Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino
(Philosophica)EAN 9788846726650
Riflettendo acutamente sugli esiti della civiltà occidentale, il Severino della maturità formula un invito ad affrontare l’illusorietà del paradiso della tecnica, assumendosi la responsabilità di un presente nel quale «Dio è morto». E, contemporaneamente, il filosofo bresciano si fa testimone di una “salvezza” a cui l’essere umano è destinato: quella salvezza che risiede nel paradiso della verità.
Tratto dalla rivista Concilium n. 5/2010
(http://www.queriniana.it/rivista/concilium/991)
Un’indagine che, avendo sullo sfondo la questione del rapporto tra filosofia e cultura, si confronta coi temi cruciali del pensiero di Severino. L’a. traccia – nella I parte – un affresco complessivo della filosofia severiniana cogliendone la cifra in quella critica fondamentale all’intera civiltà occidentale per la sua «fede» intrinsecamente nichilista nel «divenire ontologico delle cose». Nella II si discute di «filosofia prima», ovvero della verità dell’essere così come è stata delineata da Severino nel suo «fondamento» e nelle sue implicazioni più immediate. L’a. si sofferma anche sui nodi della controversia tra il filosofo bresciano e la fede cristiana. Testo di studio.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 2
(http://www.ilregno.it)
Nel suo dialogo degno di interesse con Emanuele Severino, L. Messinese si propone di «recuperare» criticamente per la filosofia cristiana la concezione parmenidea dell’essere del pensatore bresciano. Liberandolo dalle etichette semplicistiche di «parmenidismo ingenuo», l’autore recupera i suoi argomenti validi contro l’aristotelismo e la sua determinazione di rapporto tra «fede e ragione», proponendo una definizione di «teologia filosofica» che coincide con l’articolazione dell’ontologia nella sua dimensione «totale» o «assoluta».
Il cuore di questa definizione di «filosofia cristiana» è la dottrina della creazione, la quale viene liberata dal paradigma del «divenire» che assume all’interno della metafisica aristotelica, esplicitandola come quel concetto necessario che «toglie […] al divenire medesimo la caratteristica di novità assoluta» (p. 201). Cosí Messinese reintegra all’interno della «filosofia cristiana» l’intenzione di Severino di salvare l’essere metafisico dal pericolo nichilista, con la dimostrazione della necessità di un Dio creatore. In questa dimensione, egli corregge Severino relativamente all’indebita identificazione della «dimensione infinita» dell’essente con l’Infinito assoluto (p. 214s.; cf. p. 200) quindi la sua esclusione della trascendenza, che costituisce il nodo teoretico dello scontro del filosofo bresciano con il «pensiero cattolico».
In questa maniera Messinese realizza quindi il suo duplice progetto: 1) recuperare, con Severino, l’importanza della concezione unitaria dell’essere per il pensiero cristiano, che nel paradigma aristotelico della metafisica egli non vede presente, senza che questo debba sfociare in un monismo di tipo parmenideo, ossia in un «panteismo»; 2) evitare la concezione severiniana riduttiva del «monismo intellettualistico», proprio con l’affermazione dell’assoluto trascendente come Dio creatore oltre Severino. Passando da queste che sono le conclusioni del libro alla sua introduzione (p. 13-23), il lettore evince che Messinese riparte dai suoi due studi su Severino pubblicati in precedenza e dà ragione del presente studio che non intende svolgere un’analisi diacronica, ma rivolgere piuttosto uno sguardo sintetico al pensatore bresciano. Sulla base di questi due studi, e quindi di una precomprensione del pensiero di Severino, Messinese formula sin da questa introduzione tre domande precise con le quali intende entrare in un dialogo ulteriore con lui, che verte evidentemente oltre lo stesso pensiero severiniano (p. 23).
Per tale precomprensione presupposta, la lettura dell’introduzione risulta comprensibile in modo piú adeguato a chi già conosce il pensiero di Severino; per gli altri, invece, è consigliata alla fine della lettura del volume. Per questi ultimi, quindi per chi si accosta per la prima volta al pensiero di Severino, il presente volume vale in ogni modo anche come una buona, benché sintetica, introduzione, specialmente per le considerazioni riassuntive del primo capitolo della prima parte (pp. 29-68). In ogni modo, Messinese presenta Severino sin dall’inizio non in maniera manualistica ma nella distanza «ambivalente» sia rispetto al suo autore di riferimento principale, Parmenide, sia anche a Platone (p. 32, 151): ed è questa posizione di doppia «ambivalenza» con cui Severino presenta il suo pensiero monistico che lo rende una sfida intellettuale ancora oggi.
Questa sfida si costituisce come l’esigenza intellettuale di pensare l’essere necessariamente come il non-niente, quindi l’eternità di tutto l’essere come presupposto del discorso metafisico e, di conseguenza, l’interpretazione del divenire come apparire o scomparire degli eterni: questa esigenza come radicalità di pensare secondo il principio di non contraddizione, in una prospettiva di filosofia cristiana si concilia, cosí si potrebbe parafrasare la tesi di Messinese, con la prospettiva teologica di considerare tutti gli enti sub specie aeternitatis. Ed è precisamente questa la sfida che accoglie Messinese, senza cadere in ciò che in Severino diventa la conseguenza del «monismo intellettualistico» ossia la riduzione di questa eternità alla mera nozione dell’ente in quanto necessità del tutto, che esclude al di là dell’apparire infinito la realtà assoluta sussistente del Dio trascendente.
Messinese, davanti a questo orizzonte, nella sua analisi sottolinea particolarmente il fatto che, pur cogliendo il momento univoco dell’essere, nella sua struttura «ambivalente» tra parmenidismo e platonismo Severino nella prima fase del suo pensiero evitava il panteismo (p. 151), mentre nella sua seconda fase, venuta meno la trascendenza metafisica, le cose si presentano diversamente. Di importanza centrale per il salto metafisico da Parmenide a oggi è, in ogni caso, il fatto che l’intera metafisica da Platone fino a oggi – incluse la scienza e la tecnica – appare a Severino fondata su un concetto erroneo del «divenire» delle cose, che sin da Platone e Aristotele si sarebbe sovrapposto a quello della «verità [eterna] della “molteplicità” degli enti» (p. 32).
Secondo la concezione severiniana alternativa al «divenire» platonico, però, il «Tutto» oltrepassa la dimensione dell’apparire delle cose e sta in rapporto a essa, sia pure solo secondo il suo modo formale e astratto, costituendo cosí la «verità incontrovertibile» come automanifestazione originaria dell’essere che oltrepassa l’esperienza del divenire (inteso non nichilisticamente). Qualsiasi pensiero – concretamente la tradizione metafisica e il cristianesimo – che afferma, al contrario, la verità della «terra isolata» («La “persuasione” che la terra sia il Tutto isola la terra dalla verità»: p. 48), ossia del «divenire», viene invece definito «nichilistico». Si tratta, in questi casi, di atti di «fede» contrari a ciò che Severino chiama prima l’«epistème» e poi il «destino». In quanto tali, la metafisica e il cristianesimo sono concretizzazioni di quella «fede originaria» nel divenire che risultano il concetto opposto al destino come «lo “stare” dell’identità di ogni ente con se stesso» (p. 38; cf. p. 34, 39) ed espressioni della «non-verità» dell’interpretazione nichilistica che vede le cose e la prassi dell’uomo – il contenuto dell’apparire – nel loro «isolamento» dalla verità.
Questa non-verità dell’apparire si distingue, però, dalla «doxa» platonica, nel suo essere momento essenziale dell’apparire della verità incontrovertibile, come sottolinea Messinese: l’«opposizione di verità e non verità è necessariamente la unione tra la prima e la seconda» (p. 40, cf. p. 138), in quanto la prima si afferma attraverso la negazione della seconda. Severino dimostra come la metafisica occidentale non si è configurata in questa maniera della verità incontrovertibile, bensí come la «salvezza della “fisica”» e quindi come la messa in sicurezza del divenire, ma proprio in quanto tale essa si è configurata in maniera contraria al «destino» e alla conoscenza incontrovertibile. Cosí il pensiero metafisico divenne, sia nel suo aspetto teoretico (contingenza degli enti) sia in quello pratico («proaíresis» come contingenza delle decisioni), «fede nel mondo». La scienza e la tecnica, che sono le forme della «fede nel mondo» in tempi «post-metafisici», sono perciò per definizione anch’esse «non verità» (p. 42s.).
Nella stessa prospettiva Severino interpreta anche la morte come espressione dell’interpretazione isolante della terra (cioè secondo il divenire) che fa vedere la morte come «massimo dei dolori» e come «annientamento» (p. 49), mentre la prospettiva «del destino» rivela che la morte costituisce un aspetto imprescindibile dell’esistenza stessa in quanto è il suo limite e il punto del suo oltrepassamento verso la «terra che salva» superando la condizione di contraddizione dell’apparire finito della verità nell’apparire della totalità (p. 51), per cui il mortale è già sempre oltre il «contrasto» tra quello che è e quello che crede di essere. Strettamente connesso con questo tema è quello della «Gioia», che individua il luogo dell’inconscio del mortale in quanto apparire della verità che si dispiega come Gloria, la quale solo nel suo apparire infinito è totale e perfetta (pp. 52-54, p. 113s.). Inoltre, di particolare importanza risulta lo sguardo sulla dimensione della «interpretazione» in Severino, che è una delle forme eminenti della non-verità, in quanto nella verità non esiste interpretazione.
In quanto tale, l’ermeneutica è espressione del «dominio metafisico» dell’uomo (cit. 58), perché non considera la distinzione fondamentale tra «il carattere essenzialmente interpretativo dell’affermazione» linguistica di certi eventi o entità e «la necessità di affermare che questo stesso “insieme di eventi” è una “questità”, è un “essente”, è “altro dall’altro”» (p. 56). Allorquando non si considera questa differenza, si sottomettono, interpretandoli, i vari «volti» dell’apparire al dominio dell’uomo che scioglie in questa maniera quei legami tra gli enti nei quali si esprime, invece, la verità dell’essere (p. 59). A questo punto, si è in grado di collocare sistematicamente le tre domande iniziali rivolte da Messinese a Severino e la direzione nella quale il primo intende svolgere il dialogo costruttivo con il secondo: innanzitutto Messinese critica che nella conseguenza dell’interpretazione di Severino anche le «strutture teoretiche e pratiche della civiltà umana» sarebbero il risultato dall’isolamento inconscio della terra dalla verità, ma ciò non si potrebbe affermare qualora si considera che proprio l’interpretazione social-etica delle strutture sociali dimostra che loro costituiscono una «abitazione consapevole» dell’uomo, quindi prodotti della creatività consapevole e razionale dell’uomo e basati sulla sua dignità che consiste nella sua coscienza e libertà, invece che su una nozione di verità a- coscienziale e concettuale-intellettualistica.
La stessa importanza di rivolgere contro Severino il dato della coscienza e libertà dell’uomo si verifica nella seconda domanda di Messinese che verte sulla dimensione religiosa: Severino oltrepasserebbe, con la sua negazione della «fede nel divenire», la possibilità di integrare la dimensione della coscienza e quindi la struttura antropologica del contingente ed escluderebbe quindi apriori il fattore religioso, che invece riguadagnerebbe valenza sistematica se si considera il rapporto della coscienza alla verità (pp. 62-66). Infine, nella terza considerazione Messinese confuta, sulla base delle due domande precedenti, l’ipotesi severiniana secondo la quale nella dimensione poietica e infine tecnica dell’uomo avverrebbe la vera e propria negazione dell’esistenza di Dio (p. 23). Messinese cerca, quindi, di recuperare la dimensione di verità della prassi umana, dell’ermeneutica e della dimensione religiosa proprio attraverso la considerazione che nella dimensione della coscienza, la stessa realtà del soggetto umano costituisca una «totalità» in quanto colloca le dimensioni ontologiche all’interno della sua dimensione pratica ossia dell’autodeterminazione secondo la volontà libera (p. 62).
È quindi la dimensione dell’ens morale che Messinese rivendica nei confronti di Severino il quale, in altre parole, avrebbe intellettualisticamente ridotto la considerazione metafisica dell’essere alla sua dimensione univoca, dalla quale riduzione risulterebbe, di conseguenza, «l’originario significato “nichilistico” della volontà che è all’opera nella conoscenza interpretativa e nell’azione etica» (p. 62). In tale maniera, in altre parole, i fenomeni nella loro individualità vengono ridotti all’apparire (o scomparire) dell’originario (p. 150). È questo il «monismo intellettualistico» di Severino, al quale Messinese contrappone la relazione costitutiva della verità alla coscienza del soggetto, in quanto quest’ultima implica in sé un rapporto che per Severino risulta inconcepibile, ossia concretamente tra la «verità finita» e la «verità totale», recuperando epistemologicamente un rapporto positivo tra la dimensione contingente e quella assoluta come base necessaria per pensare l’azione, l’ermeneutica e la fede all’interno di una ridefinizione di «filosofia cristiana» come «nuova metafisica». Il momento centrale per questo confronto con Severino è, evidentemente, la riflessione sulla fede all’interno del rapporto verità-coscienza, come Messinese affronta nel secondo capitolo del libro. Dato che per Severino la fede è innanzitutto espressione del nichilismo in quanto fede nel «mondo» e nel divenire che sottrae la terra indebitamente dal destino (p. 70, 73), abbiamo a che fare con una determinazione di rapporto tra «fede e ragione» contraria a quella tomistica e quindi «ufficiale» della chiesa, perché cerca la sua definizione attraverso un distacco radicale dal mondo e lo costituisce o «salva» in una mera dimensione intellettualistica – precisamente nel momento quando afferma la Terra isolata dalla verità (p. 99s.). Cosí Severino realizza in qualche modo l’interpretazione opposta rispetto a Heidegger, che cercava di «salvare» la fede radicalizzandone il carattere pratico (p. 72).
E dopo avere presentato il rifiuto teologico di questa concezione severiniana da parte della chiesa (pp. 74-78), Messinese cerca il confronto filosofico: mentre per Severino la posizione tommasiana – e quindi della chiesa – negherebbe l’autonomia della ragione, in quanto determinerebbe il suo rapporto con la fede sempre all’interno e sotto la supremazia di quest’ultima, identificandola con un «atto di ragione» (p. 91), Messinese dubita che questa sia la giusta interpretazione dell’Aquinate, concordando con Severino però nel fatto che una qualsiasi riduzione dell’autonomia della ragione sarebbe da rifiutare dalla «filosofia cristiana». In alternativa, egli delinea una concezione di «subordinazione» della ragione naturale alla fede senza che essa perda la sua autonomia (comunque mai assoluta), in quanto la ragione manterrebbe, anche nei casi in cui la fede stabilisce la sua supremazia, la propria funzione di controllo. Questo risulta a Messinese l’unica possibilità di sciogliere il problema evocato da Severino in quanto l’interesse di armonizzare fede e ragione nascerebbe comunque da parte della fede, non dalla ragione naturale (p. 83). Come dimostrerà poi soprattutto alla fine del secondo capitolo della seconda parte attraverso il confronto tra Severino e Bontadini (pp. 185-194), Messinese riflette sul concetto di «creazione» affermando che essa in realtà non deve essere intesa come un «divenire» alla maniera greca, ma costituisce la risposta alla sfida di Severino, affermando la «compiuta concretezza» della struttura originaria dell’essere (p. 193): nel divenire non si esprime soltanto un’opposizione astratta tra «essere» e «niente», ma anche una permanenza concreta che «salva» l’esperienza in ciò che è «“relazione” o “rapporto” delle creature a Dio» (p. 84).
E nella stessa prospettiva severiniana, data l’astrattezza della struttura originaria della verità, questa non permetterebbe un’esclusione apriori della Rivelazione e della dimensione della fede in essa (p. 85). La fede integra la verità nella sua astrattezza nella Ragione assoluta divina, senza negare alla verità il suo valore epistemologico. Questa possibilità, secondo Messinese, è stata senz’altro lasciata aperta dallo stesso Severino che determina la struttura originaria della verità solo in maniera astratta, ossia della forma, ma non assoluta nel senso che includerebbe anche tutta la realtà nella sua apparenza fenomenica. Si tratta, nel caso della verità, quindi solo di una totalità formale, anche se il suo contenuto va accrescendosi, e pertanto riferita a un orizzonte piú ampio di quella della razionalità. Questo costituisce il superamento dell’antagonismo diretto tra la verità e altri «orizzonti non filosofici» quali il senso comune, la scienza ecc. (p. 86). Messinese, quindi, scioglie la fede dalla «concorrenza epistemologica» con la verità, dimostrando che si riferisce a un orizzonte che oltrepassa la astrattezza della stessa: Dio non entra in concorrenza con la verità naturale, e il «lumen fidei» non sostituisce il «lumen intellectus» (p. 102).
D’altro canto la fede, in questa maniera, scopre la ragione come prima istanza per l’autoriflessione razionale (p. 87), in quanto come ha insegnato Tommaso d’Aquino, essa è di una superiore certezza, ma non di un superiore «valore epistemico» (p. 102). Messinese rileva inoltre che Severino non pensa la fede come atto esistenziale (fides qua), ma unicamente nella sua dimensione epistemologica – che però non è la mera dimensione del «contenuto» della fede, ossia la fides quae, per la sua identificazione con l’astrattezza monistica della verità. Cosí Severino interpreta la fede come la negazione di quel dubbio che è una dimensione della ragione, per cui la dinamica tommasiana tra fede e ragione diventa, in Severino, la stessa dialettica tra il dubbio della ragione in quanto fede e la certezza della ragione in quanto ragione (p. 93s.), e perciò la possibilità della fede al di fuori dalla ragione in quanto «certezza determinata» (cit. 96) risulta negata dalla stessa verità. In tale dimensione, fuori dalla ragione, la fede può soltanto inserirsi tra le altre forme opposte alla verità incontrovertibile come il «senso comune» o la «scienza», e quindi realizzarsi, opponendosi alla verità come «prevaricazione» o «violenza» (p. 99). Invece, ponendo il problema del rapporto tra «fede e ragione» all’interno della dimensione coscienziale, per Messinese si tratta piuttosto di «attuazioni diverse dell’unica coscienza» (p. 97), e quindi entrambe dotate di un «diritto autonomo» nei confronti dell’altra. Nell’ultimo capitolo della prima parte (pp. 105-125), Messinese fa confluire la sua lettura di Severino nella considerazione delle conseguenze ontologiche come emergono soprattutto dal «secondo Severino» che arriva a un rifiuto completo della tradizione metafisica occidentale, dopo aver affermato ancora, in una prima fase, di volerla rinnovare (p. 117).
E come nel caso analogo del tema della dimensione religiosa, anche riguardo alla metafisica Messinese si sceglie il Severino piú radicale e piú difficile. Osserva, innanzitutto, che la negazione ontologica platonica è riferita all’idea, e quindi alla pienezza del mondo delle idee, per cui gli enti sono partecipazioni non piene a esse, ma in nessun modo da identificare semplicemente, come fa Severino, con il «non essere» (p. 107), anche se l’interpretazione di Severino coglierebbe nel segno nel considerare il divenire platonico «alla luce di quelle che saranno definitivamente le categorie dell’ontologia greca, ovvero alla luce dei concetti di essere e non essere» (p. 107). Platone costituisce l’inizio dell’affermazione del «mondo», cioè della convinzione che gli enti vengano dal nulla di sé e ritornino nel nulla di sé, che è unita però – come avrebbe mostrato a distanza di tempo il pensiero contemporaneo, a una «negazione del “mondo”», visto che il divenire è governato dall’epistéme, cioè dall’immutabile (p. 111). Se questa contrapposizione tra «mondo» ed «epistéme» provoca, però, il «fuggire» del mondo alla sua riconduzione all’«epistéme» e costringe quindi a un’interpretazione non-nichilistica del divenire, allora sarebbe da ritematizzare una «coscienza “pratica”» oltre quella teoretica che in Severino sta alla base del «monismo intellettualistico» (p. 118s.).
Ma tale prospettiva si aprirebbe soltanto all’interno del «rapporto di creazione», tramite il quale Messinese recupera una «piú autentica unificazione della totalità dell’essente» rispetto alla proposta severiniana (p. 118). In questo modo, viene recuperata la prospettiva metafisica sull’essere reale dimostrando il «significato non nichilistico di ciò che è l’autentico “non essere” degli enti» (p. 118s.), aprendo di conseguenza a una possibilità della metafisica dopo un confronto critico con Severino (pp. 129-131). Punto di partenza per una tale ricostruzione positiva della metafisica è la concezione severiniana della differenza ontologica tra gli enti e l’essere, che starebbe in una struttura analoga, anche se non coincidente, a quella tra Dio e il mondo. Si evince subito, in altre parole, che il confronto con il «primo Severino» (pp. 129-155) potrebbe portare a un approfondimento speculativo di ciò che per san Tommaso costituisce l’analogia dell’essere – esito del resto molto simile all’operazione metafisica di Rosmini nella sua Teosofia (si pensi solo ai concetti dell’essere iniziale e virtuale).
E come per Rosmini, anche per Severino (e, sotto un certo aspetto, anche per Messinese) il ripensamento della metafisica include anche un rapporto critico con Aristotele, che secondo il filosofo bresciano avrebbe identificato il Principio dell’ente in quanto ente e il Principio dell’ente in quanto diveniente, rendendo conseguente a un certo punto la «piega “immanentistica”» di Gentile (p. 132). Una riconsiderazione della metafisica oggi, infatti, può solo essere impostata «oltre» questa sfida gentiliana, che non si riesce a cogliere nel suo rigore, qualora non si prenda sul serio la critica di Severino. Secondo Messinese, tutto sta a comprendere la «struttura originaria», il «fondamento», non in maniera astratta, ma nella sua forma piú concreta che consente di attingere l’«essere assoluto» (p. 138), liberando la «totalità dell’essere» dalla sua identificazione kantiana con la «totalità dell’esperienza» (p. 141). A questo punto, per Messinese si apre solo cosí, dopo Kant, la possibilità dell’affermazione metafisica della «trascendenza di Dio nei confronti del mondo» (p. 142) e quindi la differenza ontologica tra «l’essere dell’esperienza» e «l’essere assoluto» (p. 140). Ma una volta accettato questo punto di partenza, Messinese dimostra che il problema del «non essere» – e quindi della presunta «contraddittorietà del “divenire” degli enti» (p. 145) – non può essere risolto né dal principio del «divenire» aristotelico e nemmeno in maniera parmenidea (p. 147). E questo lo dimostra confrontandosi con il secondo Severino (pp. 157-194) che innanzitutto radicalizza questo punto di partenza, e lo rende rilevante per l’intento di Messinese, ossia di formulare una metafisica oggi, dopo Leopardi, Nietzsche e Gentile, che hanno tirato la conseguenza necessaria dall’identificazione di «essere» e «divenire» nella negazione dell’esistenza di un Dio trascendente (p. 170 s.).
Sta qui allo stesso momento l’urgenza di un confronto con Severino, che nel terzo capitolo della seconda parte (pp. 195-210) viene svolto considerando che nell’affermazione che il divenire sarebbe un «residuo nichilistico» (p. 196) non si esprime una comprensione originaria o intuitiva dell’essere, come sostiene il pensatore bresciano insieme a Parmenide, bensí frutto di un ragionamento, rispetto al quale sarebbero da chiarire, innanzitutto, i suoi presupposti ontologici. Da ciò risulta per Messinese che Severino in effetti basa la sua negazione del divenire, e quindi della creazione, unicamente sul presupposto dell’«identificazione contraddittoria» di essere e nulla negli enti (p. 197), il che significherebbe però non una soluzione del problema filosofico, ma solo di dichiararlo risolto per definizione, mentre una possibile soluzione ontologica si prospetterebbe solo nel «trascendimento dell’esperienza» ossia nella prospettiva di una «totalità assoluta» che è configurata come «ulteriorità» trascendente (p. 198s.). In questa maniera, Messinese considera come proprio a partire dal ragionamento si deve metafisicamente affermare il principio di creazione come appartenente all’ordine dell’essere e non a quello del divenire (p. 202), proponendo un’autentica opzione metafisica oltre Severino e integrando Bontadini.
L’«inattualità» della filosofia di Severino che Messinese vuole proporre per una «nuova metafisica» oggi oltrepassa la dicotomia tra la «cultura della “tradizione”» e la «cultura della “innovazione”» (p. 13), nella quale oggi la prima ha perso il primato sulla seconda, e mira a una «verità incontrovertibile» che persino la stessa tradizione filosofica tra Platone ed Hegel avrebbe smarrito (p. 14). E questo luogo sarebbe il «paradiso della verità che già da sempre appare e alla quale la filosofia presta il linguaggio» (p. 15). Cosí la «filosofia cristiana» sa indicare una prospettiva oltre la dicotomia tra il teismo della tradizione religiosa e l’ateismo e il nichilismo inconscio della tradizione metafisica (p. 19s.), e questo grazie a un confronto critico e consapevole con Severino, che è tutt’altro che una semplice «ricezione».
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 3/2012
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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Umberto Masperi il 8 settembre 2014 alle 06:55 ha scritto:
Per chi ha un certo interesse per la filosofia (ma, va precisato, per i pochi ‘impenitenti metafisici’, come affermava di se stesso il “maestro” Bontadini negli anni del dopo sessantotto quando i filosofi di moda credevano di aver sepolto la ‘regina delle scienze’ per sempre) il confronto coi grandi pensatori è, prima o poi, d’obbligo. E’ il caso del filosofo bresciano che durante gli anni d’insegnamento alla Cattolica e poi all'Università Ca' Foscari di Venezia, era ‘conosciuto’ solo dagli “addetti ai lavori”; poi i mass media, veri protagonisti dei nostri tempi (articoli sui giornali,interviste televisive,ecc.) cui è ricorso e ricorre anche il Nostro, gli hanno dato ampia notorietà. Leggere i suoi libri è impresa ardua per i non ‘specialisti’; da qui l’utilità di opere che presentano il suo pensiero (che ha quella radicalità che provoca a prendere posizione). Questo libro del prof. Messinese (che ha scritto molto sul pensiero di Severino) è certamente utile, per l’impegno di ricostruzione dello sviluppo della metafisica severiniana, con i continui richiami sui punti di partenza, le precisazioni sugli sviluppi delle ‘due fasi’(come oramai si tende sempre a sottolineare), il confronto con quella metafisica classica (e quindi la posizione del pensiero cristiano) messa sotto accusa e giudicata ‘errore’ da Severino (e che invece viene ‘recuperata’ e ritenuta compatibile dall’autore, di fronte al rifiuto del filosofo bresciano con la nota posizione antinichilista. Si veda, ad es. la discussione sul tema della fede, cap.2°, Parte Prima,ed il ‘dialogo critico’, del cap.3°,Parte Seconda).
* Apprezzabile l’impegno di Messinese per due sue doti (che mancano, ad es., al sottoscritto che non condivide la tesi di fondo di Severino): la “pazienza”nel ricostruire…lo spirito alieno da “polemica” (che non trovo in altri critici ‘cattolici’).
** Nessun ulteriore commento a questo libro (perché porterebbe ad un commento…al pensiero di Severino), ma solo un appunto: sarebbe utile ricorrere ad una paragrafazione meglio articolata (con sotto-paragrafi numerati) quando l’esposizione è molto densa, e assai pesante, a livello concettuale.
*** Per me “credente” è sempre importante, fintanto che sono tra noi (prima del loro non-essere) ascoltare questi ‘maestri’, per la necessità di chiarire sempre meglio i due punti in questione (DIO-CREAZIONE) con l’aggiunta di “autentica” – mi scuso per l’immodestia- differenza ontologica “essere-ente” (nascere-morire non :venire dal non essere - “nulla” per Severino - e andare nel non-essere, ma da DIO e a DIO (da ESSERE a ESSERE!) la sola “vera”realtà ETERNA da non “sostituire”con gli “eterni”.
^^ Dio … creazione … essere … ente ,non tralasciando l’osservazione di Rosmini, del ... cadere “… in errore per imperfezione di idee …”(cfr. pag.204,n.9).
^^^ Dio non è morto, e se “gli dei sono fuggiti” però Dio-vivo è presente,ce ne siamo allontanati, fuggiti, noi (Agostino ha parlato invano?). Solo “Dio”, non “un” dio ci può salvare ( o non ci ha già salvati?).