L'etica della parola. La riflessione sul linguaggio di Paul Ricoeur
(Parva Philosophica)EAN 9788846721426
Il testo in questione si propone come una sintesi delle riflessioni ricoeuriane sul tema della parola, tema che viene riproposto non solo attraverso l’analisi del linguaggio, ma anche attraverso le conseguenze di esso sul piano etico ed antropologico. Il volume si articola in sette capitoli e prende le mosse dai tre piani dell’analisi del linguaggio prospettata da Ricoeur, corrispondenti alla linguistica strutturale, alla fenomenologia della parola e alla fenomenologia del linguaggio.
L’autore, studioso di storia della linguistica, cita nomi importanti di questa disciplina come, ad esempio, de Saussure, il quale ha sottolineato la differenza fra langue e parole, fra l’atto psicofisico del proferire e l’insieme di quei segni elementari la cui libera scelta e combinazione produce il discorso. Citando lo stesso Ricoeur, l’autore tiene a sottolineare la differente concezione del segno che si trova presso la linguistica strutturale, da un lato, e presso gli Stoici ed Agostino, dall’altro, nonchè le incidenze di essa sulla sfera del soggetto e dell’intersoggettività. La critica di Ricoeur, come ricorda D’Acunto, è volta a sottolineare più le insufficienze dello strutturalisimo filosofico che a criticare il metodo strutturalista in sé. Ricoeur afferma addirittura che non è possibile fare ermeneutica senza ricorrere allo strutturalismo.
Il filosofo francese è a favore di una mediazione fra langue e parole, di un processo dialettico da porre a servizio non del codice ma del messaggio. D’Acunto mette in evidenza i limiti del pensiero dei linguisti delle scuole di Praga e di Copenhagen, contrapponendo ad essi Austin, autore citato dallo stesso Ricoeur per la sua teoria degli atti linguistici. L’idea di linguaggio finalizzato al suo uso è anche quella tematizzata dal Wittgenstein delle Ricerche filosofiche. L’autore insiste molto sul concetto di linguaggio come mediazione: mediazione fra l’uomo e il mondo, fra uomo e uomo e fra l’uomo e sé stesso. I termini stoici di espressione, referenza e contenuto ritornano anche in Ricoeur, ad esempio nella sua definizione del linguaggio come «il dire qualcosa su qualcosa a qualcuno». Espressione e referenza sono due esplicitazioni del concetto fenomenologico di intenzionalità, nel senso che al mero dire si affianca sempre un voler dire. In altre parole, ciò che effettivamente viene detto trascende sempre il semplice dato dell’enunciato.
È il volere che dà un senso al dire. Il linguaggio è un mezzo di trasmissione non solo della prospettiva finita delle singole percezioni, ma anche di quel senso intenzionato dalle percezioni stesse che tutte le trascende. L’autore tiene a sottolineare che la fenomenologia può definirsi come una teoria del linguaggio generalizzato. Tra l’altro, come ricorda lo stesso Ricoeur, Husserl dedica la Prima delle sue Ricerche logiche proprio al tema del rapporto fra espressione e significato. Poiché l’atto del parlare è, in primo luogo, sempre un dire qualcosa, la parole, per Ricoeur, si dispiega compiutamente nell’ambito della frase. È chiaro che la parola vista nel contesto della frase assume tutt’altra pregnanza rispetto alla parola stessa vista da un punto di vista strettamente semiotico, come mera differenza all’interno di un sistema di segni. D’Acunto sottolinea il debito che Ricoeur ha con il linguista Benveniste, soprattutto per ciò che riguarda l’acquisizione della distinzione fra semantica e semiotica.
La parte finale del primo capitolo parla del «carattere primitivo della nozione di persona», riferendosi sempre al linguaggio come mediazione fra un io e un tu, quindi fra un parlante e un interlocutore, per poi ricordare la celebre tesi di Heidegger che colloca il dire all’origine del parlare, in quanto il primo è un «restare in silenzio di fronte al senso» (p. 45). Il secondo capitolo si sofferma sul rapporto fra simbolo e parola. Il simbolo che, dice Ricoeur, si trova già nell’elemento della parola: esso, secondo una definizione di ascendenza kantiana, è ciò che dà a pensare. D’Acunto presenta subito al lettore uno dei nodi centrali della riflessione ricoeuriana. Il simbolo, inteso come ciò che dà a pensare, rappresenta anche un dono del linguaggio stesso. Questo dono porta l’uomo a fondare il discorso filosofico in ciò che lo precede e che lo sostiene.
Nell’ottica ricoeuriana, il simbolo pone le basi del discorso filosofico ma, soprattutto, dell’ermeneutica. Il simbolo ha quindi un ruolo fondativo, ma, soprattutto, per il suo essere «già nell’elemento della parola», esso rammenta alla filosofia che è necessario sempre prima ricordare per poi poter cominciare. Il che va chiaramente contro la pretesa cartesiana o husserliana di muovere da un cominciamento assoluto e di mettere capo a una fondazione ultima. L’autore parla poi della differenza che corre fra simbolo e allegoria, motivo che gli dà accesso alla distizione ricoeuriana fra simboli primari e simboli mitici.
Per Ricoeur, l’ermeneutica non è che un processo perenne di restaurazione del senso, di ciò che giunge a noi dalla nostra tradizione culturale, quindi anche dai racconti, dalle favole, dai miti. Qui, il simbolo emerge in maniera forte, come avviene nell’immaginazione poetica e nel sogno, senza però dimenticare, come ricorda Angela Ales Bello nella Prefazione, che la filosofia stessa interpreta il simbolo in quanto latore di senso: «Senso manifesto ma anche senso latente, come spia dell’inesauribilità dell’interpretazione» (p. 8). Come ricorda giustamente D’Acunto, tutto ciò si rende particolarmente evidente nell’ambito dell’esegesi biblica. In fondo, per Ricoeur, come anche per Gadamer, il testo va considerato non come un prolungamento della propria soggettività, ma come un’alterità capace di arricchirla e di approfondirla. Perciò, rivalutando il mito e riscoprendo il linguaggio simbolico come fonte inesauribile di significati, l’ermeneutica ha apportato una serie di strumenti utilissimi all’esegesi, che ci hanno permesso di comprendere le inesauribili potenzialità del linguaggio della Scrittura. Il capitolo si conclude facendo riferimento alle riflessioni sulla metafora.
Essa è la figura retorica che esprime la vera creatività dell’uomo. Infatti, la presenza stessa del simbolo testimonia il bisogno di esprimersi, di trascendere se stessi, attraverso l’arte, la religione, la filosofia, ma soprattutto attraverso l’uso della metafora, definita “viva” dallo stesso Ricoeur nel titolo di una sua opera successiva. Il terzo capitolo del libro approfondisce il tema della parola scritta. L’autore ci fa osservare come essa sia in grado di far rifulgere il senso del linguaggio stesso, che invece nella parola viva è destinato a svanire nel semplice gesto ostensivo. Quando la parola è scritta essa non è più appannaggio di un io e di un tu, ma transita anche verso terzi, verso quello che Ricoeur stesso definisce come il «terzo della comunicazione illimitata». Il discorso scritto, potremmo dire, oggettiva il linguaggio, lo rende suscettibile di molteplici interpretazioni: in questa maniera ciò che un testo significa non coincide più con quella che è l’intenzione dello scrittore, ma diviene Ereignis della parola: la “cosa” del testo, come giustamente scrive D’Acunto. Il testo risulta essere così, come dice lo stesso Ricoeur, una «comunicazione nella distanza e attraverso la distanza». La distanza fra il testo e il lettore diviene la condizione stessa dell’interpretazione. E ciò, come puntualizza l’autore, al contrario di quanto afferma Gadamer. Inoltre, ciò che contribuisce ad oggettivare e rendere autonomo un testo è rappresentato dai fattori dello stile, della stratificazione interna ad esso e della intertestualità.
L’autore si sofferma brevemente su questi aspetti per dare maggior risalto al tema del “mondo” che il testo dispiega davanti al lettore, e che poi non è altro che il concetto stesso di “cosa” del testo, di cui si parlava prima. Si tratta qui del problema della referenza che impone di ripensare la distinzione fregeiana tra senso e denotazione. Dato che per Frege hanno valore di referenza solo gli enunciati descrittivi, ci si chiede «se sia possibile estendere la nozione di referenza anche ai testi e alle opere poetiche, intendendo per poetico, in senso ampio, quell’ordine del discorso la cui pretesa alla verità eccede i limiti angusti della descrizione» (p. 72). La risposta di Ricoeur a questo problema è certamente affermativa e D’Acunto sottolinea come il filosofo francese sia stato influenzato dal linguista Jakobson, ma anche dalla dottrina di Husserl sulla Lebenswelt e da quella di Heidegger sull’“essere-nel-mondo”, applicate puntualmente alla dottrina del testo. L’autore passa poi a riflettere sull’atto di lettura con cui il testo diviene, secondo la bella espressione di Ricoeur, «figlio adottivo della comunità dei lettori», cosa che aggiunge sempre qualcosa di nuovo rispetto alla scrittura. Qui, il dono che il linguaggio fa nei riguardi del lettore dà origine ad un’“ermeneutica del sospetto” che mette in discussione i pregiudizi del lettore stesso, anche se poi è necessario che egli si apra ad un’ermeneutica dell’ascolto: ascolto di ciò che la realtà può divenire nell’ambito della finzione e della poesia. Per dirla con le parole di Ricoeur, «Grazie alla finzione, alla poesia si aprono nella realtà quotidiana nuove possibilità di essere-nel-mondo.
Finzione e poesia mirano all’essere, non più sotto la modalità dell’essere-dato, ma sotto la modalità del poter-essere. Con ciò stesso la realtà quotidiana subisce una metamorfosi in favore di ciò che […] la letteratura opera sul reale» (p. 79). D’Acunto ci ricorda come la parola-evento abbia ricadute sul piano dell’ermeneutica biblica. Effettivamente, lo stesso “fatto” cristiano si configura nel segno di un rapporto strettissimo fra scrittura, parola e avvenimento. I Vangeli dispiegano un nuovo “mondo”, rivelano un messaggio che investe la realtà intera. Ed è questo l’oggetto stesso della fede che va al di là di ogni interpretazione psicologizzante e soggettivistica. Comprendere la parola di Dio vuol dire, essenzialmente, comprendere la parola “Dio”, ma non in quanto Essere, ma come colui che lascia un “indicazione significante” nella sua stessa parola. L’uomo di fronte alla parola-evento si trova in una condizione di passività, non dispone della parola, ma può porsi solo in ascolto di essa, rimanendo in silenzio. E, alla fine del capitolo, D’Acunto aggiunge, richiamandosi ad Heidegger, che «non siamo noi i padroni del linguaggio, non disponiamo del potere di dire, ma è esso a disporre di noi» (p. 94).
Il quarto capitolo tratta il tema antropologico e cioè come la parola, secondo Ricoeur, sia un elemento fondamentale per la definizione dell’uomo: la parola che «riflette efficacemente e agisce pensosamente» è una prerogativa della persona stessa. D’altra parte, già i medievali ci ricordano che il termine “persona” viene proprio dal verbo personare che significa far sentire la propria voce. La parola viene a configurarsi come “schema anticipatore” del gesto umano, il quale si manifesta compiutamente nel lavoro. La grandezza dell’uomo sta nella dialettica parola-lavoro (cf. p. 95). L’autore si sofferma a lungo su questo punto ricordandoci che la parola rappresenta una “critica del lavoro”, in quanto anticipa il vivere stesso e sospende le preoccupazioni ad esso legate. Ogni azione si presenta quindi come un “fraseggio” dei nostri gesti o, come meglio sottolinea l’autore, come una “proposizione”, in quanto l’uomo che parla “afferma un senso” attraverso quella che Ricoeur stesso chiama “parola dubitativa”. Chiaramente, già il pensiero greco, sollevando la domanda sul “che cos’è?”, si poneva nell’ottica del pensiero dubitativo.
Ma anche il pensiero di Husserl e di Cartesio possono definirsi come delle filosofie della “messa in questione”. Il dubbio, che si apre una strada nel linguaggio stesso, si costituisce come il dominio della negazione, ossia va ad inficiare la struttura stessa del significato, «introducendo la dimensione del possibile nella trama continua del fatto nudo e crudo» (p. 101). Ed è proprio quando il pensiero si libera attraverso la domanda che si produce nell’uomo l’adesione alla legge giuridica o morale. Non a caso, Heidegger ci ricorda che l’essenza stessa dell’uomo ha la forma di una domanda. Inoltre, la parola dubitativa si manifesta compiutamente anche nella creazione poetica dove si può scoprire un senso dell’umano che è inattingibile per altra via. L’autore tiene a ribadire il carattere “teoretico” della parola, la quale tiene in sospeso la preoccupazione utilitaria della vita stessa, dando luogo così a quello “spazio di gioco” che «ha svolto un ruolo fondamentale per la vita di ogni civiltà, facendo in modo che essa fosse sempre, ad un tempo, “una civiltà del lavoro e una civiltà della parola”» (p. 103). Nel quinto capitolo, D’Acunto si sofferma approfonditamente sull’importanza che, per Ricoeur, ha la metafora. L’autore sottolinea che essa è una particolare “configurazione” del linguaggio poetico, in cui si esprime la creatività umana in maniera eminente.
Ricoeur ritiene che l’immagine non è la rappresentazione presente di una cosa assente, bensì la rappresentazione di una cosa precedentemente percepita o appresa. La teoria della metafora, per Ricoeur, porta con sé quella che lui stesso definisce “innovazione semantica” del linguaggio. Questo fenomeno fa parte della cosiddetta “poetica”, ossia del “carattere produttivo” del linguaggio stesso. L’immagine è un che di “parlato”, prima ancora che di “visto” (cf. p. 107). Il rapporto fra linguaggio e immagine può esser analizzato attraverso un vero e proprio “schematismo”, in senso kantiano, come quel principio che regola la stessa attribuzione metaforica. Nell’ambito della poesia, D’Acunto ribadisce che Ricoeur si oppone alla teoria della metafora come sostituzione, teoria propria della retorica tradizionale. Lo stesso discorso vale per il genere del racconto che è visto come un’operazione strutturante indirizzata all’ordine temporale del mondo. Processo che Ricoeur stesso definisce come «messa-in-intrigo» che, assumendo la naturale disorganicità dei vissuti temporali, ne fornisce una mediazione linguistica ordinata e intellegibile. Su questo tema, D’Acunto rimanda direttamente all’opera Tempo e racconto. In una prospettiva ricoeuriana, nella teoria della metafora entra in gioco il concetto di segno come entità linguistica basilare.
Si passa in questo modo da una semantica della parola ad una semantica del discorso. La parola quindi, come D’Acunto tiene a puntualizzare, procura un nuovo «effetto di senso», nel momento in cui viene riproposta all’interno della frase. È giusto così considerare la parola nella sua funzione proposizionale, «nel suo “libero gioco” con la frase», come recita il titolo del quinto capitolo. Si tratta, per Ricoeur, di vedere questo “libero gioco” come quella «dialettica dell’essere che ha il suo segno apofantico nel paradosso della copula è» (p. 114). Ricoeur elogia in modo particolare la metafora perché essa conferisce alla parola un surplus di significato, che porta l’immaginazione a pensare di più, ad andare oltre il mero senso letterale. Si tratta qui, puntualizza l’autore, di quella facoltà che Kant nella Critica della facoltà di giudizio, chiama Geist. Per spiegare meglio la paradossalità del verbo essere, di cui si diceva prima, potremmo dire, con il filosofo francese, che esso coincide sia con un letterale non-essere sia con un metaforico «essere-come». Questa figura retorica, scrive D’Acunto, «avrebbe il pregio di porre l’azione “davanti agli occhi”, rappresentando gli uomini in qualità di agenti e ogni cosa inanimata come vivente e in atto» (pp. 116-117). Quando essa raggiunge questo scopo può dirsi “viva” proprio perché ha una forte affinità con la realtà vivente.
Con quest’ultima si intende infatti la physis, natura intesa in senso originario, come ciò da cui si origina il divenire. Il poeta viene quindi a porsi come un testimone del divenire stesso, inteso come l’atto di un ente in potenza in quanto in potenza. Nel sesto capitolo si affronta il tema fondamentale della “promessa”. Partendo dall’importanza che ha la parola in quanto promuove un’autocomprensione del soggetto stesso, si può approfondire tale tema distinguendo fra «l’identità immutabile dell’idem» e «l’identità mobile dell’ipse». Per semplificare, D’Acunto li definisce anche come il carattere, l’una, e parola mantenuta, l’altra, precisando però che come il primo non corrisponde puntualmente all’identità-idem, così la seconda non corrisponde puntualmente all’identità-ipse. Non ha nemmeno senso, sostiene Ricoeur, porre la prima come risposta alla domanda “che cosa?” e la seconda come risposta alla domanda “chi?”, proprio perché la seconda include la prima. La promessa è proprio ciò che crea un divario fra la dimensione del carattere e quella della parola mantenuta o, per dirla in maniera concisa, essa oppone un durare al trasmutare del tempo (cf. p. 123).
La parola mantenuta è tale perché dice un mantenersi nella dimensione del “chi?”. Qui, Ricoeur si rifà allo Heidegger di Essere e tempo, il quale riconosce che la consistenza del Dasein sta nella stabilità di quel “chi” che si decide per l’esistenza autentica, per il vivere-per-la-morte. Come afferma l’autore, la definizione dell’identità personale, ma anche quella dell’alterità, dipendono da una componente “narrativa”, dato che il narrare implica sempre il riferimento ad un Io e ad un Tu. La promessa rappresenta quell’evento che segue ad un’interlocuzione cui si aggiunge una precisa articolazione etica. Come giustamente scrive D’Acunto: «Chi promette si vincola all’impegno di fare qualcosa e dà prova di essere provvisto di amor proprio» (p. 124). A differenza di Heidegger, Ricoeur ritiene che una promessa non vada pensata a partire dall’“essereper- la-morte”, ma che essa abbia un fondamento etico. Ricorda D’Acunto che ogni promessa «trae la sua “forza illocutoria” da un’assunzione ancora più radicale: la promessa di mantenere la parola in tutte le circostanze» (p. 127). Il tema della promessa ci rimanda anche a quello della testimonianza di cui, a partire dalla promessa stessa, viene messa in evidenza la «dimensione fiduciaria». Il testimone può dirsi affidabile proprio quando a riesce a mantenere la sua testimonianza nel tempo, anche in base alla sua autorevolezza.
Fare una promessa significa in qualche modo essere padroni di un futuro già nel presente, concetto questo che ci riporta, come D’Acunto tiene a sottolineare, alle riflessioni agostiniane sul tempo. Nel settimo capitolo l’autore si sofferma sul problema della traduzione come “paradigma”, ossia di quello «scarto [incolmabile] tra equivalenza e adeguazione totale» che è presente in ogni scambio linguistico umano. Si può parlare quindi di una vera e propria «ospitalità linguistica», dove una lingua accoglie il messaggio di un’altra e lo fa proprio riformulandolo. Il paradigma della traduzione può giocare un ruolo importante nell’ambito del dialogo interreligioso, ma può essere anche un antidoto contro le stesse ideologie razziste. Infatti il comunicare tramite la parola è qualcosa che riguarda indistintamente tutti gli esseri umani. Anche la traduzione obbedisce a quella logica “narrativa” fra identità e alterità, fra il proprio e l’estraneo. Si tratta proprio, per dirla con Ricoeur, «di aver cura di raccontare altrimenti le storie del passato» e ciò lo si può fare solo attraverso i racconti, che possono riguardare una persona, ma anche una comunità o un popolo. La riflessione etica di Ricoeur si spinge anche oltre la dimensione morale o politica arrivando a parlare del perdono. Il perdono, per Ricoeur, consiste nella liberazione delle promesse non adempiute del passato.
Esso dipende da un’economia del dono, ma di un dono non improntato al do ut des ossia lontano da quella logica dell’equivalenza tipica della nostra idea di giustizia. Il perdono appartiene piuttosto alla dimensione della caritas, quindi di un amore disinteressato, e non della giustizia tradizionalmente intesa. L’amore inoltre parla attraverso il linguaggio della lode e della celebrazione e il comandamento di amare è tale che contiene in sé le condizioni della sua stessa obbedienza. Alla logica dell’equivalenza Ricoeur contrappone la logica della sovrabbondanza che corrisponde al dare più di ciò che è dovuto, senza esigere un ritorno. Per Ricoeur, scrive D’Acunto: «Il compito dell’amore sarebbe, così, di destabilizzare una concezione puramente utilitaria della giustizia, riorientandola nel senso della generosità, ossia “verso un’idea di cooperazione” e “verso un sentimento di mutuo indebitamento”» (p. 140). Il convertire la giustizia significa iscrivere la «ricerca d’amore» in un «orizzonte di pace», che è ciò di cui Ricoeur parla nelle sue riflessioni sul concetto di “giuridico”.
Tratto dalla rivista Aquinas n. 1/2010
(http://www.pul.it)
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