Così rossa è la rosa. Scenari d'amore pre-cortese, a Baghdad. Testo arabo a fronte
(Biblioteca medievale)EAN 9788843042685
Dimmi sì: / pel battesimo e la fonte / per il diacono e il metropolita / per i santi Giovanni e Simeone / per San Sergio e per Gesú / per il monaco che officia / pel Natale e i re magi / pel digiuno di Quaresima / e il perdono dei peccati / per la vergine Maria, per la Pasqua / e per l’ostia e il santo vino / per le croci come lance, come lampi / sfavillanti in processione / per il tuo pellegrinaggio fino all’eremo di Fiq / per l’altare della chiesa, per il Dio misericorde / per i dolci chierichetti / prostrati a un Dio lontano / pei batacchi e i campanili / per i salmi e l’offertorio / per la Madre e per il Figlio / per il vescovo zelante / che converte al vero credo / per i frati e gli eremiti / sui pinnacoli in preghiera / pel Vangelo, per le palme / per la Bibbia e le letture / per la croce e per la cinta che distingue la tua fede (p. 119)
Questa semplice incalzante elencazione di «oggetti cristiani» - che ci mostrano fra l’altro una insospettata consuetudine e una grande familiarità con il lessico della ritualità e della teologia cristiane - apre un’ode che il grande Abu Nuwas (m. 814 ca.), fama di libertino e di poeta «maledetto» della Baghdad a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, rivolge a un giovane bel monaco cristiano di cui s’è invaghito. La chiusa di quest’ode, inserita in una breve antologia di testi tradotti (con gli originali arabi a fronte) intitolata Così rossa è la rosa e brillantemente curata da Leonardo Capezzone, non è da meno:
Per la lieve tua clemenza / che non coglie redenzioni / che disdegna la mia pena / dentro il fuoco, nella sete: / che ne è della tua fede / se non vedi in me Passione? / Tu gingillo dei conventi / così altero ma insolente / quanti amanti musulmani / avrai fatto già abiurare? (ibidem)
In questo componimento sono già presenti alcuni motivi tipici della «nuova poesia» di epoca abbaside (in realtà già comparsi auroralmente in un anticipatore: il poeta-califfo omayyade al-Walid, m 744): l’amore proibito (in Abu Nuwas spesso amore omoerotico), il vagheggiamento di una fede diversa dell’islam fino alla prospettata abiura dall’islam per amore (v. ultimo verso). Manca solo il vino (qui appena di sfuggita accennato, in relazione all’eucaristia), che compare però altrove, sempre in ardita associazione con «oggetti cristiani», ad esempio nel seguente componimento:
Il corpo mio è preda di un malore che a brani lo dilania / Il cuore poi è consunto da un fuoco che divampa / Innamorato sono d’un amato che solo a dirne il nome / le lacrime dagli occhi mi sgorgano a ruscelli / […] / Vestito col panno che cingono i cristiani, a messa se ne va: / dice che il Figlio è Dio, e il crocefisso adora / Fossi io il metropolita della Chiesa –no / fossi io per lui Vangelo e Bibbia- / che dico, fossi io l’eucaristia che gli vien porta / o il calice da cui sorseggia il vino / Così congiunto in comunione, redento guarirei / nell’anima e nel corpo (p. 121)
C’è qui una evidente citazione dal menzionato poeta califfo al-Walid che, in un carme di analogo tenore, «guatava» una bella cristiana che andava alla messa e, vedendola poi baciare con ardore il crocefisso, così commentava:
Il legno della croce; e chi di voi, povero me, ha mai visto una simile croce adorata? / Ho chiesto al mio Signore di poter essere io al suo (=del crocefisso) posto /e servir poi da combustibile alla fiamma dell’inferno! (da F. GABRIELI-V. VACCA, Antologia della letteratura araba, Accademia, Milano 1982, p. 83)
Si osservi la tipica mescolanza, comune ai due poeti, di linguaggio amoroso e linguaggio religioso, ancora una volta sullo sfondo di una implicita «abiura per amore» dall’islam. Il gusto di giocare elegantemente con gli elementi della ritualità cristiana (messa, eucaristia, calice, libri sacri), ri-semantizzati però all’interno di un «frivolo» discorso di corteggiamento, si può certo spiegare anche in termini di compiaciuto indulgere all’«esotico» e al «meraviglioso», quali potevano apparire detti oggetti e detta ritualità a confronto con la castigata sobrietà di moschee e riti islamici. Ma c’è in più, soprattutto in Abu Nuwas, l’elemento della ostentazione dello scandalo, che emerge per esempio da versi che sembrano tutto un programma alternativo di vita, in barba all’austerità della morale islamica: «Tre cose fan la vita gaia: / vin vecchio, cantatrice e buon compagno / Del vin lo spirto dà respiro all’anima»; oppure si evidenzia in componimenti in cui, dopo essersi vantato spudoratamente della propria condotta scostumata («il senno ho scambiato con il vizio»), il poeta dichiara solennemente: «Piacere più ghiotto non v’è / di quel ch’è palese e dà scandalo»; o, in altro carme: «Su, dammi del vino da bere… non farmelo ber di soppiatto, se in piazza è possibile!» (queste ultime citazioni da ABU NUWAS, La vergine nella coppa, a cura di M. Vallaro, Istituto per l’Oriente, Roma 1992).
Un autore, come si vede, che sembra fatto apposta per mandare all’aria tanti consolidati stereotipi sull’Islam e le società da esso informate, e che costringe il lettore a chiedersi molte cose sulla Baghdad califfale in cui Abu Nuwas, poeta e sodale di vari califfi, operò. L’ottimo Curatore del volumetto qui presentato è prodigo di notizie e attente ricognizioni sul raffinatissimo ambiente intellettuale della Baghdad dell’VIII secolo, una città cosmopolita e multi-culturale ante litteram, specie se la si confronta con la coeva Europa dei «secoli bui» (ma, ahinoi, anche con l’odierna Europa neo-tribalizzata delle varie «padanie» di questi ultimi tempi…). Una città ove ad esempio, un califfo-teologo come al-Ma’mun soleva invitare a corte, accanto agli ulema e ai dotti musulmani per confrontarsi in pubblici dibattiti su questioni religiose, i rabbini e i vescovi cristiani del circondario; una città ove arabi turchi e persiani si mescolavano, e lo stesso persiano è lingua ampiamente praticata a corte e tra i dotti; una città ove ebrei, zoroastriani e cristiani sono liberi di praticare il proprio culto e entrano in facile e fruttuoso contatto con l’intellighenzia musulmana; una città dove nella stessa burocrazia califfale s’incontrano funzionari di fede non musulmana. È il periodo in cui, com’è ben noto agli studiosi di storia della filosofia, si compie il grande travaso delle scienze naturali e filosofiche di matrice greca nella nuova matrice araba: proprio a Baghdad i califfi e i notabili della città stipendiano traduttori che operano nella Bayt al-Hikma («casa della sapienza», una grande biblioteca pubblica) volgendo in arabo testi di Platone, di Aristotele, dei neoplatonici, di Ippocrate e Galeno e via dicendo.
Il tema della «apostasia» o abiura dall’islam - peccato gravissimo, che secondo la shari’a non ammette neppure valido pentimento - è certamente di quelli che possono colpire in questa raccolta, ove peraltro esso si mantiene sul filo dello «scherzo» amabile, della allegra canzonatura di cose sacre, senza altra implicazione di sorta. Ben altro sviluppo avrà questo stesso tema nelle lettere persiane, a partire dal X secolo, dove il poeta spesso per non dire di regola si proclama «zoroastriano» e ostentatamente disprezza i dottori della legge musulmani (gli ulema). La cosa si può rapportare a un duro anatema coranico nei riguardi dei poeti condannati senza appello come «menzogneri» e «traviatori», e soprattutto rimproverati di predicare bene e razzolare male («Essi dicono quel che non fanno», XXVI, 224-26). L’accusa verrà sprezzantemente ignorata da Abu Nuwas (che avrebbe risposto con uno sprezzante: la ubali, che equivale al nostro popolaresco: «non me ne frega niente»), e anzi verrà elegantemente ribaltata dai poeti arabi e persiani sugli stessi ulema (o persino su sufi delle confraternite regolari), accusati di ogni genere di ipocrisia e malaffare, di condotta menzognera e immorale. Se si pensa all’analoga vasta letteratura europea coeva sull’argomento «ipocrisia del clero», viene proprio da dire: tutto il mondo è paese… Facendo un ulteriore passo in avanti, il tema dell’apostasia dall’islam diventerà in ambiente iranico o iranizzato (Turchia ottomana, India moghul) cifra poetica di una allontanamento dalla «religione esteriore» - quella degli ulema, sentita come appiattita sulla mera razionale osservanza dei precetti legali - in vista dell’accesso a una dimensione più interiorizzata e sentimentale, a una religione più autentica, più del cuore che della ragione. Esemplare è in questo senso la storia del «traviamento» di Shaykh San‘an (narrata in FARID AL-DIN ‘ATTAR, Il verbo degli uccelli, Oscar Mondadori, Milano 1999 (1a ed. SE 1886), un rispettato maestro sufi che, a seguito di un sogno rivelatore, si reca in Occidente: in terre greche egli incontrerà una bella cristiana per cui letteralmente «perderà la bussola», arrivando per amore a bruciare il Corano e - giusto il tema di cui stavamo trattando - all’abiura dall’islam. Da qui a una «poetica della perversione» il passo è breve (cf. il mio saggio: Il maestro sufi e la bella cristiana. Poetica della perversione nella Persia medievale, Carocci, Roma 2005).
Ma il volume curato dal Capezzone appare estremamente interessante anche per altri aspetti, sintetizzati nel sottotitolo: «Scenari d’amore pre-cortese a Baghad». Nella poesia persiana - di un paio di secoli posteriore - verrà a piena maturazione un sistema di «ethos amoroso» che ha i suoi testi canonici (si pensi allo splendido AHMAD GHAZALI, Delle occasioni amorose, Carocci, Roma 2006; a RUZBEHAN BAQLI DI SHIRAZ, Le jasmin des Fidèles d’amour, a cura di H. Corbin, Verdier, Paris 1991; e troverà poi il suo vate indiscusso in HAFEZ DI SHIRAZ, Il libro del Coppiere, Carocci, Roma 2003). Cardine di questo nuovo ethos amoroso è la netta separazione - esistenziale e non solo funzionale!- tra la figura dell’amante e quella dell’amato, ove il primo rapidamente si configurerà come una sorta di «schiavo d’amore» e il secondo come «tiranno» sans merci, con intuibili e sempre possibili trasposizioni - una prassi comune nella critica autoctona - sul piano dell’eros mistico. Da una parte obbedienza, fedeltà, dedizione incondizionata, dall’altra l’arbitrio, il dispotismo amoroso, la crudeltà gratuita… nessuna possibilità di scambio di ruoli è data, qualcosa che resta in un certo senso incontemplabile. Qui davvero si stabilisce un parallelismo evidente tra ethos amoroso e ethos cortese-cavalleresco (v. in proposito lo splendido saggio di M. MANCINI, La gaia scienza dei trovatori, Luni, Milano-Trento 2000); ma evidente è anche, si diceva, l’immediata trasponibilità di questo rapporto, di totale soggezione amorosa, sul piano dell’eros mistico: l’amato, di regola innominato, cantato da tanti poeti arabi e soprattutto persiani allude con ogni evidenza al Dio del Corano. Anche lo «scandaloso» omoerotismo di tanta poesia araba e soprattutto persiana del medioevo si spiega in chiave mistica: nell’amato cantato dai poeti, il lettore medievale vedeva in trasparenza l’Amato divino. Francamente si stenta però a individuare in Abu Nuwas i prodromi di questo complesso ethos, che sarà poi alla base della «ideologia amorosa» di generazioni e generazioni di lirici arabi, persiani e turchi fino al XX secolo. L’amore in Abu Nuwas tende piuttosto all’avventura facile e reiterata, al possesso fisico senza «metafisiche» (tanto meno mistiche) implicazioni di sorta, all’esibizione spudorata delle proprie conquiste, cosa di cui apertamente e più volte egli si vanta nel Canzoniere.
Ci sembra insomma il poeta abbaside altrettanto lontano tanto dalla Stimmung dell’amor cortese - semmai visibile in un Abbas ibn al-Ahnaf, suo contemporaneo (m. 810 ca.) e teorico del «servizio d’amore» all’amata, di un atteggiamento dell’amante programmaticamente «devoto ed estatico», che influenzerà poi anche il celebre trattato Il collare della colomba del teologo Ibn Hazm, m. 1064 - quanto da quella dei lirici persiani successivi che cantano un eros dalle palesi connotazioni soprannaturali e misticheggianti. Lo «schiavo d’amore» descritto da Abu Nuwas ci appare in conclusione un assai improbabile anticipatore del «martire d’amore» predicato da Ahmad Ghazali e Ruzbehan Baqli, lontano dall’«amor cortese» alla Ibn Hazm, poi ampiamente al centro di tanta letteratura mistico-amorosa araba e persiana posteriore. Ma ci pare anche lontanissimo, per non dire (volutamente?) opposto, dall’altro grande modello arabo, quello di Majnun «martire d’amore» per la bella Leyla e campione immortale dell’amore incompiuto; o di quell’amore che, per dirla alla Corbin, si realizza soltanto nella sfera metafisica dell’Immaginale, anticipatrice di gioie extra-mondane.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2009, nr. 1
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)