in una determinata direzione, quella rappresentata appunto dal fine ultimo eletto, vera e propria opzione fondamentale. In tal modo si può respingere ogni accusa di intellettualismo diretta alla riflessione etica di Tommaso, presso il quale risultano conciliate «la responsabilità morale con il riconoscimento della libertà nella concretezza e finitezza della condizione umana» (p. 190). L’Aquinate risulta dunque superare la posizione aristotelica nel concreto esercizio della propria riflessione. E appare quindi pienamente condivisibile il bilancio avanzato dall’autore: «l’impegno primario di fedeltà alla reale condizione umana conduce Tommaso a superare di fatto (in actu exercito), nell’articolazione del suo discorso più che nelle dichiarazioni programmatiche, la posizione aristotelica, secondo cui del fine non c’è scelta» (p. 192). Peraltro, quanto appena rilevato aiuta a spiegare la possibilità di deviazioni dal fine ultimo scelto: la volontà umana può eleggere fini ultimi diversi in momenti diversi, pur restando però assodata la necessità di un riferimento, anche solo implicito, a un ultimo fine quale movente primo dell’azione (cfr. p. 200). Emerge così con forza il complesso mondo dell’agire umano, con le certezze che presiedono alle scelte e con le debolezze che ne rendono arduo il compimento. Aggiungo solo che il fatto che un simile chiaroscuro caratterizzi di sé anche la conoscenza di Dio, cosa peraltro evidenziata dall’autore (cfr. pp. 188 s.), potrebbe essere richiamato come l’elemento fondativo e decisivo di quel superamento della prospettiva aristotelica da parte di Tommaso cui lo stesso autore – come ho appena rilevato – ha fatto riferimento, scorgendola in actu exercito piuttosto che in dichiarazioni programmatiche.
Tratto dalla rivista Aquinas n. 3/2008
(http://www.pul.it)
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