Tutti cerchiamo il segreto della felicità. Qualcuno vorrebbe convincerci che si trova nell'assoluta libertà. E se, al contrario, quel segreto si nascondesse nell'obbedienza? Obbedienza a come la natura ci ha creati, alle regole di saggezza che i secoli hanno tramandato; obbedienza alla propria vocazione, ai consigli di chi ne sa, e perfino a quel marito o a quella moglie il cui amore forse è da riscoprire. Insomma, non fidiamoci troppo di noi, dei nostri sentimenti a volte strampalati, ma indossiamo, quando ce n'è bisogno, un abito di umiltà. I problemi, anche quelli più difficili, appariranno in una luce diversa e cominceranno a risolversi. Costanza Miriano racconta, con spirito vulcanico, la propria vita, frenetica e divertente - quattro figli, due lavori - e quella dei suoi amici molto speciali, che lei chiama la Compagnia dell'agnello. In dieci capitoli popolati da eroi della vita quotidiana alle prese con piccole e grandi battaglie, per le quali le energie sembrano non bastare mai, ci vengono presentati altrettanti esempi virtuosi di uomini e donne che ce la fanno: a tenere unita la famiglia, a crescere i figli, a rimboccarsi le maniche sul lavoro, a non avere paura degli anni che passano. A ognuno di noi è capitato un posto di combattimento, una piccola fetta di trincea. L'importante è sapere che accettare la realtà, non ribellarvisi, farsi docili e ascoltare le ragioni degli altri, ci rende molto più forti.
INTRODUZIONE
di Costanza Miriano
Cara signora maestra,
ha ragione, lo ammetto, ho scritto un pochino più di quanto avrei voluto. E forse potrei anche riconoscere di non essere andata esattamente dritta all'obiettivo. D'altra parte lei sa che io sono priva di ragionevolezza e ordine, ho altri problemi psichiatrici, ma quelli no. È inutile quindi che lei si materializzi alle mie spalle di notte mentre scrivo, preceduta dal familiare rumore del mezzo tacco, per provare ad abbreviare i miei periodi, alleggerire il pensiero, distendere le frasi. Lo so, più che un libro questo è un flusso di coscienza. D'altra parte se una scrive di notte, stremata dopo una giornata da quadrimamma lavoratrice e obnubilata dal tipico aroma della scrittura — un forte odore di smalto misto a pane e formaggio e crema per il collo indolenzito (qualcosa alle tredicimila erbe alpine che mi dà la mamma) — è facile che perda la lucidità. Le mie amiche femmine — "divagazione" è il nostro secondo nome — non sono infastidite più di tanto. I maschi invece mi chiedono sempre di togliere i fronzoli e di fornire loro rapide istruzioni per l'uso. Che poi, io dico, se ti volevo dare un messaggio ti scrivevo un telegramma, no?
Cara maestra, la prego, le cornicette no, il compito di punizione lo faccio, ma non mi faccia disegnare che io so fare solo la casa con albero, nuvola e uccello sullo sfondo. Le matite per me servono solo a sottolineare, o al massimo a tenere ferma la coda.
E poi, a mae', cioè volevo dire signora maestra, con tutto il rispetto, ho finito la prima una vita fa. Mi spiegava le acca quando hanno rapito Moro. Io adesso non vorrei sembrarle troppo emancipata rispetto alla sua influenza, ma, sa, ho quattro figli, uno fa già il liceo. Mi allaccio le scarpe da sola. Vado al bagno senza che la Valentina mi tenga la porta.
Guardi, al massimo le posso fare il riassuntino. Ecco.
Io volevo dire che l'uomo contemporaneo ascolta solo se stesso perché crede di essere ben funzionante, ma in realtà da solo non ha tutto quello che serve per girare bene. Ha una specie di baco che lo fa inceppare. Non è felice e non si regge così saldo come crede, se ascolta solo la sua voce interiore. Quando scopre che c'è qualcuno che gli vuole proprio un sacco bene (un sacco è matita rossa? Blu? O me lo passa?) gli viene voglia di provare ad ascoltare la voce di quella persona, che poi è Dio. Dio ci parla in tanti modi, nella realtà, in quello che ci succede, nella preghiera, nelle persone con cui camminiamo. Queste persone con cui faccio qualche tratto di strada io le chiamo la Compagnia dell'agnello, perché per noi l'obiettivo è assomigliare sempre di più all'agnello di Dio. Questa somiglianza si impara nell'obbedienza alle nostre realtà, alla fatica che la vita ci chiede, alla bellezza da trovare scavando un po' con le mani sotto la polvere della ripetizione di gesti che non ci sembrano brillanti. E l'obbedienza è anche non restituire il male, fare finta di non sentire le malelingue, fare finta di dimenticare che quello ti ha fregato (mi sa che fregato è proprio matita blu) e cercare di restituirgli qualcosa di buono in cambio.
Che dice? Così come va? È più chiaro? Epperò che pizza un libro così. Va bene, maestra, le prometto che sarò più sintetica. Ma dal prossimo libro. E verrò a portarle le castagne col riccio e le foglie rosse per la lezione sull'autunno. Ma sia fiera del suo lavoro: non ho sbagliato neanche un'acca!
La sua affezionata alunna
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
Non fidarti di te
(in compagnia degli agnelli)
Ore 19 e 02. Sono a casa e aspetto gente a cena. Calcolando che la strada è rallentata dai lavori, basta uno in doppia fila che faccia scendere la nonna finta invalida e posso contare ancora su un'ora e diciotto minuti prima che gli ospiti arrivino. Devo solo: preparare la cena, tutta tranne la carne (quella l'ho già bruciata, ho dovuto mettere la muta alla Barbie surfista nel momento decisivo, e secondo me lei era un po' ingrassata, non ci entrava); apparecchiare (ho solo sei forchette uguali, ma pare che la tavola spaiata faccia molto dégagée); correggere due dettati e riascoltare storia; fornire a quattro figli quattro travestimenti da ragazzi a modo, possibilmente della taglia giusta o con una ragionevole approssimazione, più alcune rapide formalità tipo demolire il fortino costruito sul divano con le insegne delle femmine (io mi lamento per principio e vietato ai maschi); nascondere con poche abili mosse orsi dentro a ripostigli e furetti sotto i letti.
Poi dovrei anche truccarmi e cambiarmi, metterò la vestaglietta nera effetto snellente, si sa che tutti i «ma come cucini bene» del mondo non varranno mai un «ti trovo dimagrita». Intanto la crisi isterica di un figlio per il compito in classe di domani è in pieno svolgimento, quindi anche lì siamo avanti col ruolino di marcia, non ci dovrebbe volere ancora molto. Le due femmine discutono se sia la signora Nesbitt a dover preparare il tè o no. Non so chi sia la signora Nesbitt, ma fino a che la rissa non sfocia nel sangue la cosa non mi riguarda (e anche in quel caso mi riguarda solo se è molto, il sangue). Un altro figlio è a tennis, ma può tornare da solo, se chiudiamo un occhio sul fatto che diluvia, e che la Madre Diligente che incarna i miei sensi di colpa mi sta in limando di andarlo a prendere in macchina, o almeno con un ombrello. Do un pugno alla Madre Diligente, indosso il mio pratico sandalo da pioggia (sostengo da sempre che se piove o piove o nevica è meglio essere più nudi possibile, la pelle umana si asciuga prima della lana) e vado a messa, ché stamattina l'ho persa. Raggiungo la chiesa in trentacinque secondi netti, e scopro che oggi c'è il sacerdote coreano, quello a cui hanno asportato il sistema nervoso. Potrebbe volerci più del previsto e in più non capirò una parola. Come John Belushi prego Nostra stra Signora dell'Accelerazione. Per la prima volta nella giornata Pollyanna, il mio alter ego, incaricata di trovare un lato positivo in tutto quello che succede al mondo, vacilla. Sembra anche lei dubitare che io possa farcela stavolta, ma le do una gomitata, e le indico il nostro Principale, quello che sta lì sulla croce. Anche per lui a un certopunto sembrava che le cose avessero preso una brutta piega, ma meglio di così, poi, non sarebbe potuta finire. Quindi le ricordo una delle regole base della vita: quando tutto si sta complicando, quando sei in ritardo clamoroso o in difficoltà anche molto seria, e non sai da che parte cominciare, lascia stare tutto e vai alla messa.
La preghiera pulisce il cervello, scansa tutte le cretinate, le angosce, le ansie, i pensieri inutili che produciamo a flusso continuo. La preghiera ci riporta al presente, che è il tempo di Dio, mentre tutti i «mannaggia, avrei potuto fare» e i «come farò se» vengono dal nemico. La preghiera sostituisce a noi stessi un'altra fonte di informazione, decisamente più affidabile di noi: Dio. Ché poi ilprimo dei comandamenti è proprio quello: shemà, ascolta. La preghiera serve a noi, mica a Dio. Siamo noi che abbiamo un bug nel software incaricato di farci girare i neuroni, o qualsiasi cosa sia quella che produce i nostri pensieri. È solo questione di scegliere se cercare di ascoltare colui che ha creato l'universo, le galassie, il dna, le leggi della fisica, oppure il nostro cervello, che oltre a non saper orchestrare i movimenti degli astri ha qualche problema anche col frullatore (tradurre i libretti di istruzioni dall'italocinese all'italiano è uno sport di resistenza, se non si è allenati si può anche soccombere nell'impresa).
Quanto alla messa, be' quella è una cosa talmente incredibile che se la gente sapesse cosa succede davvero starebbe sempre inginocchiata ad aspettare la prossima. Io per esempio, se capissi veramente, non mi distrarrei tanto.
Ecco dunque il mio buon proposito per l'anno nuovo, perché si sa che l'anno comincia davvero a settembre, quella di gennaio è una finta: ascoltare qualcun altro, non fidarmi di me. T Io avuto una quarantina di anni per capire che quello che dico a me stessa della mia vita nella maggior parte dei casi non è la verità. «La risposta che cerchi sta dentro di te, ed è sbagliata» direbbe un personaggio di Guzzanti (lo so, ci saranno sicuramente grandi autori classici che lo hanno detto in modo sublime, ma ognuno fa le citazioni che si merita).
Nella mia carriera di iniziatrice di nuove vite (ne inizio più o meno una al mese), ho fatto ogni sorta di buoni propositi — credo di avere cominciato a redigere elenchi di intenti più o meno dalla seconda elementare — e li ho anche conservati, magari quando sarò vecchissima avrò il coraggio di guardarli, adesso non me la sento. Niente grandi opere, per carità, ma comunque sempre inevasi. I più ricorrenti: scrivere a (segue elenco di tutti gli amici trovati e persi di vista in questi anni in cui peraltro la posta scritta a mano si è estinta); andare a trovare la zia vecchia che abita lontanissimo e stare seduta sul divano di velluto senape concentrata sui suoi problemi di cistifellea, ripromettendomi di capire prima o poi cosa sia, e se io la possegga; bere un bicchiere d'acqua tiepida (tiepida???) al mattino come dice mia mamma; essere puntuale almeno una volta ogni quattro mesi; leggere tutti i mattoni, cioè volevo dire i classici, che ho accumulato per sedare i sensi di colpa di non averli letti, eccetera eccetera.
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Don filippo raimondi il 29 settembre 2014 alle 11:53 ha scritto:
Sempre grande, Costanza! E che bella la prospettiva di una fede vissuta in Compagnia! Però, l'editore, ci poteva anche gratificare di un indice del libro e risparmiarci quella copertina da romanzi di Liala.
Studente Ilaria Lorusso il 29 marzo 2016 alle 13:40 ha scritto:
Questo terzo libro completa gli altri due, e in tempi di trilogie questa è senza dubbio la trilogia preferita. Segue la scia degli altri libri di Costanza Miriano, ricchi di quotidianità, freddure e catechesi. Rispetto agli altri due però il rapporto qualità prezzo è un pò calato.