Laboratorio Iran
-Cultura, religione, modernità in Iran
(2000)EAN 9788846444714
Esaurito
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DETTAGLI DI «Laboratorio Iran»
Tipo
Libro
Titolo
Laboratorio Iran - Cultura, religione, modernità in Iran
Autore
Nesti A.
Editore
Franco Angeli
EAN
9788846444714
Pagine
176
Data
2003
Collana
2000
COMMENTI DEI LETTORI A «Laboratorio Iran»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Laboratorio Iran»
Recensione di Carlo Saccone della rivista Studia Patavina
Questo volume è frutto della collaborazione di diversi studiosi iraniani e italiani riuniti insieme dall’ASFER (Associazione per lo studio del fenomeno religioso) e dalla rivista “Religioni e Società” intorno alle tematiche esplicitate nel titolo del volume.
Il tema di fondo è dato da una domanda che Michel Foucault arrivando a Teheran nell’inverno del 1978 si poneva osservando la stretta relazione tra mobilitazione politica (siamo alla vigilia della cacciata dell’ultimo scià dell’Iran) e movimenti religiosi. Questo irrompere dello “spirituale” nel “politico” (di solito accade il contrario) doveva essere considerato un fatto nuovo, un fenomeno dai caratteri assolutamente peculiari e senza precedenti? Foucault è convinto di sì. E del resto chi non ricorda i commenti, spesso informati a benevola curiosità e a positive aspettative, che correvano allora sulla stampa europea, persino su quella di sinistra, pronta a vedere in Khomeyni un “eroe popolare” nella lotta contro un detestabile dittatore abbarbicato al suon trono sanguinario? Evidentemente da allora molta acqua è passata sotto i ponti… L’Iran ha conosciuto una breve estate di democrazia (1979), ed è successivamente piombato in una guerra spaventosa con l’Irak di Saddam (1980-87) per approdare, dopo l’emergenza bellica e la morte di Khomeyni, a un regime saldamente in mano a circoli conservatori-integralisti. Tuttavia, quel che stupisce di questo esperimento di teocrazia sorto sul finire del XX secolo è che, al suo interno, non è mai cessato un intenso dibattito politico-culturale, sempre acceso e vivacissimo, a tratti contrassegnato da censure e violenze, ma sostanzialmente vitale e ininterrotto. Le diverse anime della rivoluzione si sono confrontate dal 1979 a oggi: liberali e filo-marxisti (questi ultimi, però messi al bando molto presto), islamisti radical-rivoluzionari e islamisti liberal-moderati.
Certo, all’interno di una “repubblica islamica” esistono evidentemente dei limiti sistemici di legittimità ben precisati: chi si dichiarasse non-islamico o contrario all’islam non sarebbe legittimato ad agire come attore politico. Di fatto, comunque, gli unici attori politici esclusi per principio dall’agone politico sono stati quelli che si rifacevano esplicitamente o implicitamente a ideologie marxiste, tutto sommato una piccola minoranza.
Il dibattito politico in Iran in questi anni si è svolto a più livelli, di cui il volume ci dà ampia testimonianza: innanzitutto all’interno dell’elite religiosa al potere, dove è emersa la contrapposizione tra i conservatori e l’ala “liberal-democratica” (ma anche all’interno dei conservatori, è ampio e fitto il dibattito tra pragmatici e dogmatici); al livello del rapporto cittadini-autorità pubbliche (religiose); al livello di segmenti specifici della società, come quello delle fondazioni pubbliche dove una burocrazia religiosa potente e influente controlla e manovra ingenti flussi finanziari, istituti bancari, di assistenza ecc.; al livello del mondo studentesco e soprattutto del mondo delle donne. A proposito di quest’ultimo, il volume presenta più di un contributo che mette a fuoco la grande novità di in “femminismo islamista”, voce che dialoga serratamente da un lato con l’elite religiosa al potere, dall’altro con movimenti femministi di stampo più laicheggiante e contestatario.
Questa ampia e variegata discussione “dal basso” verte naturalmente su fini e modalità di attuazione della repubblica islamica, ma anche su questioni e obiettivi più immediati come la condizione della donna e il grado di rispetto dei diritti politici e di libertà, almeno a parole garantiti dalla Costituzione. Una sorpresa è certamente constatare che, pur entro limiti facilmente intuibili, sui giornali si dibatte abbastanza liberamente di tutto. Ogni tanto qualche giornale viene chiuso d’autorità, per ricomparire magari il giorno dopo sotto una diversa sigla. Insomma esiste in questa società “teocratica”, e certamente autoritaria, un diffuso bisogno di discutere e dibattere senza lacci e laccioli che si scontra, giorno dopo giorno, con limiti di ogni genere e severe censure, con frequenti provvedimenti vessatori e liberticidi, ma che in sostanza non è stato mai imbavagliato del tutto. La politica culturale del regime sembra insomma informata più a una sorta di flessibile controllo che non alla censura sistematica e implacabile: tutti possono pubblicare critiche al regime, mettendo in conto che ogni tanto questo si può anche arrabbiare…
La domanda che emerge spontanea è: in una società che veramente libera in realtà non è, né democratica almeno nel senso occidentale del termine, questo gusto per il dibattito e la discussione politico-culurale a tutto campo quanto ancora potrà durare? I primi preoccupanti indizi si vedono già da qualche anno, dopo la generale disillusione dei giovani e delle donne sulle riforme promesse da Khatami. Il rischio di ripiegamento sul privato sull’intimistico, il disgusto per una politica che è saldamente in mano ai conservatori, sono palpabilissimi. La sensazione tra larghi strati di elettorato oramai disilluso è che il regime abbia abilmente lasciato, e tuttora lascia, un po’ “di corda” a ribelli e contestatori perché si sfoghino un po’… In questo contesto un presidente come Khatami, il liberal-democratico, sarebbe pienamente organico alle strategie politico-culturali del regime, e non a caso la sua credibilità tra giovani e donne negli ultimi tempi sarebbe scesa a capofitto.
Detto questo è innegabile, come emerge da diversi saggi qui risolti, che la rivoluzione iraniana rappresenti un elemento di “modernità” e di rottura sotto molti aspetti sia con la tradizione quietista dello sciismo - non dimentichiamo che Khomeyni fu duramente contestato per la sua idea di instaurare il “governo dei dottori” (velayat-i faqih), sia in Iran che nell’Irak sciita; sia, soprattutto, con la tradizionale esclusione dalla sfera pubblica delle donne. Queste si sono realmente affacciate alla vita pubblica con la rivoluzione iraniana, e non solo politicizzandosi e occupando posti in parlamento e nelle organizzazioni militanti. Due dati soltanto: le donne rappresentano oggi oltre il 50 % del totale degli studenti universitari iraniani e, senz’altro obbligo che il “decoro islamico” nell’abbigliamento, esse hanno pieno accesso a tutte le libere professioni. Paradossalmente, almeno dal punto di vista di chi schematicamente pensasse teocrazia=oscurantismo e basta, il paese ha compiuto passi da gigante nell’emancipazione della donna e nella diffusione dell’istruzione superiore. La stessa libertà di stampa, pur con tutti i limiti e le vessazioni cui è tuttora sottoposta, è assai più ampia che non ai tempi dello scià. La “democrazia informatica” e delle parabole televisive sta facendo il resto: le città iraniane brulicano di “internet-café” e persino sulle case di gente umile e religiosamente osservante spuntano le parabole… Insomma, la rivoluzione teocratica iraniana, come ci mostra questo volume, pur con tutti gli evidenti limiti, ha comunque rappresentato un formidabile fattore di modernizzazione del paese. Ecco, il punto di crisi del sistema è proprio intorno alla questione della “modernizzazione”, perché modernizzando il paese al ritmo di questi anni, l’elite al potere quasi inconsapevolmente ha alimentato nuove istanze di libertà e di democrazia e oggi –senza volerlo- lavora per una società che rischia di rivoltarsi contro di essa.
Il volume è diviso in quattro parti che illustrano ampiamente le tematiche più sopra accennate: 1. L’utopia al potere; 2. Potere, società civile; 3. Cultura, religione e società; 4. Di fronte all’Iran. Utili bibliografie scelte sono poste al termine di ogni singola sezione.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Il tema di fondo è dato da una domanda che Michel Foucault arrivando a Teheran nell’inverno del 1978 si poneva osservando la stretta relazione tra mobilitazione politica (siamo alla vigilia della cacciata dell’ultimo scià dell’Iran) e movimenti religiosi. Questo irrompere dello “spirituale” nel “politico” (di solito accade il contrario) doveva essere considerato un fatto nuovo, un fenomeno dai caratteri assolutamente peculiari e senza precedenti? Foucault è convinto di sì. E del resto chi non ricorda i commenti, spesso informati a benevola curiosità e a positive aspettative, che correvano allora sulla stampa europea, persino su quella di sinistra, pronta a vedere in Khomeyni un “eroe popolare” nella lotta contro un detestabile dittatore abbarbicato al suon trono sanguinario? Evidentemente da allora molta acqua è passata sotto i ponti… L’Iran ha conosciuto una breve estate di democrazia (1979), ed è successivamente piombato in una guerra spaventosa con l’Irak di Saddam (1980-87) per approdare, dopo l’emergenza bellica e la morte di Khomeyni, a un regime saldamente in mano a circoli conservatori-integralisti. Tuttavia, quel che stupisce di questo esperimento di teocrazia sorto sul finire del XX secolo è che, al suo interno, non è mai cessato un intenso dibattito politico-culturale, sempre acceso e vivacissimo, a tratti contrassegnato da censure e violenze, ma sostanzialmente vitale e ininterrotto. Le diverse anime della rivoluzione si sono confrontate dal 1979 a oggi: liberali e filo-marxisti (questi ultimi, però messi al bando molto presto), islamisti radical-rivoluzionari e islamisti liberal-moderati.
Certo, all’interno di una “repubblica islamica” esistono evidentemente dei limiti sistemici di legittimità ben precisati: chi si dichiarasse non-islamico o contrario all’islam non sarebbe legittimato ad agire come attore politico. Di fatto, comunque, gli unici attori politici esclusi per principio dall’agone politico sono stati quelli che si rifacevano esplicitamente o implicitamente a ideologie marxiste, tutto sommato una piccola minoranza.
Il dibattito politico in Iran in questi anni si è svolto a più livelli, di cui il volume ci dà ampia testimonianza: innanzitutto all’interno dell’elite religiosa al potere, dove è emersa la contrapposizione tra i conservatori e l’ala “liberal-democratica” (ma anche all’interno dei conservatori, è ampio e fitto il dibattito tra pragmatici e dogmatici); al livello del rapporto cittadini-autorità pubbliche (religiose); al livello di segmenti specifici della società, come quello delle fondazioni pubbliche dove una burocrazia religiosa potente e influente controlla e manovra ingenti flussi finanziari, istituti bancari, di assistenza ecc.; al livello del mondo studentesco e soprattutto del mondo delle donne. A proposito di quest’ultimo, il volume presenta più di un contributo che mette a fuoco la grande novità di in “femminismo islamista”, voce che dialoga serratamente da un lato con l’elite religiosa al potere, dall’altro con movimenti femministi di stampo più laicheggiante e contestatario.
Questa ampia e variegata discussione “dal basso” verte naturalmente su fini e modalità di attuazione della repubblica islamica, ma anche su questioni e obiettivi più immediati come la condizione della donna e il grado di rispetto dei diritti politici e di libertà, almeno a parole garantiti dalla Costituzione. Una sorpresa è certamente constatare che, pur entro limiti facilmente intuibili, sui giornali si dibatte abbastanza liberamente di tutto. Ogni tanto qualche giornale viene chiuso d’autorità, per ricomparire magari il giorno dopo sotto una diversa sigla. Insomma esiste in questa società “teocratica”, e certamente autoritaria, un diffuso bisogno di discutere e dibattere senza lacci e laccioli che si scontra, giorno dopo giorno, con limiti di ogni genere e severe censure, con frequenti provvedimenti vessatori e liberticidi, ma che in sostanza non è stato mai imbavagliato del tutto. La politica culturale del regime sembra insomma informata più a una sorta di flessibile controllo che non alla censura sistematica e implacabile: tutti possono pubblicare critiche al regime, mettendo in conto che ogni tanto questo si può anche arrabbiare…
La domanda che emerge spontanea è: in una società che veramente libera in realtà non è, né democratica almeno nel senso occidentale del termine, questo gusto per il dibattito e la discussione politico-culurale a tutto campo quanto ancora potrà durare? I primi preoccupanti indizi si vedono già da qualche anno, dopo la generale disillusione dei giovani e delle donne sulle riforme promesse da Khatami. Il rischio di ripiegamento sul privato sull’intimistico, il disgusto per una politica che è saldamente in mano ai conservatori, sono palpabilissimi. La sensazione tra larghi strati di elettorato oramai disilluso è che il regime abbia abilmente lasciato, e tuttora lascia, un po’ “di corda” a ribelli e contestatori perché si sfoghino un po’… In questo contesto un presidente come Khatami, il liberal-democratico, sarebbe pienamente organico alle strategie politico-culturali del regime, e non a caso la sua credibilità tra giovani e donne negli ultimi tempi sarebbe scesa a capofitto.
Detto questo è innegabile, come emerge da diversi saggi qui risolti, che la rivoluzione iraniana rappresenti un elemento di “modernità” e di rottura sotto molti aspetti sia con la tradizione quietista dello sciismo - non dimentichiamo che Khomeyni fu duramente contestato per la sua idea di instaurare il “governo dei dottori” (velayat-i faqih), sia in Iran che nell’Irak sciita; sia, soprattutto, con la tradizionale esclusione dalla sfera pubblica delle donne. Queste si sono realmente affacciate alla vita pubblica con la rivoluzione iraniana, e non solo politicizzandosi e occupando posti in parlamento e nelle organizzazioni militanti. Due dati soltanto: le donne rappresentano oggi oltre il 50 % del totale degli studenti universitari iraniani e, senz’altro obbligo che il “decoro islamico” nell’abbigliamento, esse hanno pieno accesso a tutte le libere professioni. Paradossalmente, almeno dal punto di vista di chi schematicamente pensasse teocrazia=oscurantismo e basta, il paese ha compiuto passi da gigante nell’emancipazione della donna e nella diffusione dell’istruzione superiore. La stessa libertà di stampa, pur con tutti i limiti e le vessazioni cui è tuttora sottoposta, è assai più ampia che non ai tempi dello scià. La “democrazia informatica” e delle parabole televisive sta facendo il resto: le città iraniane brulicano di “internet-café” e persino sulle case di gente umile e religiosamente osservante spuntano le parabole… Insomma, la rivoluzione teocratica iraniana, come ci mostra questo volume, pur con tutti gli evidenti limiti, ha comunque rappresentato un formidabile fattore di modernizzazione del paese. Ecco, il punto di crisi del sistema è proprio intorno alla questione della “modernizzazione”, perché modernizzando il paese al ritmo di questi anni, l’elite al potere quasi inconsapevolmente ha alimentato nuove istanze di libertà e di democrazia e oggi –senza volerlo- lavora per una società che rischia di rivoltarsi contro di essa.
Il volume è diviso in quattro parti che illustrano ampiamente le tematiche più sopra accennate: 1. L’utopia al potere; 2. Potere, società civile; 3. Cultura, religione e società; 4. Di fronte all’Iran. Utili bibliografie scelte sono poste al termine di ogni singola sezione.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)